La lezione di Giacomo Debenedetti

Cinque Studi - Rosita Tordi Castria

Dal volume di Rosita Tordi Castria Cinque Studi, Roma, Bulzoni, 2010, pagg. 83-107:

  • L’ascendente delle ‘matematiche severe’;
  • Dai quaderni messinesi;
  • Dai quaderni romani.

 

 

 

 

L’ascendente delle ‘matematiche severe’

A lavorare ‘letterariamente’ Debenedetti si è risolto dopo studi universitari dedicati alle ‘matematiche severe’: nell’autunno 1917, essendosi preparato privatamente all’esame di maturità, si è iscritto alla Facoltà di Ingegneria Industriale Meccanica del Politecnico di Torino.[1]

Rievoca quegli anni in occasione dell’assegnazione del premio Tor Margana nel 1961: «Ero un giovane malinconico ed entusiasta, facevo il biennio di Matematica al Politecnico di Torino. Ero completamente rapito da quei teoremi, da quei calcoli, da quegli algoritmi, dalla bellezza propriamente lirica di quei ragionamenti, di quelle associazioni, di quei passaggi, dal trionfo ogni volta inebriante con cui si giungeva alle splendide cadenze dei risultati verificabili, dopo il lungo palpitare nell’inseguimento delle formule successive, a volte ansioso, implacabile nell’accelerare il cuore, come quando si respirano i cromatismi della musica di Tristano».[2]

La ‘musica’ dell’algoritmo, alla quale si è addestrato in quegli anni poco più che adolescenziali, ha creato un’onda lunga da cui la atipicità di un fare critico rigoroso e al contempo suadente,  puntuale e divagante, mai impressionistico.

Debenedetti confessa altresì di aver ricevuto la spinta decisiva ad abbandonare le ‘matematiche severe’ dalla lettura, nel 1920, dei saggi di Renato Serra: «Mi rincuora – recita un passaggio della sua conferenza milanese del 1963, A proposito di “Intermezzo” – l’idea che, in quella stessa Torino intellettuale e operaia, che stava maturando il suo prossimo “no” al fascismo, Serra abbia esercitato, anche su altri, e di ben maggiore statura e destino, un grande ascendente, e sia parso un esempio assai suggestivo: si ricordino le pagine a lui dedicate da Antonio Gramsci. Allora io ero uno studente di matematica. E mi rimproveravo di coltivare le “matematiche severe” con un amore stranamente estetico. I nomi di certi enti algebrici o geometrici, come per esempio “wronskiano dei coefficienti” o “Lemniscata di Bernoulli” mi rapivano proprio per il loro valore magico e incantatorio di eventi verbali. Poi nel saggio di Serra sul Pascoli mi accadde di leggere: “In termini tecnici, la loro ragione (dei versi pascoliani) è meramente quantitativa; il verso è sentito come un accordo di tesi profondamente calcate e di arsi vibranti, come musica pura”. Le parole, la terminologia – arsi, tesi, quantità – che avevo imparato nelle prime scuole, confermavano la loro precisione scientifica e insieme ne estendevano la portata ad applicazioni diverse da quelle che ne avevamo fatte a scuola; ma soprattutto arrivavano a definire fenomeni ed emozioni artistiche con eventi verbali contornati, precisi, ma insieme esaltanti come quelli che mi entusiasmavano nella matematica.

Sotto questo duplice segno, ho iniziato la mia carriera di frequentatore attivo delle lettere. E ricordo anzi che Gobetti (e più tardi anche Thovez) mi contestavano l’astrattezza di voler ridurre tutto a schemi, a operazioni di ordine matematizzante, di voler fare della critica un algoritmo, risolverne i discorsi attraverso una serie di trasformazioni di formule fino al quod erat demonstrandum».[3]

Ma già nel saggio del 1948, Probabile autobiografia di una generazione, relazione letta in apertura del Congresso internazionale del Pen Club tenutosi a Venezia e quindi riproposta come prefazione alla edizione Mondadori 1952 dei Saggi critici, prima serie, Debenedetti confessava che la colpa della sua generazione, quella nata con il secolo, era di non aver saputo pronunciare tempestivamente, nonostante ripetuti tentativi, la parola “rottura” rispetto a quella linea di pensiero di ascendenza hegeliana di cui Croce è stato autorevole depositario e interprete: «Anche a noi toccavano le scapicollate verso l’ineffabile: correvamo per i labirinti dalla strade senza nome, e sull’angolo di un corridoio oscuro ci accadeva di uccidere il “chiaro e distinto”, di ascoltare proposte che lì per lì sembravano risolutive e poi viceversa non avremmo saputo riferire; ma laggiù, in partibus infidelium, non mandavamo che un secondo io, ambasciatore senza credenziali. Erano le avventure di mezzanotte, quando ci aggiravamo per le vie dell’arte, in cerca dei nostri amori, e le eventuali creature dell’ebbrezza e della notte bisognava, all’indomani, poterle riscontrare nella luce dello Spirito; se no, erano state larve libidinose e indecenti. Quello che fosse lo Spirito, l’aveva riassunto il Croce in un glorioso, originale ripensamento del meglio che fosse stato pensato nei secoli» [4].

Il paradosso in cui la sua generazione si è lungamente dibattuta consisteva di fatto nella pretesa di superare Croce restando nelle vie da lui stesso tracciate: «Che il quietismo di discepoli, lo dimostra il fatto che quando il superamento fu tentato a regola d’arte, con utensileria omogenea a quella crociana, sebbene un po’ troppo triviale, il tentativo – da Giovanni Gentile intitolato Filosofia dell’Arte – ci lasciò del tutto freddi e non rispose a nessuna delle nostre aspettative». Dell’invalicabile gap che si era spalancato pressoché in coincidenza con il passaggio di secolo nessuna traccia è avvertibile nel sistema elaborato da Croce, nella sua Estetica: «Molti anni dovevano trascorrere – riflette con palpabile amarezza Debenedetti allo scoccare della metà del secolo – prima che ci accorgessimo, con l’aiuto altrui, che le cosiddette sordità del Croce dipendevano dalle stesse coordinate umane, dallo stesso “orizzonte” storico e mentale, dallo stesso amalgama di responsabilità e di istinto, dalla stessa “linea di universo” che avevano generato l’Estetica, cioè la teoria adatta a rifiutare l’ascolto di ciò che quell’orecchio non sembrava percepire», dove per ‘aiuto altrui’ è da intendere quella linea di pensiero Wagner-Nietzsche-Freud lungo la quale si colloca quanto di radicalmente nuovo si sia prodotto nella cultura del Novecento europeo. Non trascurabile il gesto snobistico con cui Debenedetti liquida l’amministrazione del romanticismo espletata in Italia da Croce: «[…] di un romanticismo concordatario col Classico, esorcizzato da quello che fu trasgressione, irruzione, messaggio riluttante. Ne fa una specie di cattolicesimo, dove intelligentissime pratiche di culto ti permettono di soddisfare, signorilmente e con la contentezza della stretta osservanza, a tutti i debiti e rapporti con la tentazione di “capire”. Nello stesso tempo ti dissuade, con molto tatto, senza mai scoraggiarti, dall’esperienza diretta e dal libero esame».

E nel riepilogare la lunga fatica del disinganno Debenedetti non trascura di rendere ancora una volta un cauto omaggio alle ‘matematiche severe’: «Fin da allora avremmo potuto rispondere al Croce che stava tutto bene ciò che egli ci aveva insegnato, finché leggi scientifiche e calcoli si limitavano a prendere atto della regolarità di un certo gruppo di fenomeni e a prevederne il decorso in base alle esperienze di “fino a ieri”. Ma tutto cambiava, dal momento che leggi e calcoli, veri nel dominio mentale, rivelavano per così dire le stesse intenzioni, la stessa volontà manifestata dai fenomeni, certi nel campo naturale. Anche al conoscere scientifico era concessa quella conversione del vero nel certo, che il Croce riteneva possibile solo nel campo storico. Questo significava per lo meno un mutato sguardo mentale, una differente posizione dell’uomo di fronte al non umano e al perpetuo indecifrabile dell’universo, insomma un diverso entrare nel nostro destino nella figura del cosmo. E fa pure parte del cosmo la poesia, della quale noi desideravamo essere interpreti: e allora perché non prendevamo esempio da quelle nuove spiegazioni del mondo, per lo meno simboliche di un nuovo modo, da parte dell’uomo, di spiegarsi con se stesso?

Ma a quei noialtri di allora farsi imprestare l’ago magnetico della scienza sarebbe parso tanto improbabile, quanto a un giardiniere innestare un cacciavite in un rosaio».

 

Dai quaderni messinesi

Un quaderno dalla copertina scura appoggiato sulla cattedra, come fosse la partitura sul leggio che un direttore d’orchestra tiene davanti a sé per una sorta di gesto di devozione dal momento che non ha alcun bisogno di consultarla.

Dietro la cattedra in piedi il professore: il volto segnato dal tempo oltre il ‘dovuto’, gli occhi di un intenso azzurro che spesso si accendono per lampi improvvisi come se un’idea a lungo inseguita si sia lasciata inaspettatamente catturare, le mani lunghe e nodose che stringono nervosamente un fazzoletto bianco; nell’aula gli studenti in una disposizione d’animo che richiama quella di chi sia consapevole di partecipare  a una funzione sacra.

Il grande saggista intende cercare nell’ambito dell’accademia il banco di prova per una riflessione critica a più lunga ‘gittata’, oltreché il vantaggio di una immediata ‘verifica’ sul campo, quale può essere fornita dalla pronta reattività di un pubblico giovane, quello che abitualmente frequenta le aule dell’Università.

La lezione si apre ogni volta con una veloce sinopsi, quasi una nota prima dell’alzar del sipario, cui spetta di ripristinare immediatamente la tensione necessaria alla ripresa di una navigazione in mare aperto dove è sempre in agguato il rischio di smarrire la rotta ma dove alta è la probabilità di remunerativi incontri.

Scrive Giovanni Macchia in L’ombra di Montaigne: «I libri di Giacomo Debenedetti, nati dalla sua attività d’insegnante ch’egli sentì come una scoperta e che affrontò con entusiasmo, questi suoi quadernetti di scuola, cui affidava gli argomenti dei suoi corsi, così come sono congegnati nella loro volontà di dissimulare ogni forma di didattismo, per salvare, anche quando si deve insegnare, lo stile, sono vicini ai saggi che nacquero per Sainte-Beuve, dalla sua attività d’insegnante: a Losanna, a Liegi e al Collège de France, ove le lezioni non furono mai tenute. Come Sainte-Beuve (accostamento che gli avrebbe fatto piacere), anche Debenedetti redigeva con grande cura le lezioni, le arricchiva di referenze e di note, e dalla cattedra parlava e non leggeva, quasi cercando di tener lontano ciò che aveva scritto. Insegnare diventava per lui un atto di grande libertà: il più diretto di qualsiasi atto critico».[5]

Negli anni Cinquanta, quando si decide per l’insegnamento universitario, Debenedetti è lontano dal fervore che sostiene l’arte neorealistica mentre è attento a cogliere i germi di uno sperimentalismo ‘individualistico’ che si proponga al di là di parole d’ordine e manifesti programmatici.

In questa direzione la frequentazione a Roma, già dai primi anni Quaranta, di Alberto Savinio, artista sperimentale tenutosi a debita distanza dalle diverse avanguardie che si sono avvicendate nel primo cinquantennio del Novecento, ha svolto un ruolo niente affatto trascurabile in una linea di pensiero sganciata da gabbie sistematizzanti e tesa a recuperare il mito classico come simbolizzazione di una esperienza destinata a ripetersi ininterrottamente.

Si ripercorra la modalità con cui nel saggio del 1949, Probabile autobiografia di una generazione, Debenedetti descrive il viaggio del critico: «Orfeo non riporta nel mondo la viva Euridice, riporta invece il racconto di come l’ha perduta, e la bellezza del proprio pianto. Il critico rifà il cammino di Orfeo, guidato da quel racconto e da quel pianto, e riconduce viva Euridice, per aiutare se stesso e gli uomini a capire perché sempre si rinnovino quella perdita, quel racconto, quel pianto, e valgano per tutti e ciascuno ci ritrovi il proprio mito che ricomincia»[6].

Storia individuale eterna, quella di Orfeo e il critico spiega perché sia una storia eterna di tutti e perché il poeta sia uno dei più eminenti cittadini della repubblica degli uomini, malgrado la condanna di Platone.

E successivamente, richiamando la presentazione del suo Intermezzo: «Uno dei nostri filosofi più aperti e progressivi, Enzo Paci, dimostrava in un lucido discorso che gli archetipi, quando divengono funzionali, chiarificatori, operanti in una critica come quella che io auguro e mi auguro, si sciolgono dall’immobilità che li fa essere una volta per sempre, che li agghiaccia in una implacabile, ossessiva indeformabilità. Divengono invece invenzione, prodotto della nostra storia, perdono l’anonimia delle strutture atemporali, infestanti, inesorabili, refrattarie deportate dall’inconscio collettivo». [7]

Sembra di poter cogliere qui il senso delle conversazioni con Alberto Savinio: indubbia la loro somiglianza di sguardo mentale.

Quando Andrea Cortellessa, in chiusura del suo saggio Il “meraviglioso metaforista”. Debenedetti, con figure, nel fascicolo di luglio-settembre 2001 di “Nuovi Argomenti”, rileva che la scommessa di Debenedetti è “La figurazione dell’invisibile. La forma dell’informe”, si direbbe che offra inconsapevolmente la conferma della vicinanza di Debenedetti a Savinio il quale, per segnare la sua distanza dai Surrealisti, dagli automatismi della scrittura da essi praticata, era solito ripetere che il suo obiettivo era di dare “forma all’informe”.

Ed è alla forma aperta del saggio che Debenedetti sceglie di consegnare i risultati della sua riflessione critica nell’intero arco della sua attività dai primi anni Venti alla seconda metà degli anni Sessanta.[8]

Presentando nel 1959 la collana La Cultura nel Catalogo n° 2 del Saggiatore, la casa editrice fondata nel 1958 da Alberto Mondadori, di cui è fin dall’inizio il direttore editoriale, non esita a sottolineare: «Nessun genere a preferenza di altri; eppure uno che nella CULTURA li apparenta tutti, il Saggio. In pochi decenni, quest’ultimo nato della famiglia letteraria si è fatto una posizione da rivaleggiare coi suoi fratelli maggiori: col romanzo di cui emula le invenzioni costruttive e la forza di trascinamento; con la poesia, di cui emula il lirismo nell’intensificarsi della lucidità».

E sempre nel 1959, nella Premessa n° 2 al Catalogo della casa editrice: «“Il Saggiatore”, oltre che a Galileo si rifà al Montaigne degli Essais; il quale scriveva per “saggiarsi”, non per risolversi»

Né è casuale che decida di inaugurare la collana La cultura con il suo volume dei Saggi critici. Terza serie.

Fa rilevare Romano Luperini in Il modello di Debenedetti nella situazione attuale della critica: «Debenedetti ci conferma che il saggio critico, proprio perché ricorre a procedure diverse – di tipo culturale, narrativo e suasorio – è difficilmente codificabile; che la sua natura, oscillando fra dimostrazione, racconto e argomentazione, è comunque ambigua, aperta, spuria, perennemente al confine tra discipline diverse. Ma ci mette anche in guardia contro gli slittamenti a cui, proprio per tale debolezza di statuto, la critica è sottoposta: della deriva verso la scienza e le sue certezze e della deriva verso l’intrattenimento, il misticismo estetico, la scrittura en artiste. L’attualità di Debenedetti consiste proprio nell’indicarci una terza via, più difficile, e tuttavia perfettamente adeguata tanto allo statuto della critica quanto al tramonto dei sistemi e delle certezze, alla problematica di senso, al sentimento della complessità che caratterizzano i nostri giorni».[9]

E Mario Lavagetto: «Per Debenedetti scrivere un saggio equivale a misurarsi con un avversario singolo. Sul suo tavolo da lavoro Freud, Jung, Husserl, Sartre, e magari Marx o Gramsci o la fisica dei quanti hanno la funzione di strumenti, di cui si servirà liberamente e spregiudicatamente a seconda delle circostanze, ma senza mai assumere responsabilità specifiche nei confronti di una teoria».[10]

In questa prospettiva la pubblicazione postuma del materiale erratico delle lezioni universitarie ha dato inevitabilmente luogo a fraintendimenti e giudizi tranchant proprio in quanto non si è tenuto adeguatamente conto che si tratta di scritti non licenziati dall’autore, da assumersi come testimonianza di una ricerca in itinere i cui passaggi decisivi sono affidati alla forma-saggio.

È il caso di Presagi del Verga, il saggio tratto dalle lezioni messinesi degli anni accademici 1951/1952 e 1952/1953 sulla narrativa verghiana, che Debenedetti ha pubblicato nel 1954, nel fascicolo di novembre-dicembre di “Nuovi Argomenti”, riproponendolo poi nel 1959 nei Saggi critici. Terza serie.

Recensendo, nel fascicolo del 6 giugno 1976 di “la Repubblica”, il volume postumo Verga e il naturalismo, che ripropone integralmente quelle lezioni, Gianfranco Contini non tiene in alcun conto il saggio del 1954 e non risparmia fendenti all’indirizzo del professore.[11]

Perentoria la dichiarazione iniziale: «In Debenedetti, che scommette su Vita dei campi – Malavoglia, l’inevitabile paradosso perpetuo è costituito dall’indulgenza verso le prime opere (il presunto “Verga numero uno”), dal rifiuto della “conversione” verghiana (Capuana), […]. Nel fatto le sue “tesi” divergono solo formularmente dalle tradizionali, comunque assate sul “mistero” dell’insorgenza del primo Verga siciliano. La sua posizione si divarica da quella crociana in quanto più che l’oggetto, le interessa la sua nascita».

Quindi rileva che la conoscenza di Debenedetti del nostro patrimonio letterario non risalirebbe oltre l’Alfieri e, con un livore esibito oltre le più elementari convenienze, l’affondo conclusivo: «Quella qui tracciata è espressamente una vicenda di bovarysmi (Verga-Capinera, Verga-Lanti, ecc.) che appunto precedono la ricordata identificazione. Il motivo è troppo insistito perché un grimaldello del genere, trasferito dalla narrativa alla critica (di cui è stata ben rilevata l’apparenza narrativa), non valga per l’autore stesso, che nei suoi passaggi dal modesto angolo di provincia biellese a una Torino tuttora crepuscolare e a una Roma burocratico-culturale, del continuo alle prese (anche sopra la media dei critici militanti) con uomini ed eventi tanto minori di lui, dominato da un eccesso di affabilità e deferenza, sembra pervaso da un “complesso”, se si può dire, d’ammirazione verso quei trascendenti luoghi di lusso dei quali appunto Proust è stato il principale celebratore e analista. La “volontà” di adeguarli e promuoversi in essi fu l’impulso originario di questa patetica carriera».

Al di là della ingiustificabile acredine, il giudizio valga comunque a conferma che i volumi pubblicati postumi, nei quali è confluito il materiale erratico delle lezioni universitarie, non possono di per sé costituire materiale di prova della peculiarità di Debenedetti critico tanto meno quando, come è nel caso dei corsi sulla narrativa di Verga, Debenedetti stesso ha provveduto a estrarne il saggio Presagi del Verga.

Richiama quel saggio del 1954 Mario Lavagetto nell’introduzione alla riedizione 1994 dei Saggi critici. Terza serie, facendo rilevare che è propensione spiccata di Debenedetti «di aspettare gli scrittori agli appuntamenti decisivi, di scoprirli dove la curva del loro destino sembra rivelarsi e assumere una forma oracolare. Così il Verga sarà anche lui spiato nei suoi presagi, attraverso quelle opere che – presentando minore resistenza – offrono più comodi e precisi osservatori: è quando Omero dorme, ha sentenziato Debenedetti, che si possono sorprendere meglio i suoi segreti. La vicenda di Verga era stata presagita interamente in Una peccatrice: “Una di quelle storie fatte per renderci superstiziosi, se è vero che a un certo momento della nostra vita, sibille di noi stessi, noi scriviamo il disegno della nostra sorte in una sentenza, alla quale non ci riesce più di sfuggire”.

Anche Verga insomma porta in sé “uno sconosciuto se stesso” che al momento opportuno verrà a galla e realizzerà quello che si era limitato a scrivere con inchiostro simpatico tra le pieghe di un romanzo giovanile»[12].

È assai probabile che Debenedetti avvertisse l’esigenza di tornare a riflettere sulla narrativa verghiana se nel passaggio conclusivo delle sue lezioni romane sul romanzo, che sono anche le sue ultime, richiama ancora una volta il suo Renato Serra per accusarlo di una sorta di correità: «Le richieste e aspirazioni del nuovo lettore di narrativa, di cui Serra avverte in sé la presenza, non miravano al nuovo, ma certo non si interessavano più al vecchio. […]. Ma Serra non va in cerca di questi perché: si limita a constatare e a descrivere i fenomeni. E vede, in una solitudine sempre più alta e distaccata, il Verga, non più in grado di rigalvanizzare il verismo: “il maestro del verismo si perde, ma lo scrittore grandeggia». [13]

Parafrasando Serra, si potrebbe obiettare che la pubblicazione postuma delle lezioni universitarie costituisca la indiscutibile prova che se il professore ‘si perde’, il saggista ‘grandeggia’.[14]

Nell’ambito delle pubblicazioni postume dei suoi corsi universitari costituiscono senz’altro  un caso isolato i Quaderni di Montaigne anche perché, contrariamente a una scelta divenuta abituale, Debenedetti non ha tratto alcun saggio da quel suo corso universitario messinese 1955/1956 dedicato agli Essais, né ha mai accennato ad esso.

L’attacco è improvviso, un po’ casuale: «Chi era questo Montaigne?».

Ostentando di voler condurre un corso “sans projet”, il professore di fatto segue il percorso biografico di Montaigne, quale è restituito dagli Essais.

E la scelta di questa angolazione di lettura non è di poco conto.

Si ripercorra in questa direzione Critica ed autobiografia, uno dei suoi primi saggi, pubblicato nel “Baretti” del 2 febbraio 1927 e accolto successivamente nel volume della prima serie dei Saggi critici, Edizioni di “Solaria” 1929, quindi  Mondadori 1952.

Si chiedeva allora Debenedetti entro quali limiti «la sana tessitura di un pagina critica si presti ad essere trapunta di più o meno dirette confessioni autobiografiche» e chiamava in campo il De Sanctis dello Studio su Giacomo Leopardi, il grande critico che «durante la vecchiezza lucida e operosa, torna rasserenato ai problemi che altra volta gli avevano fatto tumulto nel cervello e nel cuore».

Lo schema seguito dal De Sanctis è quello di una biografia e Debenedetti: «Del resto, si sa che tutte le biografie sono un po’ delle autobiografie segrete. La loro ispirazione, la loro vera efficacia narrativa e psicologica, derivano dalla scoperta che il biografo fa, dentro se stesso, di motivi di vita più o meno latenti e tendenziali, che avrebbero potuto spostare la direzione di esistenza del suo eroe.

Par proprio il caso di ricordare la vecchia costumanza dei pittori, che chiedevano al ritmo delle loro composizioni ancora un palpito, quasi un respiro di rimbalzo, che concedesse di aggiungere, in un angolo buio e remoto della tela, il loro autoritratto.

Tuttavia bisogna poi vedere, più a fondo, come lo scarto entro cui si svolgono questi episodi personali, abbia una lunghezza più apparente che reale, e sia tutto vigilato e contenuto dalla necessità di arrivare a un giudizio critico».[15]

E poco dopo: «Che se volessimo, in una materia così incalcolabile per sua natura, forzarci a precisare la legge con cui il De Sanctis asseconda in questo studio i suoi spunti autobiografici, potremmo dire che egli si apre soprattutto, in una prima persona appena mascherata, ai ricordi della sua vita mentale: cioè a quelli che sono i meno eterogenei dallo sfondo critico che è stato l’occasione del loro rifiorire. Agli episodi di vita pratica e sentimentale l’accesso è chiuso. Ma alla seduzione di commemorare il suo più privato incontro con il Leopardi, il De Sanctis seppe opporre una robusta sordità».[16]

A render noto quell’episodio personale è un frammento autobiografico di La giovinezza di Francesco De Sanctis: «Parlai una buona mezz’ora… Quando ebbi finito, il Conte (Leopardi) mi volle a sé vicino e si rallegrò meco, e disse che io avevo molta disposizione per la critica».[17]

Chiosa Debenedetti: «Di quelle parole leopardiane, il De Sanctis volle che nemmeno una eco si prolungasse nelle sue pagine critiche sul Leopardi. E dal sorriso che il poeta aveva fatto seguire a quelle parole, non trasse nemmeno un riverbero».

Se dunque nel presentare ai suoi studenti il corso dedicato a Montaigne precisa che l suo obiettivo è di ricostruire la biografia del grande saggista, implicitamente concede il suo assenso al futuro lettore che voglia identificare in quelle sue lezioni gli immancabili, ‘segreti’, risvolti autobiografici.

In questa direzione il suo stesso ricorrere a Blaise Pascal, quale persuasivo interprete degli Essais, può esser letto come segnale non trascurabile di una riflessione che è in primo luogo a chiarezza di sé: «Con la sua testa ordinatrice, da grande matematico, da creatore della teoria delle sezioni coniche e inventore del calcolo sublime, vede che tutte le affermazioni ritrovano i loro nessi; che tutto vi si spiega, anche le contraddizioni», dove è leggibile la incidenza degli studi delle ‘matematiche severe’ nella sua formazione di critico.

Dalla lettura pascaliana degli Essais Debenedetti isola un passaggio che ritiene decisivo: «Montaigne met toutes choses dans un doute universel et si général que ce doute s’emporte soi-même, c’est-à-dire qu’il doute; et, doutant même de cette dernière supposition, roule sur elle-meme dans un cercle perpétuel et sans repos, s’opposant également à ceux qui assurent que tout est incertain et à ceux qui assurent que tout ne l’est pas, parce qu’il ne veut rien assurer».[18]

Partendo dall’assunto pascaliano di Montaigne grande maestro del dubbio ‘universale’, il professore tende allo sfuggente autore in esame una serie di trabocchetti fino a inchiodarlo a quella che gli sembra la prova schiacciante, senza appello: è l’introversione la premessa, la condizione base dell’autore degli Essais «per esprimersi, cioè per estrovertirsi nell’opera letteraria».[19]

Subito dopo il professore avanza uno spiazzante avvicinamento di Montaigne a Proust: «Ci è già capitato di menzionare un altro grandissimo personaggio della letteratura francese; del quale, man mano che ci familiarizziamo con Montaigne, vediamo sempre più stupefacenti le somiglianze, le affinità col nostro scrittore: si tratta, ripetiamo, di Marcel Proust. Anche Proust non cessa di lamentare, di deplorare in sé la scarsità di quelle doti che, viceversa, vediamo giganteggiare nel suo romanzo, Anzi, sul timore di difettare di quelle doti, nasce uno dei movimenti di fondo: appunto, uno dei movimenti strutturali del romanzo; che, in un certo senso, è il libro di chi si dispera di non saper fare il libro».

E tornando agli Essais: «In Montaigne, questo lamentarsi è meno patetico, meno decisivo per il divenire della sua opera; però forse è provocato da una ragione analoga a quella che lo produce in Proust. Entrambi sono grandi maestri dello scavo interiore; tutti e due producono capolavori, che hanno come posta, come supremo e sorprendente risultato, di esteriorizzare, di rendere visibile un immenso fenomeno di introversione. Ma il grande sogno degli introvertiti è quello di prodursi in una vita attiva, estrovertita. Di qui la delusione sui loro mezzi, che li portano a vincere su un terreno diverso da quello sperato: che, proprio con la riuscita raggiunta, smentiscono il loro sogno».[20]

Il gioco di specchi è ormai fin troppo scoperto e il professore corre ai ripari avanzando a sua discolpa il fatto che gli Essais «è un libro che incessantemente ci riguarda, ci compromette e ci coinvolge tutti: e da secoli sta collaudando questo suo potere di riguardarci tutti, di presentare nei termini e modi di quello che Gide (nel saggio su Dostoevskij) chiamerebbe un maestro dubitativo, i dati dei nostri problemi, di enucleare la più ricca delle nostre problematiche umane e morali, avviandone volta a volta le soluzioni con proposte insieme ambigue e concrete, multiformi e tali tuttavia che hanno l’aria di essere univoche».[21]

Il professore sposta quindi l’attenzione sulla scrittura di Montaigne: «Una prosa filigranata di poesia allo stato potenziale e nascente»[22], configurando la singolare fisionomia di uno scrittore dal doppio incanto: «di poeta, per quel segno che incorpora attimi privilegiati; prosatore, per il suo fare razionale, per il suo modo di porgere gli stati d’animo in forma di argomenti rivolti alle ragioni della nostra mente e non alla affascinata credulità del nostro animo e del nostro cuore (che è poi la disposizione sollecitata in noi dai poeti-poeti, come li chiama André Gide). Ma si potrebbe ancora aggiungere che il suo modo di fare appello alla ragione coniuga la forza, o il prestigio, delle buone ragioni con una certa musica della ragionevolezza, che è essa stessa una creazione di poesia».[23]

Affrontando quindi la lettura del terzo libro degli Essais, quello conclusivo, il professore chiama in campo la presenza del grande filosofo-scrittore tedesco di cui ha senz’altro subito la seduzione nei suoi anni giovani, anche per il complesso rapporto con Wagner, quest’ultimo senz’altro il maestro più amato: «È il libro in cui troviamo il Montaigne più scrittore: che vuol anche dire più capace di modulazioni, di allusioni, di sottintesi. Per dirla alla Nietzsche è il periodo della sua “gaia scienza”. Può far passare tutto nella parola: il canto principale e insieme le armoniche più segrete».[24]

È qui che il professore attendeva Montaigne: «Aveva la vocazione di scrittore, e le vere vocazioni come la sua si impongono come un destino, comandano alla vita, […]. Non si sfugge al proprio destino».[25]

Il gioco di specchi, fin dall’inizio istituito, cede il posto a una confessione senza schermi: «Qualcuno ha detto che il carattere di certi ultimi libri di autori grandissimi, è una specie di sincerità disperata, un bisogno di scoprire il fondo, di dire la loro verità più segreta, che fino allora avevano tenuto celata o, quanto meno, avevano attenuata per una sorta di rispetto umano. Non so se sia il caso di Montaigne: se la sua più profonda sincerità sia in questo finale giocare con le idee, quasi con la voluttà di questa gran commedia delle opinioni e delle idee. Certo, dietro il gioco, mi sembra si possa scorgere un relativismo sconcertante, quasi sgomentevole, proprio quello di cui si sgomentava Pascal».[26]

E quando il racconto sulle tracce di Montaigne iniziatore dell’autoanalisi – «alla vigilia della scoperta in campo scientifico del calcolo infinitesimale, inaugura uno straordinario calcolo infinitesimale nel campo psicologico» – si direbbe concluso, ecco un risvolto fulmineo che consente al professore di «afferrare Montaigne l’inafferrabile; di poter ricondurre questo mobilissimo protagonista della diversità a un unico denominatore, per di più accessibilissimo all’esperienza di tutti: l’amicizia».[27]

Si direbbe che nel gioco di specchi si avverta ora distintamente un terzo interlocutore la cui presenza segreta ha accompagnato l’intero svolgimento del corso sugli Essais: Alberto Savinio, l’amico da poco scomparso, il poliedrico e mercuriale artista di cui  Debenedetti ha invano tentato di fissare un credibile profilo[28].

Confesserà qualche anno dopo, presentando un piccolo libro di poesie di un comune amico avvocato: «Ma ora ti posso confessare, caro Bucciante, che quando la lettura dei tuoi versi mi offrì l’occasione di ritrovarti, il movente che mi spinse ad approfittarne era già abbastanza interessato. Speravo non soltanto di riaprire, con un nuovo e competentissimo interlocutore, il sempre desiderato discorso intorno a Savinio; ma di trovare nei tuoi ricordi altri suoi aspetti, forse ancora più ingenui e confidenziali, che a te forse egli aveva rivelato. O non anche di scoprire quell’altro Savinio, che si manifestava grazie alla tua presenza, come succede in certi epistolari, dove lo stile e la maniera di caratterizzarsi del protagonista mutano col mutare dei corrispondenti».[29]

Ed è sul tema dell’amicizia che piace a Debenedetti chiudere la sua biografia di Montaigne: «Montaigne è il protagonista di un’amicizia, la quale, a sua volta, può essere considerata come un sentimento protagonistico degli Essais. E allora ci pare, almeno per un momento, di possedere la definizione di quell’uomo, di quello scrittore, che ha sempre l’aria di fondare la propria grandezza su una specie di evasività, sulla qualità proteiforme della sua indole. La definizione potrebbe suonare: Montaigne, ovvero l’amico».

È su questa lode dell’amicizia che il professore chiude il corso sugli Essais o piuttosto la biografia d Montaigne e, mutatis mutandis, la sua autobiografia.

 

Dai quaderni romani

«Quando nel fantasticar di Sigfrido sotto il tiglio la nostalgia della madre si colora di erotismo, quando Mime cerca di spiegare al discepolo la paura, mentre in orchestra echeggia oscuramente deformato il motivo di Brunilde addormentata tra le fiamme, abbiamo Freud: psicanalisi null’altro che psicoanalisi».

È un passaggio straordinario del saggio di Thomas Mann Dolore e grandezza di Richard Wagner che per noi è impossibile rileggere disgiunto dalle emozioni, dall’invincibile stupore con cui l’ascoltammo dalla voce di Debenedetti nel corso delle sue lezioni universitarie sulle vicende del personaggio-uomo nell’arte moderna.

Quella sua consuetudine di parlarci tormentando con le mani un contenitore metallico di sigarette, che non si lasciava aprire se non ad intervalli predisposti, quel suo modulare le parole, accompagnato da uno sguardo che Alberto Savinio non avrebbe esitato a definire doppio, fermo cioè sull’oggetto in esame e al tempo stesso «riguardando di là da questo, mirandone lo spettro», che è in quanti il guardare costituisce un’operazione illuminata, un atto che suscita commozioni mentali, rendevano la lezione un incontro con un pensiero capace di conseguire una persuasività raccolta e al tempo stesso soggiogante. Verrebbe voglia di dire che il suo interrogare i testi ci si offriva come un «interrogatorio della gelosia», secondo l’immagine che egli stesso amava suggerire per il suo Proust sulle tracce di quell’essere di fuga che è il vissuto. E come si conviene a chi sa che le confessioni più preziose devono avere l’aria di arrivare da sole, attentissima è la sua cura perché la verità che il testo custodisce si lasci afferrare, senza visibili estorsioni. Sintomatico il passaggio in cui Proust racconta il suo sostare davanti alla siepe di rose del Bengala, in attesa dell’attimo in cui l’involucro che avvolge il reale si apra e lasci affiorare il suo segreto, che scandisce, come una sorta di leit motiv, tutto il discorrere di Debenedetti intorno alla cultura europea del Novecento – con felici incursioni nel Cinquecento di Montaigne, nel Settecento di Alfieri, nell’Ottocento di Verga e di Tommaseo ma anche di Wagner e di Verdi – teso a illuminare il tracciato di destino dell’uomo d’Occidente costretto, alle soglie del secolo, alla più alta sfida, seguita alla vanificazione degli “assoluti”.

In Personaggi e destino, un saggio del 1947 che scandisce un momento importante della riflessione debenedettiana: «La perdita del padre è la scena iniziale di una storia, che è già stata raccontata sotto il titolo di Avventura dell’uomo d’Occidente. Lo stesso racconto ha fatto anche Alberto Savinio, con la conclusione che il carattere tremendo del nostro secolo è dipendente da una “perdita dei modelli”. […]. E Wagner, vogliamo dirlo, continua ad affascinarci, perché smuove le nostre fantasie dello ieri nel punto dove toccano le nostre angosce di oggi».[30]

E assai probabilmente è stata proprio la musica di Wagner – quella in particolare dei Maestri cantori di Norimberga, di cui confessava in Riviera, amici di essersi “ammalato” nei suoi anni adolescenziali – a far nascere, già all’altezza di “Primo tempo”, una consuetudine, mai apertamente confessata e tuttavia assidua e feconda, con il pensiero di Nietzsche, lontano o comunque indipendentemente dalla mediazione di D’Annunzio.

«In sostanza, la nascita della psicoanalisi – scrive in Il personaggio-uomo nell’arte moderna – dà atto che si è aperta un’altra epoca: quella in cui la coscienza comincia a svilupparsi in un senso verticale, anziché orizzontale»[31], ma a fornire a Freud le coordinate, o piuttosto l’alfabeto ordinario per formulare le sue teorie è, a suo avviso, il filosofo della Nascita della tragedia. E nel corso delle lezioni universitarie dedicate alla poesia di Pascoli: «Si rifletta che l’ultima parte del secolo XIX vede nascere in grande stile la storia delle religioni […] vede spingersi fino all’utopia tutte le forme di storia, di ricerca letteraria, di linguistica comparata […]. Si rifletta come il grande filosofo-presago e poeta termometro di quell’età parte dai più rigorosi e geniali studi di filosofia greca per subito tuffarsi a ricercare l’origine – è addirittura una parola d’ordine – l’origine della tragedia e subito si mette a lavorare su due personaggi mitici: Dioniso e Apollo e dà una psicologia dei miti, nella quale pare manchino soltanto alcune precisazioni sperimentali da laboratorio psicoterapico per mettere a nudo certi dati, sui quali si eserciteranno gli approfondimenti e le ipotesi di Freud»[32], dove la stessa scienza psicoanalitica si ridurrebbe a episodio, certamente rivoluzionario ai fini terapeutici, del pensiero di  Nietzsche, esso sì dirompentemente nuovo e anticipatore di una lettura in positivo della «caduta degli assoluti» che ha contrassegnato il passaggio di secolo. Non si vuole rivendicare qui il ruolo primario di un’ascendenza culturale mitteleuropea rispetto a un’area francese di solito indicata come naturale luogo della formazione culturale di Debenedetti, ma sia consentito richiamarne l’importanza, a tutt’oggi inadeguatamente emersa, perché lo schema interpretativo debenedettiano sia sottratto a frettolose formulazioni.

È fuori dubbio che il problema delle interrelazioni tra dinamica psichica e dinamica culturale, la necessità di agganci e conferme in aree anche molto lontane, di attraversamenti a più livelli e in relazione a “fatti” non strettamente letterari è una esigenza in lui palesemente profonda fino dagli anni torinesi di “Primo tempo” e della collaborazione alle riviste di Gobetti. Sua preoccupazione di sempre è di chiarire il senso e la funzione delle esperienze artistiche proprio in quanto inserite entro un quadro antropologico in cui siano in gioco possibilmente tutte le istituzioni culturali. Un operare critico in cui l’attenzione al dettaglio, l’attitudine a “separare”, è perseguita con una puntigliosità pari alla irritazione per ogni sorta di “ismi”, perché responsabili di impedire quella elasticità della mente che consente di cogliere immediatamente il nuovo, di tagliar via i giudizi non appena minaccino di diventare pre-giudizi.

Le sue preferenze vanno sempre a quegli scrittori che moltiplicano i propri sforzi per afferrare l’io nel momento in cui le circostanze gli sottraggono la vecchia forma e gliene impongono una diversa. Viene in mente il suo Montaigne: «Io non ritraggo l’essere, ritraggo il passaggio». E con una strategia da calcolo infinitesimale, che traduce una esperienza non visiva in termini omogenei e visivi, Debenedetti traduce in un discorso che è complicato senza mai essere oscuro, denso di suggestioni e mai effusivo, i suoi tentativi per penetrare in quelle che Leibniz chiama le entità infinitamente piccole. E spesso sono proprio i momenti in cui uno scrittore è meno assistito, le sue scoraggiate evasioni o le confessioni «rilasciate nelle ore più inutili e vane» che propongono al critico la chiave per forzare il segreto della “facoltà” creatrice: sono gli squarci rivelatori delle porte di servizio!

Valga anche per il “lettore” di Debenedetti.

Un suo racconto, nato in primo luogo da una esigenza di testimonianza, Anche gli ossessi, tuttora sepolto tra le pagine di una rivista del dopoguerra – il fascicolo n. 4. 1945 di “Costume” – potrebbe essere esemplare in tal senso.

Rispetto alle pagine di 16 ottobre, dove una sequenza di verità si trasforma in una “sequenza di allucinazione” – la furia irrazionale nazista trova adeguata espressione nella agghiacciante determinazione con cui li generale Kappler fa eseguire i suoi ordini di morte tra una folla di comparse ugualmente stupite, sgomente, incredule – qui, di fronte allo spettacolo dei tedeschi in ritirata, Debenedetti mette in atto un arretramento delle immagini in una dimensione del tempo che sottragga ad esse ogni capacità di offesa, pur conservandone intatto lo spessore di verità, la forza di denuncia.

Scriverà in altra occasione: «Noi diffidiamo dei miti, d’accordo: abbiamo sistemi razionali che ci assistono e consigliano nel lavoro di modificare il mondo […] Ma certe valenze dell’uomo, quanto più egli si adopera a estrovertirsi nell’azione collettiva, continuano a cercare, a trovare nel mito, o in qualche cosa che gli somiglia, la sostanza affine con cui combinarsi».[33]

E in Anche gli ossessi, ipotizzando nei gesti dei soldati tedeschi in ritirata lungo la via umbro-casentinese, “bianca di luna”, urlanti a tratti in maniera discorde, soverchiante, felina, il ripetersi immutabile di antichi riti, di oscure simbologie, di fatto Debenedetti mette ancora una volta alla prova un meccanismo interpretativo che presiede anche al suo lavoro di critico: egli sa che nell’arduo gioco di progetto e destino, in cui si configura ogni avventura letteraria al pari di ogni umana vicenda, sempre insorge il bisogno di nascondere sotto la protezione di un cerimoniale qualche cosa che non si può o non si osa affrontare direttamente.

È questo il luogo da cui si origina il suo diverso interrogare, dagli anni torinesi di Amedeo, Cinema Liberty, Riviera, amici, dei saggi per Michelstaedter e Saba nella rivista “Primo tempo”, fino alle ultime lezioni di professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma.

Mi sia consentito ancora di ricordare:

«Per adesso mi interrompo – è il perentorio avvertimento di Debenedetti ai suoi studenti dell’anno accademico 1959/1960 durante un corso di lezioni dedicato alla poesia di Ungaretti – ma, siccome ho accennato alla Terra Promessa, non voglio perdere l’occasione di comunicare, come una primizia, mentre ancora sono inedite, due delle più recenti liriche di Ungaretti, composte nel gennaio 1960. Fanno parte di una raccolta ancora in divenire, intitolata Il Taccuino del Vecchio, appartengono al gruppo degli Ultimi cori per la Terra Promessa [34] e in questo gruppo portano i numeri 20 e 21:

 

Se fossi d’ore ancora un’altra volta ignaro,

[…]

 

Darsi potrà che torni

Senza malinconia, bimbo?

 

Con occhi che non vedano

Altro se non, nel mentre a luce guizza,

Casta l’irrequietezza della fronte?»

 

dove si assiste ad una interruzione del succedersi lineare del tempo e al congiungimento, fulmineo e tuttavia lungamente preparato, con una dimensione totalmente sciolta dai riferimenti al “qui e adesso”, che si dona, paradossalmente, in una condizione di massima esaltazione dell’attualità: la cronaca di un viaggio in aereo dal Giappone verso l’Italia.

 

In questo secolo della pazienza

E di fretta angosciosa,

Al cielo volto, che si doppia giù

E più, formando guscio, ci fa minimi

In sua balia, privi di ogni limite

 

«Ungaretti – continua la lezione debenedettiana – tocca qui l’immagine di quella sorta di infinito che è il cielo ad alta quota, attraverso un’introduzione narrativo-discorsiva. Comincia proprio accertando il tempo degli orologi, il tempo divenuto affannoso per la fretta che ci incalza, diremmo per la sproporzione tra i nostri mezzi tecnici e i nostri fini umani, accerta, definisce quel tempo da cui si disancorerà».

L’attenzione del critico è fermata in particolare dai versi:

 

Nel volo dell’altezza

Di dodici chilometri vedere

Puoi il tempo che s’imbianca e che diventa

Una dolce mattina

 

dove notazioni tecniche ubbidiscono al solo fine di arrestare il “movimento” della cronaca di un volo e consentire il balzo nello smisurato, secondo l’insuperabile modello dell’Infinito leopardiano.

Si direbbe che l’arrestarsi dell’attenzione di Debenedetti su quei versi ungarettiani, il sottolineare che la ragione dell’interesse sta nella straordinaria capacità del poeta di “introdurre” un diverso calendario, che non misura più il tempo su quello degli orologi, ubbidisca a un movimento delle idee sorprendentemente vicino al pensiero espresso nelle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.

Anche Debenedetti – e non può essere casuale che entrambi siano stati traduttori della Recherche di Proust – sa che «solo nell’immagine che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità si lascia fissare il passato», come recita la Tesi 5a di Benjamin, ed è in questo orizzonte di pensiero che si avvicina all’ultima stagione poetica ungarettiana, spingendo la sua lettura fino a toccare quello spazio in cui scrittura creativa e scrittura critica, il dire del poeta e il dire del critico, non possono più misurarsi nei termini algebrici di un “più” e di un “meno”, di un “prima” e di un “dopo”: si può soltanto registrare che si verificano “allora” le situazioni in cui il dover essere della critica si concede al più alto grado.

Torna in mente il silenzio di Proust davanti al cespuglio di rose del Bengala: si direbbe che al critico può accadere di riuscire a “dire” quel silenzio, di ”raccontare” quell’ esplodere verso degli oggetti, ovvero, nel caso in questione, della parola poetica.

E ancora i versi ungarettiani intorno ai quali Debenedetti in-trattiene i suoi studenti:

 

Puoi imparare come avvenga si assenti

Uno senza mai fretta né pazienza

Sotto veli guardando

Fino all’incendio della terra a sera

 

dove il “fuoco” che incendia la terra al tramonto, simmetrico al passaggio:

 

[…] vedere

Puoi il tempo che s’imbianca e che diventa

Una dolce mattina

 

richiama al coesistere di tutto in un punto: aurora e tramonto, vita e morte, secondo precise ascendenze nietzscheane.

Non è un caso che sia il Sentimento del tempo la raccolta ungarettiana da cui si è mossa l’analisi di Debenedetti nel suo corso universitario del 1959/1960 e in particolare la poesia Lago, luna, alba, notte; e la scelta ancora una volta è ben motivata se si pensi alla presenza già nel titolo di quella congiunzione, falsamente ossimorica, alba/notte, che si è indicata come il “luogo” da cui può ricevere trasparenza la complessità e attualità nel dire di entrambi, e del poeta e del suo critico.

E allora l’improvviso interrompersi di quella lezione di Debenedetti, per l’incontro inatteso con quei Cori, non a caso esclusi dalla Terra Promessa ed entrati a far parte del Taccuino del vecchio, è dovuto all’esplodere verso di quella parola poetica capace di restituire l’attimo di vita piena, che era stato il “dono” dell’esordiente poeta del Porto sepolto, quella parola, raggiunta ora attraverso mille cadute, mille corteggiamenti, è in grado di restituire interminabili echi, è cioè diventata più fragile ma assai più coinvolgente, proprio perché si sa debole, minacciata, esposta al più alto rischio.

Il flaneur Ungaretti, che sa di essere biologicamente vicino all’ultimo traguardo, è capace di quello scatto geniale che gli fa vedere la “morte” come il “nuovo”.

«Au fond de l’inconnu pour trouver le nouveau» recita ancora Baudelaire nella citazione di Benjamin in Angelus novus, e si può esser certi che è qui anche la ragione del consentimento ormai totale di Debenedetti alla poesia ungarettiana, che del resto egli aveva già ospitato, negli anni torinesi, in “Primo tempo” e di cui, nel fascicolo dell’aprile 1924 di “Orizzonte italico”, aveva disegnato sveltamente un profilo.[35] Ma soltanto ora il critico scioglie ogni riserva: nella sua ultima stagione Ungaretti mostra, a suo avviso, di saper porre e vincere la sfida più alta: l’arte può non cessare di essere “inseparabile dall’utilità” senza per questo “consegnarsi al mercato”, può fare del nuovo il suo valore supremo senza per questo astrarsi dalla realtà sociale dell’uomo.

Piaceva a Debenedetti ricordare le parole di Ismene ad Antigone: «Tu porti nel gelo un’anima di fuoco».

E nel corso delle ultime lezioni dell’anno accademico 1965/1966 – quando si accingeva a preparare la ristampa di quella sorta di testamento spirituale quale ora doveva apparirgli il suo Amedeo – Debenedetti torna sovente a Renato Serra, il critico dal quale avrebbe potuto talvolta dissentire senza che per questo venisse meno la sua ammirazione. Recita un passaggio dell’Esame di coscienza di un letterato, che abbiamo ripetutamente ascoltato nella sua vibrata lettura: «E facciamo magari della letteratura, perché no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne».[36]

 


 

[1] Cfr. Cronologia, a cura di Marco Edoardo Debenedetti in Giacomo Debenedetti, Saggi, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1999.

[2] Recita un qualsiasi dizionario al lemma algoritmo: «Questa strana parola nasce dal nome del matematico arabo Al Kovarizimi (sec. IX), autore di un’opera diffusissima, tanto che il nome dell’autore, deformato poi in algoritmo (forse per influenza della parola greca αριθμος = numero), passò a indicare le regole di calcolo». In architettura con il termine ‘algoritmo’ si descrive l’andamento dei diversi sistemi di valori – spaziali, costruttivi, plastici, luministici – che, nel loro rapporto, costituiscono la “forma” di un’opera come “realtà di pure interrelazioni”: in questo tessuto confluiscono tutti i parametri, compresi quelli sociali ed economici, ordinati e risolti dall’artista il quale, faustianamente presente, riassume e supera le tensioni del proprio tempo.

[3] DEBENEDETTI, Giacomo, A proposito di «Intermezzo», «L’Approdo letterario», XIII, luglio-settembre 1967.

[4] Probabile autobiografia di una generazione, relazione presentata al Congresso internazionale del Pen Club tenutosi a Venezia nel mese di settembre 1948 e pubblicata integralmente nel 1952 come prefazione alla edizione mondadoriana della prima serie dei Saggi critici (la prima pubblicazione, per le Edizioni di “Solaria”, è del 1929), ora in Giacomo Debenedetti. Saggi , I Meridiani, Milano, Mondadori, 1999, p. 97.

[5] MACCHIA, Giovanni, L’ombra di Montaigne in Il Novecento di Debenedetti, Atti del Convegno, Roma 1-3 dicembre 1988, a cura di R. Tordi, Milano, Fondazione Mondadori, 1991, p. 294.

[6] DEBENEDETTI, Giacomo, Probabile autobiografia di una generazione (Prefazione 1949),  Saggi critici, prima serie, ora in Saggi, I Meridiani, op.cit. p. 97.

[7] DEBENEDETTI, Giacomo, Intermezzo, Milano, Mondadori, p. 61.

[8] CORTELLESSA, Andrea, Il “Meraviglioso metaforista”: Debenedetti, con figure, in “Nuovi Argomenti”, luglio-settembre 2001, p. 350. Sulle definizioni largamente circolanti riguardo al singolare fare critico di Debenedetti, “critica come dramma”, “racconto critico”, richiama l’attenzione Andrea Cortellessa intervenendo, sia pure molto trasversalmente, sulla lettura debenedettiana dei romanzi giovanili del Verga: «L’orchestra del melodramma non è invisibile, non sprofonda nel golfo mistico; è bensì sottolineatura luminosa ai piedi della ribalta. Invece Wagner commercia “nella zona dove le cose non sono ancora cose, e tanto meno hanno un nome: oggettiva il ‘prima’ dell’oggettivazione”. E Verga assomiglia più a Wagner che a Verdi: perché nei suoi capolavori “il fatto, fissato in una certezza plastica, da paragonarsi al gesto dei personaggi verdiani”, ha pure “quella risonanza misteriosa, infinita, inesauribile” che è appunto del cromatico di Wagner. La “costante del […] contegno narrativo” verghiano non è da indicarsi nella tornitura compiuta dei “grandi fatti scultorei dei Malavoglia”: bensì nel “farsi” di quella “scultura”. Quanto Debenedetti definisce cioè, memorabilmente, “drammaturgia per condensazione” è formula – sia detto a guisa di conclusione provvisoria – che descrive benissimo, pure, la drammaturgia critica di Debenedetti. I suoi “racconti critici”, come per primo li ha definiti Edoardo Sanguineti (evidenziando come vi si trovino “il gusto del dramma, dell’impalcatura, dello schema di racconto”), mostrano sì, a volte, una “verdiana” certezza plastica; ma accompagnata, sempre, dalla “wagneriana” risonanza misteriosa, infinita, inesauribile».

[9] LUPERINI, Romano, Il modello di Debenedetti nella situazione attuale della critica, in “Nuovi Argomenti” luglio-settembre 2001, p. 281.

[10] LAVAGETTO, Mario, Introduzione a DEBENEDETTI, Giacomo, Saggi critici. Terza serie, Venezia, Marsilio, 1994.

[11] CONTINI, Gianfranco, Il Verga di Debenedetti, ora in Ultimi esercizi di lettura e elzeviri, Torino, Einaudi, 1988, pp. 243-247.

[12] LAVAGETTO, Mario, Introduzione a DEBENEDETTI, Giacomo, Saggi critici. Terza serie, op.cit., pp. 179-193.

[13] Le lezioni romane sono state riproposte nel volume postumo Il Romanzo del Novecento, a c. di Renata Debenedetti, Milano, Garzanti, 1971.

[14] DEBENEDETTI, Giacomo, Verga e il Naturalismo, a c. di Renata Debenedetti, Milano, Garzanti, 1976. Particolarmente severa la recensione di Gianfranco Contini, Il Verga di Giacomo Debenedetti, in “La Repubblica” del 6 giugno 1976, successivamente in CONTINI, Gianfranco, Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1988, pp. 243-247.

[15] DEBENEDETTI, Giacomo, Critica e autobiografia” in Saggi, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1999, pp. 360-361.

[16] Ivi p. 363.

[17] La Giovinezza di Francesco de Sanctis, a c.  di Pasquale Villari, Napoli, A. Morano, 1889.

[18] Ivi pp. 14-15.

[19] Ivi p. 32.

[20] Ivi pp. 44-45.

[21] DEBENEDETTI, Giacomo, Quaderni di Montaigne, op. cit. p. 12.

[22] Ivi p. 62.

[23] Ivi p. 65.

[24] Ivi p. 67.

[25] Ivi p. 82.

[26] Ivi p. 83.

[27] Ivi p. 88.

[28] Alberto Savinio muore a Roma nel maggio 1952 colpito da infarto.

[29] DEBENEDETTI, Giacomo, Savinio e le figure dell’invisibile, Parma, MUP Editore, 2009, p. 77.

[30] DEBENEDETTI, Giacomo, Personaggi e destino, in Saggi critici. Terza serie. Milano, Il Saggiatore, 1959, ora in Personaggi e destino. a c. di F. Brioschi, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. 123.

[31] DEBENEDETTI, Giacomo,  Il personaggio uomo nell’arte moderna in Il personaggio uomo, Milano, Il Saggiatore, 1970, p. 74.

 

[32] DEBENEDETTI, Giacomo, Pascoli. La rivoluzione inconsapevole, Milano, Garzanti, 1979, p. 210.

 

[33] DEBENEDETTI, Giacomo, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo in Il personaggio-uomo, op. cit. pp. 31-32.

 

[34] DEBENEDETTI,  Giacomo, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 87.

 

[35] DEBENEDETTI, Giacomo, Commento ad un poema di Ungaretti, “Orizzonte italico” aprile 1924.

 

[36] SERRA, Renato, Esame di coscienza di un letterato, in Scritti, a c. di G. De Robertis e A. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1958, vol. I, p. 408.