Giuseppe Ungaretti – Il poeta e l’architetto

Dal volume di Rosita Tordi Castria Cinque Studi, Roma, Bulzoni, 2010, pagg. 37-50:

 

 

Il poeta e l’architetto. Giuseppe Ungaretti, Luigi Moretti e il Barocco romano

 

È lo stesso Ungaretti a confessare che il passaggio dalla sua terra d’Africa all’Europa, da Alessandria d’Egitto, città tra il deserto e il mare, bruciata dal sole, “friabile”, dove “tutto è precario” e “il tempo la porta sempre via, in ogni tempo”[1], a Parigi, nel 1912, è segnato dall’impatto sconvolgente con lo spazio urbano, dalla ‘scoperta’ dell’architettura. È la verticalità degli edifici gotici a sorprendere e catturare l’attenzione di Ungaretti: «[…] ciò che in Francia mi ha di più sconvolto e insegnato: Saint Julien le Pauvre, oppure la Cattedrale di Chartres, insomma certe tappe dell’architettura prima della Rinascenza, con le loro linee mosse verso l’alto da un’energia inesorabile, verso la tettoia terribile».[2] Trepida la rievocazione di una passeggiata notturna in compagnia di Apollinaire in cui gli capita di vedere per la prima volta la cattedrale di Notre Dame: «Di là, in fondo, vi appare come un minuscolo sepolcro la cattedrale, quadra. Poi, pian piano che ci si avvicina all’acqua, la cattedrale s’innalza, come un resuscitato, e quell’alto scheletro intona, come un organo un te deum, quando, vicini al ponte della Senna dove si forma l’isola di San Luigi, gli antichi edifici si affollano, e il passante moderno, sconcertato, sprofonda, laggiù, verso il Giardino delle Piante».

A differenza dell’amico arabo Mohamed Sceab, che lo ha preceduto di pochi mesi nel viaggio da Alessandria d’Egitto a Parigi,

[…] non sapeva più

vivere

nella tenda dei suoi

dove si ascolta la cantilena

del Corano

gustando un caffè

 

ma pur amando la Francia

(…) non sapeva

sciogliere

il canto

del suo abbandono.[3]

Ungaretti, che a lui dedica il Porto sepolto, a Parigi si sente subito ‘a casa’.

E tuttavia, dopo l’esperienza della guerra trascorsa in trincea sul fronte italiano, matura la decisione di un nuovo distacco: è Roma, dove si trasferisce nel 1921, la città del suo ‘destino’.

Qui, in uno spazio aggressivo nella luce, ma al tempo stesso morbido e sensuale nel caldo abbraccio delle sue ombre, il poeta può trovare lenimento al dolore per la separazione dalla sua terra d’Africa, inciso nei versi di Silenzio:

Conosco una città

Che ogni giorno s’empie di sole

E tutto è rapito in quel momento

 

Me ne sono andato una sera

 

Nel cuore durava il limio

Delle cicale

 

Dal bastimento

verniciato di bianco

ho visto

la mia città sparire

lasciando

un poco

un abbraccio di lumi nell’aria torpida

sospesi.[4]

Lo sguardo di Ungaretti, che a Parigi si era arrestato sorpreso davanti alla spiritualità degli edifici gotici, è ora attratto dalla ‘teatralità’ conferita allo spazio urbano dagli edifici barocchi i quali, vissuti nella quotidianità, si imprimono in modo indelebile nel suo immaginario poetico e ricompaiono come fotogrammi, nel loro susseguirsi senza tempo, nell’intreccio di significati, di fascinazioni tattili e visive, a partire dai versi di Sentimento del tempo.

È storia nota.

Momento di riflessione importante in questa direzione il convegno di studi, Ungaretti e la cultura romana, promosso nel 1980 da Mario Petrucciani e Luigi de Nardis, del quale ho avuto l’opportunità di curare la pubblicazione degli  Atti.[5]

In tutte le relazioni, da Il testo della visita a San Clemente di Domenico de Robertis a Ungaretti e la “Scuola romana” di Valentino Martinelli a La “Ronda” e ragioni di una poesia di Giorgio Petrocchi a Ungaretti e la giovane pittura a Roma di Nello Ponente, emerge l’attenzione molto vigile e avvertita di Ungaretti per le arti plastiche. Nello Ponente, richiamando la giovanile esperienza di frequentatore delle lezioni ungarettiane nella Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza”, precisa: «C’era quindi una comprensione della complessità delle componenti che avevano formato le avanguardie figurative, al di là della legge, al di là delle regole, come egli stesso ci ripeteva; ma tutto ciò nasceva da una conoscenza profonda non soltanto dei più noti fatti figurativi, e non soltanto naturalmente dei grandi momenti letterari dell’avanguardia, ma anche di Schönberg, per esempio, o di Saarinen, delle esperienze della musica e delle esperienze dell’architettura, di maestri meno noti ma non per questo meno importanti, come appunto Saarinen».[6]

È in particolare la relazione di Francesca Bernardini a focalizzare l’attenzione sull’ascendente del barocco romano nella poesia ungarettiana: «Ungaretti accoglie il messaggio del barocco romano nel suo versante più drammatico, più problematico: è significativo che il nome del Bernini non compaia mai nel volume dei Saggi e interventi, e una sola volta, e di sfuggita, nelle prose di viaggio raccolte ne Il deserto e dopo, mentre ricorrono spesso i nomi di Borromini e di Caravaggio; già nella prima prosa del Quaderno egiziano che apre il libro, troviamo una digressione su Borromini, del quale vengono sottolineati “l’accorato distacco, la vertigine, l’annuvolamento di forme strane sorprese di sfuggita”».[7]

Quel che tuttora non appare sufficientemente chiarito, nonostante le giornate di studio recenti che la Fondazione Ungaretti ha dedicato specificatamente a Ungaretti e il Barocco romano, è l’intreccio delle mediazioni culturali attraverso cui Ungaretti perviene a quella che egli stesso definisce ‘graduale comprensione’ di una forma artistica, il barocco romano appunto, il cui giudizio nel primo Novecento è ancora controverso.

In questa direzione senz’altro non trascurabile l’incontro del poeta con l’architetto romano Luigi Moretti. Non può infatti essere casuale che sia proprio Ungaretti a curare nel 1968 il volume 50 immagini di architetture di Luigi Moretti, pubblicato dall’Istituto Grafico Tiberino di Stefano De Luca.

Di grande formato, impreziosito da un disegno di Capogrossi, il volume si legge a doppia pagina: sulla destra la fotografia tagliata in orizzontale o verticale, a sinistra la didascalia composta in un corpo tipografico che le assegna importanza in uno spazio bianco. In questo grande vuoto sono sospese le parole e le immagini. Nell’elegante formato, 35 centimetri di base per 45 di altezza, le fotografie e le relative didascalie (tutte su una sola riga) poggiano su una base alta un terzo della pagina, vero e proprio piedistallo bianco che sostiene la dinamica sensazione spaziale data dalle inquadrature.

Qui si dipana la matassa narrativa morettiana, messa insieme non solo con i particolarissimi punti di vista ma anche e soprattutto con le sequenze che danno la cadenza al ritmo della visione. Ne sono esempi felicissimi le rotazioni che coinvolgono il lettore condotto a Milano, di fronte alle immagini di via Corridoni e di Corso Italia (1949-1956), e a Washington dove, davanti all’immensità del Watergate Development (1960-1965), lo sguardo è costretto a piegarsi fin quasi a terra per cercare “le eccitazioni prospettiche” in successione dovute all’andamento ritmico dei lunghi balconi, fino a fermarsi e riposare, come nella miglior tradizione barocca, in uno scorcio nascosto nell’ombra.

Pur dichiarando di volersi limitare a «sfogliare l’albo prodigioso che raccoglie alcune riproduzioni fotografiche», lasciando ad altri il compito di «dire con vera competenza, meglio di me, come tecnicamente abbia da svolgersi il processo di chi audacemente si ponga a prevedere la città di domani e a darne in segni propri, la misura», Ungaretti coglie con un solo tratto di parola gli sfumati contorni di “Luigi Moretti, architetto”. Lo fa scrivendo del “segno architettonico di Moretti”, di come questo «si radichi nel territorio, s’immobilizzi nel cielo», per dimostrare che «tutto sulla terra sta totalmente facendosi nuovo». Sulla seconda pagina del testo di Ungaretti c’è, in rosso, il disegno di Capogrossi.

Attraverso questa porta si entra nel gran teatro delle parole dipinte da Luigi Moretti: le “trasfigurazioni puramente astratte” delle superfici murarie romaniche, così come le “forme astratte della scultura barocca”, esprimono nella concezione dell’architetto romano i fondamenti della forma artistica, che traduce dinamicamente “le forme della produzione spirituale umana”, al di là delle epoche e dei popoli.

Quel che appare assai significativo è che in apertura del volume sia riproposto da Ungaretti il saggio morettiano, Le strutture ideali nell’architettura di Michelangelo e dei barocchi, con una doppia datazione: Roma, 1930 e 1964, quasi a richiamare la solidità e la ragione stessa della reciproca attenzione.

È del resto lo stesso Ungaretti a precisare nella breve nota introduttiva che la sua ‘frequentazione’ dell’architetto romano non è affatto recente: «Voglio, mi piace, è oggi un mio stretto dovere, dettare nella sua manifestazione in me irrefrenabile, l’elogio di un’opera che da lunghi anni mi attrae e usa sconvolgermi insegnandomi con quanta violenza vanno mutandosi i mezzi dell’uomo e quanta calma suggeriscono e impongono alle visioni di chi si propone di uniformare alla loro immagine e secondo la mutabilità incessante del loro impulso frenetico, la modellata saldezza stabile, immobile, delle sedi per persone umane, di raccolta, di dimora, di raccoglimento, di slanci inventivi propri delle città future.

Il nome dell’architetto Luigi Moretti è l’unico, mi pare – e forse mi si vorrà riconoscere la lunga consuetudine nell’osservare e confrontare i risultati raggiunti dall’umano ingegno, felicemente e tali da mozzare il fiato, aderenti ai mutamenti, ininseguibili per velocità, degli aspetti palesi di questo nostro tempo: imposto variare alle forme dallo sviluppo logico e calcolato, incomparabilmente straordinario da quando mondo è mondo – il nome di Luigi Moretti, dicevo, e torno ad affermarlo, è l’unico, lo credo fermamente, che possa essere citato quando si voglia indicare uno che abbia coscienza di come avviare l’arte del costruire d’un architetto che non sia inferiore, nel suo operare, all’altezza e alle immani difficoltà che tale altezza richiede vengano studiate, sperimentate, valutandone le possibilità odierne di soluzione».

Del saggio di Moretti, Le strutture ideali nell’ architettura di Michelangelo e dei barocchi, scelto per l’introduzione al volume, è del resto rintracciabile l’ascendente nella stessa conferenza ungarettiana del 1954, Interpretazione di Roma: «Non mi sono assuefatto rapidamente a Roma. Vi abito da più di quarant’anni e mi occorsero molti anni per rendermi familiare il Barocco, che è lo stile che in Roma predomina, e non incominciai a sentire Roma vicina al mio cuore se non quando capii che in Roma il Barocco ha origine da Michelangelo».[8] La decisione di riproporre quel saggio potrebbe leggersi anche come un sommesso ‘grazie’ da parte di Ungaretti per l’aiuto ricevuto nel suo tentativo di penetrare più a fondo nella comprensione dell’arte barocca, in particolare di quelle architetture borrominiane dalle quali è stato ‘fulminato’ nel suo arrivo a Roma.

Si ripercorra in questa direzione il testo della conferenza del 1933 Poesia e civiltà: «Sebbene un secolo calunniato, ma un secolo veramente grande. Pensate: è un secolo che va da Rembrandt a Borromini, da Pascal a Galileo: un secolo immenso. È il secolo nel quale mondo, fantasia e il nulla, divengono apertamente sinonimi».[9] E subito dopo, implicitamente richiamando la diade ‘innocenza e memoria’, intorno a cui finirà per avvitarsi la sua concezione della poesia e più genericamente tutta la sua riflessione sull’arte, si chiede: «La fantasia forse sarebbe un modo, spesso ingannevole, di giudicare dall’apparenza delle cose? Ciò posto, è l’arte mossa unicamente dalla fantasia e tende essa a non avere effetto che sulla fantasia? Ne è convinto, se non sbaglio, un Pascal, e intende l’arte nella sua accezione più vasta: l’arte di dipingere un quadro, come l’arte di guarire un malato o l’arte di governare una nazione: tranne la morte, egli dice, tutto il resto sono cose dipinte.

Nel considerare le cose in simile modo, è posta a regola delle cose temporali la magnificenza, la fantasia essendo, dice sempre Pascal, una facoltà che riduce le grandi cose alla nostra statura e ingigantisce le piccole, ossia una stima stolta delle illusioni, delle vanità.

Questo senso dell’inganno e della vanità delle cose, questo senso di “cose dipinte” è difatti il Barocco, anima e corpo: in quei monumenti gli spazi veri, divisi da colonne di vera pietra dura, sembrano spazi immaginari, raffigurati su due dimensioni; e le colonne, ombre appena. Allo stesso modo, sarà marmo lo stucco, gli spazi finti appariranno veri, e le prospettive a due dimensioni, infinite». Quindi, stabilendo una sorta di equazione tra ‘fantasia’ e ‘innocenza’, torna a precisare:  «[…] in quel Seicento, che in arte manifesta il dissidio tra intelletto e sentimento e lo appiana – su un piano di pura cultura, come se ormai più non esistesse di oggettivo, se non la memoria – mediante un eccesso di fantasia, in un’atroce adesione dei sensi coll’intelletto» si è dimostrato come sia possibile «di ricongiungere gli spezzati modelli in una forma nuova si, ma non meno regolata dalla classicità».

Maestro indiscusso il Borromini il cui avvicinamento a Michelangelo denuncia una linea interpretativa che è anche quella su cui è costruito il saggio di Moretti il cui incipit si direbbe richiami lo stesso ragionare di Ungaretti intorno alla specificità della parola poetica, alla necessità di coglierla, dopo un lungo lavoro di scavo, finalmente libera dal peso della materia, dalle incrostazioni dell’uso: «Alla radice del comportamento umano che condusse a fare architettura – recita il saggio di Moretti – si rinviene, particolarmente esaminato nelle sue primissime testimonianze, il senso del peso, dell’ostile peso della materia e della necessità di opporvisi, di vincerlo, rimuovendolo e innalzandolo oltre le sue naturali giaciture».

E subito dopo: «È da notare che se la ‘venustas’ solleva a una specie di incantamento l’uomo, sottraendolo quasi del tutto al suo normale fluire sensitivo, per portarlo a una specie di spazio temporale d’incanto, l’architettura sembra raccogliere ancor più densamente di ogni altra arte, in una continuità di alternative, le due polarità estreme del ritmo umano: la densità di presenza realistica, e l’incantamento, cioè il superamento di questa presenza, con un ritmo pendolare che è il secreto ultimo della grande architettura, così come di ogni altra opera d’arte».

Piace in particolare a Ungaretti la lettura che Moretti propone della concezione michelangiolesca del tempo: «Nasce in questa rappresentazione una prospettiva temporale nuova, in cui l’ultimo tempo sembra riassumere il destino del tutto, quel destino che la struttura del primo atto già aveva in sé e fatalmente disponeva per quando calasse fra gli uomini.

[…].

Michelangelo sembra con coraggio e libertà sovversiva, anticlassica, fermare in un racconto la storia del suo pensiero, le immagini successive, non rinunciando, non scegliendo: trascrivendo; esistendo. È una sommatoria semantica che è vera epistemologia impietrata. […].

Con Michelangelo prende forma per la prima volta nell’architettura il dramma del tempo, che suscita e cancella. Al tempo passato si oppongono e si susseguono i coefficienti dei tempi successivi; si forma una prospettiva temporale e con essa il grande racconto nell’architettura, la lettura lunga di questo racconto, il romanzo.

In ogni punto di questa architettura confluisce il mondo ed è romanzo.

Nasce così quell’architettura e quell’arte che è cosciente di dover essere consumata in letture consecutive lunghe, in tempi che si seguono e che danno al lettore una visione intellettiva dell’opera temporalmente raggiunta, ben diversa dalla lettura immediata, dell’insieme e dei particolari, come nel Rinascimento si poneva.

Nasce o meglio si accentua e diventa preponderante l’ordinata tempo, e di conseguenza quella lettura nervosa, inquieta, profetica del temperamento biologico dell’uomo moderno, della sua inquietudine, soprattutto della sua ansia nell’intera sfera del suo dintorno. […].

Nasce così l’architettura barocca e in particolare la grande architettura del barocco romano, opera dei terribili figli spirituali, diretti, di Michelangelo: Borromini, Berettini. Si sa che certe impostazioni di base dei grandi maestri si scoprono ancora più chiare, poiché più ripetute, elaborate e accentuate, nei loro epigoni di genio. Si guardino queste strutture ideali nelle architetture di Borromini, ove tra le colonne, personaggi protagonisti della rappresentazione, sulle quali il palcoscenico del mondo getta la maggior luce, si è intermesso a vivere, nella loro penombra, un mondo minuto animato di vegetali, bestie, fatti dei piccoli uomini.

Tra i pilastri e le colonne del Berettini, anche per lui grandi strutture templari, le murature rigonfie, quasi spinte e compresse per esservi intermesse, portano targhe metalliche, come i tondi scudi votivi, agganciati nei templi greci e palme».

Insistito il legame tra Michelangelo e i barocchi: «Queste strutture ideali dopo il barocco romano direttamente nutrito del sangue di Michelangelo diventeranno sempre più un linguaggio esoterico e la loro lettura da iniziati.

Saranno innalzate strutture in mondi con strane correnti gravitazionali, già dal Borromini suscitate, che distorcono e proiettano strutture, superfici, modanature e spazi. Si creano nuovi campi gravitazionali e nuove geometrie del pensiero figurativo. Sino ad arrivare a quelle strutture proiettive, prospettiche, di un mondo in cui lo spazio si scorcia differentemente secondo le direzioni, ultimi discorsi di una metafisica ormai agli estremi o addirittura fuori di una realtà leggibile.

Le strutture ideali di Michelangelo danno la chiave segreta del suo pensiero architettonico, sollevano la sua architettura, anzi l’Architettura, a un piano mai prima pensato e, dopo la grande coscienza barocca, quasi non più letto nelle sue cifre recondite.

In questi schemi ideali l’incombenza mortale del tempo diventa tangibile: s’alzano ambizioni e miti, poi cadono e poi se ne impossessano ignari umani, e portano altre ambizioni minute, e poi ancora, e poi ancora.

Forse il racconto della complessa inquietudine di Michelangelo, della sua solitudine non comunicante, insoddisfatta e affamata di mondo e di non-mondo, mai fu nelle sue opere figurative così pienamente disteso, Michelangelo pre-sente e riassume del pensiero moderno la non certezza su nulla.

Le sue stratigrafie sono storie di uno spirito che solo, come tutti, cerca continuamente una risposta, vuol capire secondo suoi fantasmi, e si prova e si riprova, e si stanca e lascia alla fine interrotto il suo dire, impietrato e sembra riconoscerlo inutile.

Perché il pensiero del tempo e del suo nero scorrere e quel pensiero dominante che vi è insito, sollecita e ferma perpetuamente; ed è il destino degli umani».

In calce sono riportare le date 1930 e 1964 le quali lascerebbero supporre che Ungaretti sia a conoscenza di una prima edizione del 1930, di fatto assai improbabile, ma è in ogni caso da credere che abbia seguito l’attività dell’architetto romano fino dalle sue realizzazioni, nei primi anni Trenta, per il Foro Italico, ne abbia condiviso più tardi l’interpretazione dell’arte di Michelangelo e dei barocchi, abbia letto con attenzione i suoi contributi teorici per la rivista “Spazio”, da lui fondata e diretta nel triennio 1950-1953, e per “Civiltà delle macchine”. In particolare deve aver fermato l’attenzione di Ungaretti il saggio Forme astratte nella scultura barocca, pubblicato nel fascicolo di ottobre 1950 di “Spazio”, laddove Moretti riflette sulle ragioni dell’esaurirsi del grande momento dell’arte rinascimentale: «È proprio nell’attimo dopo l’aver raggiunto la piena felicità espressiva che nello spirito rinascimentale insorge la biologica ’tristitia’ e con essa l’avvertimento di un ritmo interno distinto e non scioglibile nelle cose esterne del mondo. Insorge in una parola il senso del tempo estraneo fino allora alla contemplazione immediata dello spazio, unica dimensione del Rinascimento». È questa scoperta del tempo attribuita al Barocco a mettere in sintonia il poeta e l’architetto il quale riconosce in Michelangelo il grande protagonista di quel ‘passaggio’: «Sembra proprio con Michelangelo riaprirsi quella frattura, rimasta latente dopo il gotico, tra le cose e il ritmo dell’uomo. Con Michelangelo scendono le ansie, i terrori, il senso ostile del tempo, questa malattia della maturità; con Michelangelo il senso del tempo è la nuova dimensione in cui si proietta e viene dominato il mondo espressivo. Nasce così da lui la temporalità plastica del barocco, ignorata o quasi nel Rinascimento che, persino nelle grandi architetture, realizzava cristalli senza tempo, Palazzo Rucellai la Cancelleria la Farnesina peruzziana, acquisibili immediatamente allo spirito come un disegno geometrico semplice».[10]

Sulla concezione ‘nuova’ del tempo, che è peculiare dell’arte barocca, insistente l’accento di Moretti: «Questa acuta esigenza temporale porta allora il barocco alla concezione di una plastica successiva, da svolgersi e risolversi musicalmente. Il barocco crea allora quelle strutture complesse leggibili solo temporalmente e la cui unitarietà, e cioè contemplazione, si raggiunge solo per sintesi intellettiva attuata nella memoria fuori della percezione immediata».

Questo dissociarsi della visione che porta a libertà ogni centro rispetto agli altri e al tutto, che si profila per la prima volta nell’opera di Michelangelo e trova quindi la sua espressione più alta nel barocco romano, si direbbe costituisca il nucleo germinante dello stesso fare poetico di Ungaretti il quale, nelle Note che accompagnano la pubblicazione nel 1969 di tutte le sue poesie nella collana dei Meridiani Mondadori, a proposito della raccolta Sentimento del tempo, scritta dopo il trasferimento da Parigi a Roma, annota: «Quando sono arrivato a Roma per stabilirmici, ero già andato in giro in Europa, ed allora Roma era diversa. Finirà per diventare la mia città, ma appena arrivato mi è parsa una città alla quale non avrei mai potuto abituarmi. I suoi monumenti, la sua storia, tutto ciò che possedeva di grande, forse, di grande di sicuro, non aveva per me assolutamente nulla di famigliare».[11] E subito dopo, a enfatizzare l’importanza del suo ‘incontro’ con la grande architettura barocca, di Borromini in primo luogo: «È diventata la mia città quando sono arrivato a capire ciò che è il barocco, ciò che ha il barocco, ciò che c’è in fondo al barocco. Perché Roma è in quel fondo, è una città di fondo barocco. E la difficoltà che avevo da principio da sormontare era di arrivare a vedere come ci fosse un’unità nella città. È un grande, è Michelangelo, che mi ha indicato la strada: è perché il barocco romano è nato da Michelangelo».

A indicare a Ungaretti questa strada senz’altro decisiva la frequentazione dell’architetto romano, il suo richiamare l’attenzione sul fatto che nell’immagine barocca la bellezza non coincide con la forma chiara e pienamente visibile, ma passa a quelle forme che hanno in sé qualcosa di inafferrabile e sembrano voler sfuggire ogni volta all’osservatore, esigendo non una visione d’insieme ma per successivi punti di vista. Dunque la scoperta che anche l’architettura come la poesia è in primo luogo arte del tempo.

E se l’architetto romano ha scelto un poeta per introdurre il volume 50 Immagini di architetture che ha evidenti intenti autobiografici e ha condiviso l’idea di riproporre in apertura il testo di quella sua conferenza sul barocco romano tenuta il 22 giugno 1965 nell’Accademia di San Luca (Le strutture ideali dell’architettura di Michelangelo e dei barocchi è apparso per la prima volta negli Atti del Convegno di studi michelangioleschi pubblicati nel 1966 nelle edizioni dell’Ateneo) è perché sa che quel ‘tema’ gioca un ruolo decisivo nella produzione artistica e nell’avventura umana di entrambi, dell’architetto e del poeta. Recita un passaggio di Il deserto e dopo: «Nell’angolo dove mi apparto, alla gola un groppo mi sorprende di quell’angoscia tante volte provata davanti alle sue equazioni fantastiche.

È architettura che […] fa anche pensare a […] oggetti impossibili.

È architettura avida d’immagini, la figlia pazza dell’arida memoria. È fonte di puri delitti, di quella libertà orrenda che ci prendiamo verso le persone inafferrabili del sogno».[12]

Viene in mente la vicenda, questa volta solo letteraria, ancora di un poeta e di un architetto: è il dialogo del 1921 Eupalino o Dell’architettura di Paul Valéry, che Ungaretti introduce per l’edizione italiana del 1932. C’è un passaggio del dialogo in cui l’architetto Eupalino confessa: «Quando penso una dimora (sia essa per gli dei o per un uomo), quando ne ricerco una forma con amore, studiandomi di creare un oggetto che ricrei lo sguardo, conversi collo spirito, s’accordi colla ragione e le numerose convenienze…; allora, ti dirò una cosa strana?, mi sembra di creare con tutto il mio corpo

Lasciami dire: questo corpo è uno strumento mirabile e di cui m’assicuro che i vivi, avendolo al loro servizio, non usano nella sua pienezza. (…) e mi ripeto ad ogni aurora:

“O mio corpo, che mi richiami, tutti gli istanti, alla natura del mio istinto, all’equilibrio dei tuoi organi ed alle giuste proporzioni delle tue parti essenziali, per le quali esisti e torni in seno alle cose mobili: vigili sull’opera mia, insegnami le schiette necessità della natura, e comunicami la magistrale arte di cui sei dotato e sei fatto, di sopravvivere alle stagioni e di vincere il caso”»[13].

C’è da credere che Ungaretti veda qui rispecchiarsi il suo stesso pensiero se non esita a riportare integralmente il lungo passaggio nella nota introduttiva, chiosando: «Un poeta necessariamente risolve ogni problema proponendo un’arte poetica. Questa riafferma ciò che, e dal cantare più remoto, è sempre stato detto poesia: un decidere la parola all’astrazione di moti melodiosi armonicamente organizzati, ad arti matematiche, se si vuole, all’architettura ed alla musica: agli spettri d’un corpo che accompagni danzando il grido d’un’anima fattosi elementare per raggiunta intensità».[14]

È in questo giro di anni e in questo orizzonte di idee che Ungaretti ‘incontra’ il barocco romano; la ‘comprensione’ arriva più tardi e sovvenevole guida al poeta è un architetto: l’architetto romano Luigi Moretti.

 



[1] UNGARETTI, Giuseppe, Nota introduttiva in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1968, p. 497.

[2] UNGARETTI, Giuseppe, Note a Sentimento del tempo in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, op. cit., p. 529.

[3] UNGARETTI, Giuseppe, In memoria in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, op. cit., p. 21.

[4] UNGARETTI, Giuseppe, Silenzio in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, op. cit., p. 33.

[5] AA.VV., Ungaretti e la cultura romana, Atti del Convegno 13 – 14 novembre 1980, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”, a cura di Rosita Tordi, Roma, Bulzoni, 1983.

[6] PONENTE, Nello, Ungaretti e la giovane pittura a Roma nel primo dopoguerra in AA.VV.,Ungaretti e la cultura romana, op. cit., p. 119.

[7] BERNARDINI, Francesca, Il barocco romano e la poesia di Ungaretti in AA.VV.,Ungaretti e la cultura romana, op. cit., p. 143.

[8] UNGARETTI, Giuseppe, Interpretazione di Roma in Vita d’un uomo. Saggi e Interventi, op. cit., p. 606.

[9] UNGARETTI, Giuseppe, Poesia e civiltà in Vita d’un uomo. Saggi e Interventi, opcit., p. 314.

[10] UNGARETTI, Giuseppe, Interpretazione di Roma in Vita d’un uomo. Saggi e Interventi, op. cit., p. 604.

[11] UNGARETTI, Giuseppe, Note a Sentimento del Tempo in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, op. cit., p. 529.

[12] UNGARETTI, Giuseppe, Il deserto e dopo in Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, Milano, Mondadori, 2000, p. 30.

[13] VALÉRY, Paul, Eupalino o dell’Architettura, traduzione di Raffaele Contu con una Nota di P. Valéry e un Commento di G. Ungaretti, Lanciano, Carabba, 1932, pp.45 – 46.

[14] UNGARETTI, Giuseppe, Commento in P. Valéry, Eupalino o dell’Architettura, opcit., p. 125-126.

Dal volume di Rosita Tordi Castria, Il poeta e l’architetto. Giuseppe Ungaretti, Luigi Moretti e il Barocco romano in Cinque Studi, Roma, Bulzoni, 2010, pagg. 37-50: