Alberto Savinio “buon italiano e buon europeo”

Convegno From the Unity of Italians to the Unity of Italics: the Languages of Italicity around the World

Relazione letta al Convegno From the Unity of Italians to the Unity of Italics: the Languages of Italicity around the World, Università di Philadelphia, 14 – 16 aprile 2011

 

Il primo Savinio: “Les Chants de la mi-mort”  e “La Vraie Italie”

 

 

 

 

 

In quanto all’amore che io sento per il Paese di cui parlo e scrivo è una cosa indefinibile per me; per me che non possiedo ragioni animali e terriere che mi dicano il perché logico del fenomeno. Poiché non sono nato su questa terra; non ho ricordi verso una città che possa chiamare mia, verso una casa paterna che segni per me una terra ferma in mezzo alle grandi mareggiate del mondo.

È quanto confessa Andrea de Chirico, nome de plume Alberto Savinio, in un contributo del 1919 per la rivista “Noi”.[1]

E a molti anni di distanza, in un passaggio di Ascolto il tuo cuore, città, il romanzo-saggio del 1944 dedicato a Milano, sua città d’elezione, rievocando l’infanzia trascorsa tra la nativa Atene e l’antica Jolco, il porto della Tessaglia da cui il mito vuole siano partiti gli Argonauti alla ricerca del vello d’oro, Savinio rilascia una dichiarazione che apre un varco sulle ragioni di quell’ ‘indefinibile’ amore:

Sono nato italiano in Grecia. (…). Un armadietto di casa nostra, con tanti cassettini a vetrina e chiamato “Prodotti d’Italia”, era il microcosmo del mio universo amato.[2]

Si direbbe che sia proprio questa immagine dell’Italia, costruita dalla sua psiche infantile e irrimediabilmente perduta con la partenza nel 1906 da Atene per Monaco di Baviera, all’origine della ferita di inappartenenza che scandisce la prima stagione del suo percorso artistico.

Di qui la esibizione di credenziali di italianità generosamente disseminate negli scritti degli anni Dieci/Venti. Segnale non ambiguo la stessa scelta del Risorgimento quale sfondo mitico del poema drammatico in lingua francese con cui nel 1914 Savinio esordisce nella Parigi di Apollinaire: Les Chants de la mi-mort, sottotitolo Scènes dramatiques d’après des épisodes du “Risorgimento”.

L’azione propriamente drammatica si svolge all’interno di una torre ed è preceduta da due brevissimi atti: La rencontre e L’épiscope. In chiusura Le chant de la nuit dove tornano dettagli scenici già presenti nella  Préface poétique: la grande candela che brilla a una finestra, la nave militare che si allontana dal porto, il suono della «cloche de minuit», la presenza di un uomo senza volto che gioca con sfere multicolori.

È nello spazio sottilissimo tra il sonno e la veglia, vigili i meccanismi del pensiero, che Savinio gioca la sua prima ‘partita’ con l’arte, testimoniando l’ascendente di quella linea di pensiero che ha in Schopenhauer, Wagner, Nietzsche e Freud i referenti più autorevoli, avvicinati già negli anni formativi vissuti in quel crocevia di culture che è Monaco di Baviera di inizio Novecento.[3]

La vicenda procede per lampi improvvisi, in un ribollire di invenzioni fantastiche ad alto tasso simbolico: due angeli entrano attraverso gli oblò e si inginocchiano al centro della scena nell’atteggiamento di guardiani di tombe, quindi si presentano alla ribalta l’uno dopo l’altro l’Uomo-calvo, l’Uomo-giallo, Daysissina, la Madre di pietra, gli Uomini-bersaglio, personaggi che scompaiono subito dopo quasi si trattasse di fantasmi che affiorino allo spazio della coscienza per rientrare poi nell’indistinto.

Nella parte superiore della torre, in una stanza a forma di cono, tappezzata di rosso e illuminata da due finestre a forma di oblò, la presenza ingombrante di un letto, una sorta di catafalco protetto da un tendaggio nero che rimanda al celebre quadro del fratello Giorgio de Chirico del 1912, Enigma dell’oracolo; al centro, la statua equestre di Vittorio Emanuele re d’Italia; altre statue, un po’ dappertutto.

Ha luogo qui lo scatenamento della passione in una scena di amore / morte, mentre di lontano irrompe improvviso, in italiano, l’avvio di un canto di volontari:

Ad-dio mia bel-la, ad-di-o!

L’a-armata se-e ne va (pararam, pam, pam),

e se non partis-si anch’io

sarebbe una viltà…

e se non partis-si anch’io

sarebbe una viltà…

La scansione ripetuta del distico finale si direbbe ancora un segnale della esigenza di Savinio di marcare una appartenenza che di fatto la stessa insicurezza nell’uso della lingua italiana rende problematica, dal momento che la patria è in primo luogo la lingua.

Confesserà in una lettera a Giovanni Papini da Ferrara del 17 gennaio 1916:

Altro che disabituato dall’italiano! Io, italiano, non ho mai scritto nella mia lingua! Quei periodi che Le paiono più francesi che italiani, sono appunto delle note scritte in francese e tradotte con sommo fastidio. Non lo dica a De Robertis; lo inciti a pubblicarmi, almeno in Febbraio.[4]

La rivista in questione è “La Voce”, alla quale di fatto Savinio collaborerà con scritti che confluiranno in Hermaphrodito, il volume pubblicato nel 1918.[5]

Recita l’incipit di uno di quegli scritti, in cui il richiamo al Risorgimento è già nel titolo, Epoca Risorgimento:

“48”, cifra figurativa del nostro risorgimento. (…).

Dal 1850 al 1875: periodo più felice per la vita morale del nostro paese.

Torino, capitale: vero frutto temporaneo di quella fioritura. Epoca forte unita a purezza insieme a gentilezza veramente meravigliose.

Fermento e azione naturalmente dotati di limpidezza classica. Momento del miglior latinismo moderno.[6]

Quella che fin d’ora si configura in maniera inequivoca è una idea di italianità rigorosamente sottratta a chiusure nazionalistiche.

Testimonianza non trascurabile in questa direzione la collaborazione di Savinio alla rivista fiorentina che Giovanni Papini, alla fine del primo conflitto mondiale, decide di fondare a Firenze con l’obiettivo di far circolare in Europa una immagine dell’attualità culturale e politica dell’Italia al di là dei soliti stereotipi.

Febbraio 1919 – maggio 1920 è il breve spazio di vita della “Vraie Italie”, il mensile, redatto in francese nelle edizioni fiorentine Vallecchi, il cui sottotitolo recita: Organe de liaison intellectuelle entre l’Italie et les autres Pays.

È una vicenda editoriale che si colloca in una situazione politica generale di massima ambivalenza. Gli articoli non sono firmati, almeno nella fase iniziale, a sottolineare l’omogeneità ideologica e culturale del gruppo redazionale ma di fatto sono da attribuire al direttore Giovanni Papini, la cui presenza, a partire dal fascicolo di aprile, diventa tuttavia assai defilata a vantaggio di Soffici, per la riflessione politica, e di Savinio, per l’attualità culturale.

Nell’ultima fase, in seguito al contrasto insorto tra Papini e Soffici riguardo all’azione di D’Annunzio a Fiume, la presenza di Savinio diventa decisiva, con articoli che costituiscono tessere a tutt’oggi non trascurabili nella bibliografia critica di Ungaretti, Bontempelli, Pizzetti, Soffici.

Con il fascicolo di maggio (1920), dopo una pausa di sei mesi, l’esperienza della “Vraie Italie” si chiude.[7]

Importanti all’inizio erano stati i consensi anche se solo in ambito nazionale.

Piero Gobetti, dopo l’uscita del primo fascicolo, scriveva a Papini il 3 febbraio 1919:

Ricevuta la “Vraie Italie”. È fatta molto bene – assolutamente necessaria. Ottimo il carattere d’indipendenza e vivacità dato. Il primo numero riesce a non esser accademico e insieme tutt’altro che superficiale. Dà un’idea vasta di ciò che si pensa in Italia. L’annuncerò nelle mie “Energie Nove”, la modesta rivista di rinnovamento che vado imponendo in questa saracena Torino. Ho disposto perché ve la si mandi in cambio della “Vraie Italie”. Congratulazioni.[8]

In realtà l’intenzione iniziale di Papini era di dar vita a una rivista settimanale che ripetesse l’esperienza della “Voce” e il fatto che volesse giovarsi della collaborazione di Prezzolini è un segnale abbastanza esplicito in questa direzione. Recita una sua lettera a Prezzolini del 19 novembre 1918:

Sarà un settimanale di chiarimento e riordinamento di idee per collaborare alla nuova Italia. Dovrebbe occuparsi di tutto ma in articoli brevi e vivi. Ripiglierebbe in un certo senso, piuttosto le tradizioni della Voce che di Lacerba. Son sicuro che ti piacerà e spero che potrai anche lavorarci.[9]

Ma poco dopo, il 25 gennaio 1919, sempre a Prezzolini:

La rivista non la fo più (…) fra pochi giorni riceverai il 1° numero di una rivista diretta da me. Che mistero è questo? Ecco: La rivista è mensile e non settimanale – è in francese e non in italiano – è informativa più che polemica.

Si chiama la “Vraie Italie”. Vuol essere un tentativo per far conoscere le idee, le tendenze, le forze, le debolezze, le persone dell’Italia agli stranieri al di fuori delle propagande ufficiali, ufficiose ecc. Dunque libera, disinteressata, sincera. Mi accorgo sempre più che fuori ci conoscono poco e male. E la colpa è della lingua, specialmente, che pochi leggono. Ho pensato dunque di rivolgermi agli stranieri in una lingua più diffusa e familiare, cioè il francese, benché la rivista non sia rivolta solo ai francesi (ma io non so scrivere l’inglese che forse prenderebbe più gente).

Credo di fare opera utile e patriottica. Invece dei soliti giornalisti e burocrati è uno scrittore italiano conosciuto che si rivolge direttamente, lealmente agli stranieri. Perché un nuovo ordine si faccia nel mondo è necessario che le nazioni si conoscano meglio tra loro. Io sento di far conoscere meglio il mio paese. (…) questo primo numero è fatto quasi interamente da me. Le questioni attuali in Italia e a Parigi mi addolorano molto. Non è quello che avevamo sperato per la vittoria.

Mi pare che l’imperialismo (sostenuto dalla Finanza predona e padrona) sia più pericoloso di prima, mutato paese e linguaggio.

Cosa fa Bissolati? Ho sentito per lui una profonda simpatia. Se lo vedi digli da parte mia che non è così solo come sembra.

Il tracciato politico della rivista, seguendo il filo dei diversi interventi, può ricondursi ad alcune costanti che rimandano allo stato di diffusa insoddisfazione di una piccola borghesia che, uscita vittoriosa da una guerra vissuta in chiave di mitizzazione eroica, si lascia andare a un atteggiamento di montante irritazione contro i paesi alleati, in particolare la Francia, giudicati incapaci di valutare e premiare l’azione italiana. A ciò si aggiungano le aspirazioni ‘imperialistiche’ avanzate dietro la maschera dell’irredentismo e severamente frustrate nelle trattative di pace sul fronte orientale, dove la questione iugoslava si chiuderà di lì a poco con un colpo di mano di D’Annunzio, beffarda smentita del tentativo di mediazione perseguito da Papini con la “Vraie Italie”, la cui esperienza del resto si concluderà, come si è già accennato, nell’ottobre dello stesso anno 1919. Uscirà ancora un fascicolo nel mese di maggio dell’anno successivo, dopo un semestre di imbarazzante silenzio, ma sarà unicamente par bon ton.

Nell’articolo di congedo, Adieu, Papini è molto perentorio:

Devo dire soltanto in poche parole le ragioni che ci consigliano – il mio editore Vallecchi e me – di far sparire questa pubblicazione. (…). Durante e dopo la guerra sono state fondate centinaia di riviste “nazionali” o nazionaliste ad uso dell’opinione pubblica europea. (…). Quasi tutte erano redatte in francese. Si è creduto che la nostra fosse del numero. Non si è compreso che la “Vraie Italie” era la prima e la sola che fosse realmente disinteressata, vale a dire fondata da due o tre uomini al di fuori di tutti i partiti e di tutti i raggiri della politica, senza l’appoggio né morale né materiale di alcun governo e di alcuna organizzazione ufficiale. Essa è stata fondata – con un candore straordinario in questi tempi – per ragioni soprattutto spirituali, per un atto di fede, che potrebbe dirsi utopistico e quasi poetico, con l’idea di servire questo paese e gli altri con perfetta lealtà, senza speranze di sorta, senza miraggi di ricompense o di profitti.(…).

In realtà è venuta meno in Papini la fiducia di poter concretamente incidere nell’attualità politica europea: di qui la decisione di chiudere l’esperienza della “Vraie Italie”. L’amarezza è palpabile:

Noi avevamo chiesto, con tutta l’umiltà necessaria, di essere aiutati. L’editore si sarebbe contentato di avere un numero di abbonati sufficienti per pagare almeno la carta; il direttore si sarebbe contentato di essere letto da una maggioranza di francesi, inglesi, americani piuttosto che da una maggioranza di italiani. Ma sembra che l’indipendenza spaventi. È talmente rara, soprattutto oggi, che si rifiuta di ritenerla possibile o reale.

Perché se essa esiste, anche in un punto unico della terra, essa è un rimprovero evidente per tutti. E allora coloro che odiano ogni forma di indipendenza si sforzano di ridurre al silenzio le voci importune e inattuali – sovente con il disprezzo e la freddezza oppure, se ciò non è sufficiente, con la calunnia. Davanti alla folla sterminata di laquais che riempie il mondo noi confessiamo la nostra disfatta.

E subito dopo Papini non fa a meno di richiamare gli equivoci insorti con gli interlocutori privilegiati che avrebbero dovuto essere gli intellettuali francesi. Nel corso dell’estate non era mancato infatti un violento attacco dell’ “Intransigeant” (26 agosto) in cui la “Vraie Italie” era definita una rivista che «tenta di essere redatta in francese per essere più violentemente e più grossolanamente antifrancese».[10]

Di fatto a compromettere irrimediabilmente le sorti della rivista era intervenuta la presa di distanza di un Soffici cedevole alle lusinghe del nascente movimento fascista.[11] Si ripercorra un passaggio della sua lettera a Papini del 19 settembre:

(…). Circa la faccenda di Fiume, io non sono del tuo parere. Prima di tutto io non penso che una città italiana si possa indifferentemente prendere o lasciarsela prendere. Poi l’azione di D’Annunzio ha per me questo gran merito di rispondere al sentimento profondo di tutta l’Italia avvilita e irritata, esasperata, e di metter tutti i mezzi calzoni del mondo davanti ad un atto che domanda altri atti molto chiari.

Terribili o felici: agire è sempre meglio che discutere specie con la gente che non è sensibile se non alle manifestazioni violente della forza.

Vedrai del resto che la migliore boria mondiale si inchinerà davanti al fatto compiuto.

Se tu vivessi fra gli uomini capiresti come D’Annunzio abbia ragione quando dice che in questo momento in un mondo di viltà e di farabuttaggine, la sola cosa pura sia Fiume. È una città appassionata.

Su tutt’altra linea l’atteggiamento di Papini che in una lettera a Prezzolini del 17 ottobre confessa a proposito di D’Annunzio:

L’ho attaccato altre volte, sono uno scrittore anch’io, non son combattente… Potrebbero darmi facilmente sulla voce: gelosia, disfattismo ecc. E sto zitto. Ma non sto inoperoso (…). Credo che tu abbia scelto la buona parte quando hai scelto di lavorare per la cultura, per il rinnovamento spirituale degli italiani[12].

Con il passaggio della conduzione a Savinio, presentato dallo stesso Papini ai lettori della “Vraie Italie”, già nel fascicolo di aprile, come «the passionate pilgrim dalla Grecia all’Italia, dall’Italia alla Baviera, dalla Baviera a Parigi, di musica in musica, di letteratura in letteratura», subito evidente il mutamento di linea della rivista: l’attenzione non è più all’attualità politica ma al mondo dell’arte e in particolare alla letteratura, in assoluta coerenza con quella sorta di autopresentazione che è Culture, il  primo contributo firmato, nel fascicolo di maggio 1919.

Recita l’ incipit:

Una vera e propria tradizione culturale forse non è un fenomeno di superficie nel nostro paese. Per natura non tolleriamo la sottomissione ininterrotta al servizio di una scuola. Al contrario, l’amore istintivo che abbiamo per la cultura oltrepassa gli angusti limiti di questo o quel metodo.

È palese che l’obiettivo primario di Savinio è portare all’evidenza quale carattere peculiare della cultura italiana quella linea di pensiero antisistematico in cui egli stesso si riconosce:

I tentativi di cultura militaristica, non hanno mai avuto successo, da noi. La recente débacle di Benedetto Croce, in quanto alto funzionario di un metodo culturale, ne è l’esempio più  penoso.

Quindi, fermando l’attenzione in particolare sulla letteratura, invita a una riflessione sul Leopardi scegliendo un’angolazione diversa da quella propugnata dalla rivista romana “La Ronda”. Savinio non si limita infatti a spostare l’accento sul prosatore ma guarda alla sua opera e in verso e in prosa sottolineando la necessità in primo luogo di sottrarla all’ ombra lunga del pessimismo cosmico:

Il caso di Leopardi è sorprendente. E, a proposito di questo poeta, prosatore, filosofo, sarebbe tempo di valorizzarlo alla luce di una conoscenza più approfondita. Sarebbe tempo di distruggere lo stupido luogo comune del pessimismo, associato alla memoria di questo luminoso pensatore.

(Non è intollerabile vedere il nome di Leopardi sempre grottescamente coniugato al ritornello della rinuncia alla vita? Allo stesso modo di quello di Machiavelli che si trascina dietro il volgare malinteso del machiavellismo?)

È ammissibile in effetti, (allorché tanto clamore fu fatto intorno al nome di Nietzsche) che il nome di Leopardi sia, generalmente, conosciuto attraverso alcune opere giovanili? Che le Operette Morali, la mirabile raccolta dello Zibaldone, restino ancora (e persino in Italia) niente altro che titoli di opere incomprensibili e mal lette? Che non si sia mai parlato della straordinaria ironia di quest’uomo? Del ruolo vivificante della sua poesia? Della sua illuminazione davvero profetica? Del perfetto equilibrio di poesia, stile, forza spirituale? Della portata del suo ingegno che lo colloca, ancora oggi, tra gli spiriti moderni e  dell’avvenire?….

Savinio invita a guardare all’opus leopardiano come al più luminoso esempio di un’arte in grado di tradurre il fiorire intuitivo del pensiero, con tutto il suo alone emozionale, in un linguaggio di apollinee trasparenze, che è anche la sua scommessa nella fase aurorale del proprio percorso artistico.

La  riflessione torna sull’attualità culturale italiana e il giudizio diventa sferzante:

Ciò per mettervi in guardia contro la cultura, per così dire, placcata, che è solo un apparato esteriore e fittizio dietro cui, troppo spesso, gli uomini di lettere amano ripararsi, nell’illusoria speranza di dissimulare la loro personale inconsistenza.

La cultura, così concepita, degenera in mania, in vizio – un vizio che ha troppo spesso corrotto le nostre epoche letterarie – . L’esempio più recente e più tipico di cultura placcata è quello di Gabriele D’Annunzio.

È tuttavia la moda D’Annunzio a infastidire in primo luogo Savinio e la precisazione non si fa attendere:

Citiamo il maestro e sottintendiamo i suoi innumerevoli imitatori, di cui tutto l’insieme compone il celebre gruppo che tratta la science du plaqué.

Subito dopo uno scatto ironico che ribalta il punto di vista:

Considerate le conseguenze nefaste che un dilagare della cultura placcata avrebbe potuto avere sullo spirito delle nostre giovani generazioni, siamo pronti a riconoscere alcun meriti al ruolo giocato dalla divinità purificatrice, l’Ignoranza….

Attualmente, soprattutto dove queste tendenze estreme sono condotte a inabissarsi nel vuoto, vediamo la nostra vita spirituale assestarsi di nuovo su basi autentiche.

A un anno di distanza, nel fascicolo di maggio del 1920, chiudendo quella breve ma intensa esperienza, Savinio può congedarsi in linea con l’ Adieux di Papini:

Sopprimiamo la Vraie Italie senza rimorsi da parte nostra e con la certezza di aver adempiuto al nostro dovere di buoni italiani e buoni Europei.

È in questo spazio mentale l’italianità di cui renderà testimonianza il suo successivo percorso.

Argonauta delle sempre rinnovate “partenze”, addestratosi fino dagli esordi in un  confronto libero da chiusure ideologiche con gli intellettuali più avanzati dell’occidente europeo, Savinio attraverserà gli stessi anni tra le due guerre immune dai deliri nazionalistici che li hanno tragicamente segnati: a fargli scudo una ironia penetrante e invasiva che aggira e raggira anche i fruitori più avveduti della sua opera, conducendoli in uno spazio dove il centro è dappertutto e mai là dove è atteso.

 


[1] “Noi”, n° 3, 1919.

[2] A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Milano, Adelphi, 1984, p. 166.

[3] Per le ascendenze culturali rintracciabili nel dramma saviniano si rinvia a R. Tordi, Il diadema di Toth, Roma, L’Ateneo, 1986. Senz’altro complicato, ondeggiante tra concessioni e prese di distanza, ma in ogni caso ingombrante già in questi Canti parigini l’ascendente di Freud.

A testimoniare l’intensità e la continuità della frequentazione dell’opus freudiano una confessione di Savinio in anni tardi, nello scritto Per vie deserte, un contributo per il “Corriere d’informazione” del 12 luglio 1948: «Freud è il mio autore preferito. Con molto diletto mi rilessi in Totem e tabù il capitolo dedicato al tabù dei dominatori».

Una successiva conferma in Le cose come sono non come si vorrebbero, ancora un contributo per il “Corriere d’informazione” del 18-19 giugno 1951: «L’esame del fondo umano così come lo praticava Freud, spoglia il fondo umano di ogni soprastruttura idealistica e lo riporta a una condizione schietta.

(…). Quello che a me interessa è la parte fondamentale della psicanalisi: la scoperta del profondo.

(…).

Freud, col tirar fuori la Profondità dal mistero e portarla in superficie, ha creato una nuova visione del mondo: la visione di oggi, la visione nostra».

Non sorprende che Bréton non abbia esitato a riconoscere nella opera prima saviniana un’anticipazione dell’esperienza surrealista, nonostante l’assenza di elementi che legittimino una  trascrizione automatica del materiale dei sogni.

[4] L’originale , conservato nel Fondo Papini custodito presso la Fondazione Primo Conti – Centro di documentazione e ricerche sulle avanguardie storiche di Fiesole.

[5] A. Savinio, Hermaphrodito, Firenze, ed. “La Voce”, 1918.

[6] A. Savinio, Epoca Risorgimento, “La Voce”, 31 maggio 1916.

[7] “La Vraie Italie” è pubblicata con frequenza mensile in fascicoli di trentadue colonne. Nel frontespizio, oltre al titolo, è scritto in caratteri più piccoli: “Organe de liaison intellectuelle entre l’Italie et les autre Pays. Dirigé par M. Giovanni Papini”. Sul lato sinistro sono riportati l’anno e il numero, al centro la città, “Florence”, a destra il mese e più in basso a sinistra il “Sommaire” e le informazioni redazionali.

[8] La lettera è conservata nell’archivio della Fondazione Gobetti a Torino.

[9] G. Papini-G. Prezzolini,  Storia di un’amicizia, vol.I°, 1920-1924, Firenze, Vallecchi, 1968. Se si tiene conto che il primo fascicolo è pressoché interamente scritto dal direttore, la lettera di Gobetti è una autorevole conferma dell’ascendente che Papini, nell’immediato primo dopoguerra, continua a esercitare sui giovani, nonostante la mancata partecipazione al conflitto gli abbia fatto perdere centralità nel dibattito politico.

Sta di fatto che proprio nel biennio 1919-1920 in cui si colloca l’esperienza della “Vraie Italie” Papini avverte con urgenza la spinta verso una riflessione che pur sottratta ai diktat dell’immediato presente sia tuttavia tale da consentirgli di riguadagnare piena autorevolezza: nell’agosto 1919 interrompe infatti il suo Rapporto sugli uomini e si dedica alla Storia di Cristo che, pubblicata nel 1921, segnerà una sorta di spartiacque tra la prima fase del suo percorso artistico, caratterizzata dal contrasto di teorie rivali, e quella successiva dominata da un unico sistema fortemente centrato, anche se, come osserva Baldacci, il Papini laico non sarà mai del tutto recuperato dal Papini cristiano ché un più o meno sotterraneo laicismo continuerà ad affiorare anche nelle opere più tarde allo stesso modo che preoccupazioni di ordine metafisico attraversavano la produzione degli esordi.

È legittimo in ogni caso ipotizzare che Papini, sulla spinta di un lucido calcolo politico e al contempo nella convinzione che letteratura, filosofia, religione e politica non siano pensabili come dimensioni separate e autonome ma costruiscano trame composite se non addirittura intrecci indissolubili, decida di aprire il dialogo su un doppio fronte – scrivere la Storia di Cristo, un’opera destinata a esercitare uno straordinario impatto emotivo nell’immaginario collettivo, e parallelamente mettere in campo una rivista mensile in francese di politica e cultura quale la “Vraie Italie” – al fine di riguadagnare, attraverso una ribalta europea, autorevolezza a livello nazionale, dopo la deludente esperienza romana del biennio 1917-1918, segnata dalla collaborazione a “Il Tempo” di Naldi.

Scrive a Olga Signorelli il I° novembre 1918: «Siamo, come vede, allo sfasciamento. Dentro l’anno avremo la fine. Ma il ’19 e il ’20 saranno gli anni più duri e difficili e ci vorrà un altro esercito (senza uniforme) per rimettere le cose in ordine. Io penso a una rivista per il gennaio».

[10] Immediata era stata la replica di Giuseppe Ungaretti con una lettera pubblicata dal giornale francese e riproposta nel fascicolo di settembre della “Vraie Italie”. L’indignazione fin troppo gridata deve risultare perfino sgradita a Papini dal momento che il suo nome risulta tout court accostato a quello di D’Annunzio, il “nemico” di sempre e a quello di Mussolini del quale, almeno negli anni in questione, non condivide le scelte ideologico-politiche. «Voi non potete nemmeno per un istante sospettare di francofobia – recita la lettera di Ungaretti -  uomini quali Papini e Soffici che scrivono nella rivista incriminata . Da venti anni questi uomini hanno impiegato il loro talento, la loro intelligenza, il loro cuore per un avvicinamento sempre più stretto tra Francia e Italia. Ricordatevi anche, Signore, ciò che fu l’annata 1914-15 per l’Italia. Si trattava allora di far passare nell’intera anima italiana un grande slancio d’amore per la Francia. È all’opera di uomini come D’Annunzio, Mussolini, Soffici e Papini che ciò è dovuto. Voi conoscete, senza dubbio, il numero dei nostri morti, conoscete anche la miseria economica in cui la guerra ci ha affondato. È per amore della Francia che abbiamo sofferto e sopportiamo ciò. Avevamo sperato di guadagnare l’amore fraterno della Francia. Ma voi conoscete ciò che gli ultimi mesi hanno apportato di umiliazione, di delusione per l’Italia. Voi conoscete i calcoli, le manovre, gli intrighi con i quali si è sacrificata l’Italia.

Come meravigliarsi del grido di indignazione e di sofferenza che gettano coloro i quali hanno amato di più la Francia?

È bene che sappiate in Francia come con una politica assurda si è compromessa l’alleanza definitiva che speravamo di concludere con voi. Davanti a quale formidabile malinteso ci troviamo dunque oggi senza che ne siamo stati avvertiti? Sarà uno dei più gravi misfatti della censura».

[11] Recita la lettera di Papini a Soffici del 19 settembre 1919: «Le tue osservazioni circa il tono, la polemica ecc. sono giusti in massima, sebbene io senta che non saprei parlare altrimenti agli stranieri che mostrano sempre più di esserci ostili in tutto, che agiscono verso di noi con la massima ingiustizia: tutto quello che è stato detto da noi nella Vraie Italie può non essere opportuno ma è vero e questo nessuno può negarlo in buona fede. Nel numero in corso vedrai alcune mie risposte a gente che mi ha scritto nei giornali nello stesso senso di quelli che hanno scritto direttamente a te. Ma come fare se questa è la triste realtà, che un’ intesa diventa sempre più difficile? Capirai che se si deve fare il Nitti e l’Orlando anche in questo campo per il buon esito della pace e per opportunismo, non vale la pena. E d’altra parte polemizzare, lo sai che riscatta tutti i calcoli, le menzogne e le ignominie internazionali.

(…). Avrei bisogno soltanto di quello specchietto dell’imperialismo che ho promesso nel numero in corso come vedrai. È utilissimo, e ti prego di sacrificare un’ora a quella compilazione.

Dopo questo numero di settembre mi sarebbe infatti difficilissimo continuare ad occuparmi della rivista come ho fatto fin qui, per più ragioni: prima perché non mi interessa molto così come è dovuta divenire, poi per mancanza di idee da svolgere in quella forma e con lo scopo vago che abbiamo ormai di far capire alcune cose a chi si frega di tutto, come avviene in questo momento nel mondo intero. Infine perché ho la hantise di mettermi a un lavoro mio, a quelli che amo, sia pittura o letteratura. Dunque a partire da settembre tu dovrai davvero sobbarcarti a quello sforzo un po’ seccante, ma che bisognerà continuare ormai fino alla fine. Io ti aiuterò un poco. Ti avverto però che se vuoi porre un termine alla faccenda bisognerà che fin d’ora tu prepari il terreno con Vallecchi.

Da certi discorsi che ho sentito mi è sembrato di capire che l’idea di continuare fino alla fine dell’anno non è ancora ben radicata. Biagi mi parlò di spese enormi fatte e che si potrebbero coprire soltanto col continuare.

Credo però che non sia questa una cosa che convenga a te né a nessuno. Pensaci e fai per il meglio. (…).

So anch’io che è inutile ed antipatico. Perciò ti dicevo che il meglio è di far punto al più presto».

[12] G. Papini- G. Prezzolini, storia di un’amicizia, op. cit.