Savinio, Pirandello e il ‘sincerismo’

Da “Studi Comparatistici” 11-12, gennaio-dicembre 2013. Atti del convegno di Letteratura e opera lirica, Bologna, 2011

 

Savinio, Pirandello e il ‘sincerismo’

Firenze 1952: Armida al Maggio Musicale; libretto di Giovanni Federico Schmidt, tratto dalla Gerusalemme liberata; musica di Gioacchino Rossini; regia e scenografia di Alberto Savinio.

«Lo ricordo a una prova dell’Armida – scrive il fratello Giorgio de Chirico in Memorie della mia vita - era notte tarda ed egli mi parve affaticato. (…). A un certo momento, mentre la prova dell’Armida procedeva, lo vidi incamminarsi lentamente verso l’ultima fila di poltrone, in fondo alla platea e sedervisi solo. Certo non presentivo la sua fine tanto prossima, (…), eppure, guardandolo, seduto tutto solo e stanco in mezzo a quella fila di poltrone vuote, (…) sentii come il bisogno di andare a sedermi vicino a lui, di rompere quello strano pudore che ci impediva ogni confessione sincera, ogni sfogo di sentimento, sentii il bisogno  (…) di evocare tanti ricordi della nostra vita passata ed infine mi tornò in mente un suo magnifico racconto dal titolo Mia madre non mi capisce, dal libro Casa la Vita, in cui narra di aver ritrovato la nostra madre morta e metafisicamente trasformata».[1]

Segue la citazione del passaggio in cui il protagonista del racconto, Nivasio Dolcemare, uno dei vari alter ego di Savinio, «(…) si avvicina alla piccola gallina, le si china accanto (…). E nell’oscurità di quella stanza che credeva di non conoscere e che invece è la camera nella quale egli è venuto al mondo, Nivasio dà sfogo silenziosamente alle lacrime tenute a freno da tanti anni ed al pianto di una intera vita».

Subito dopo la confessione di Giorgio: «Così, come Nivasio, anch’io sentii il bisogno di andare accanto a lui, che se ne stava seduto tutto solo (…) in fondo alla platea e guardava, stanco e distante, verso gli scenari ed il gesticolare dei cantanti. E là, vicino a lui, anch’io avrei voluto sedermi, dare sfogo silenziosamente alle lacrime tenute a freno da tanti anni e al pianto di un’intera vita…

Ma, come avviene in simili casi, non feci nulla di tutto questo. Rimasi seduto al mio posto mentre sulla scena Maria Callas, con gli occhi smisuratamente allungati, come quelli di una divinità egizia, gorgheggiava magistralmente e dalla cavea dell’orchestra salivano i geniali ritmi di Gioacchino Rossini».[2]

Un finale di partita che si salda all’inizio, quando totale era la condivisione di idee tra i due Dioscuri e il teatro in musica era l’ideale habitat di Alberto Savinio il quale, nonostante i successivi passaggi dalla musica alla letteratura, alla pittura, di fatto non è mai venuto meno alla seduzione di Euterpe.

Negli anni del suo apprendistato musicale in Germania, tra il 1906 e il 1910, si è proposto come autore del melodramma Carmela, mai rappresentato e di cui quasi nulla si conosce se non l’apprezzamento di Pietro Mascagni e un incontro a Milano con Tito Ricordi, oltreché  di un Poema fantastico, di cui parimenti non restano che labilissime tracce.

È a Parigi nel 1914 che Savinio esordisce con Les Chants de la mi-mort, un dramma musicale che è già fuori dal genere del melodramma italiano e dell’opera lirica tout court.

In questa direzione una sorta di anticipazione chiarificatrice della nuova idea di teatro musicale che Savinio intende realizzare è il saggio Le Drame et la Musique, apparso nel fascicolo del 15 aprile 1914 della rivista di Apollinaire “Les Soirées de Paris”.[3]

Recita l’incipit: «Mi propongo di affrancare queste due arti: il dramma e la musica. Mi propongo di stabilirle in domini vasti e sicuri. (…).

La questione è del tutto nuova, e penso a un’opera costituita a sua volta di elementi – contrariamente ai metodi usati – non sostenuti da alcuna reciproca dipendenza».

Quindi l’avvio di una argomentata riflessione che si incentra su una nuova idea di metafisica: «Lontano da quei tempi in cui l’astrazione regnava assoluta, la nostra epoca sarebbe portata a far scaturire dalla materia stessa (delle cose) gli elementi metafisici inerenti. L’idea metafisica passerebbe, dallo stato di astrazione a quello dei sensi. Si verificherebbe così la messa in valore totale degli elementi che informano il tipo d’uomo pensante e sensibile».

Subito dopo un indiretto riconoscimento al Pictor Optimus: «Questo carattere particolarissimo dell’età presente sembra che abbia cominciato a manifestare la sua influenza in casi molto rari in poesia e in pittura. Non è lo stesso né per la musica né per il dramma. Questi sono ancora spazi immacolati; mondi senza divinità.

Tutto ciò che si può trovare di più moderno in musica – o, per meglio dire, di più recente – non è ancora che impressionistico e descrittivo».

Segue una veloce rassegna del teatro musicale contemporaneo, dalla scuola musicale britannica, il cui merito consisterebbe nell’illustrare con arabeschi sonori episodi ispirati al Libro della giungla di Rudyard Kipling, alle diverse scuole, viennese, russa, boema, ungherese, e infine alla scuola francese, espressione ultima dell’evoluzione musicale ma ancora una volta in assenza di quello “spirito metafisico e austero che sembra volersi precisare in questa nostra epoca”.

Un bilancio quindi tutto in negativo: «La musica moderna, malgrado l’opposizione apparente dei molteplici orientamenti, vista nel suo insieme, non costituisce che un ammasso di esercizi sensuali e niente di più. Da ciò consegue che questa musica diverga nettamente dal carattere della sua epoca.

Una musica che dovesse svolgere oggi un ruolo effettivo dovrebbe essere del tutto antitetica a quella che i compositori contemporanei ci hanno spinto ad ascoltare. Essa non dovrebbe essere formata esclusivamente da elementi sensuali, ma dovrebbe essere chiamata a svelare e a far emergere tutto ciò che la metafisica moderna contiene di drammatico, di terribile, di sconosciuto e di appassionato.

Non sarebbe quindi più soltanto questione di rivestire la musica di una forma più nuova né più originale (come si dice), poiché ciò, lungi dal costituire una novità, mancherebbe ancora di ogni mezzo per condurci allo svelamento di una cosa nuova. E questo disvelamento, lontano dalla apparenza artistica (se mai ce ne sia stata) non saprebbe rilevare neanche una di queste forme bizzarre dell’arte moderna che, di fatto, non sono che leggere tappezzerie gettate sulla buca spalancata del vuoto».

Si direbbe quello di Savinio un tentativo estremo di salvataggio del genere melodramma, ormai in fase di irrimediabile estinzione, mediante l’appello a una nuova idea di metafisica.

Non a caso si adopera in primo luogo a rimuovere i fraintendimenti che accompagnano il termine Metafisica  non esitando a definire ‘barbara’ quella da cui sono scaturite «(…) le religioni, la poesia, le arti, a cominciare dalle età più lontane fino alle concezioni wagneriane. (…).

Oggi l’artista metafisico dovrebbe agire del tutto diversamente, poiché invece di subire l’influenza metafisica proveniente da un fenomeno esterno e estraneo a lui stesso, farebbe lui stesso subire alla materia formata dalla sua arte la sua personale influenza metafisica.

La musica, in quanto mezzo di rappresentazione, non esisterebbe più, poiché essa non sarebbe più tenuta a illustrare fenomeni indipendenti da se stessa. Essa non dovrebbe né accompagnare né descrivere alcunché».

E subito dopo, anticipando inevitabili detrattori, confessa: «Io temo in questo caso le proteste di alcuni musicisti molto avanzati della scuola viennese i quali credono di avermi oltrepassato nei miei intendimenti poiché le loro composizioni pretendono di essere musica pura. Mi affretto a segnalare il malinteso creato da questi musicisti poiché la loro musica pura altro non è che musica animista e pertanto descrittiva poiché intende descrivere stati d’animo».

Quindi la definizione degli spazi specifici di quello che dovrebbe essere il nuovo teatro musicale: «Non è per nulla problema della musica quello di tradurre nel suo specifico linguaggio sia pensieri letterari, sia impressioni che stati d’animo; ed è ancor meno suo compito quello di rappresentare fenomeni, azioni o movimenti.

La musica è un’arte eccezionale che non tollera la maniera e che esige di essere impiegata di per sé. Quest’arte degenera se si vuole applicarle – così come si fa oggi – l’espressione della drammaticità e della psicologia umana poiché possiede una drammaticità e una psicologia (per così dire) che le sono inerenti.

Così dunque presentando nell’insieme di un’opera l’elemento musicale del concerto con l’elemento drammatico – come io ho proposto – si dovrà vederne in questa associazione un avvicinamento completamente disinteressato poiché l’elemento musicale non dipenderebbe dall’elemento drammatico né quest’ultimo dal primo.

Si tratterebbe, tutto sommato, di far partecipare nel dramma l’elemento musicale indipendente con lo stesso valore e la stessa libertà che questo elemento possiede quando appare accidentalmente in mezzo ai continui drammi della vita».

E a questo punto una dichiarazione, in qualche misura sorprendente, con cui Savinio chiude la sua riflessione: «Considerando il movimento di una strada come un’azione drammatica si potrebbe trovare un elemento musicale, se non nelle grida e nelle voci di questa stessa strada, nel suono di un piano proveniente dalla casa vicina; o ancor meglio volendo porre l’elemento drammatico nell’interno di una stanza, si potrebbe farvi partecipare, come elemento musicale, un suono di tromba che sale dalla strada attraverso la finestra aperta; dei lavoratori che ottemperano ai propri bisogni manuali accompagnandosi con canzoni, costituiscono, senza dubbio alcuno, résumés di drammi in musica.

Tale sarebbe, in sintesi, l’orientamento dei metodi in vista  di un rinnovamento del dramma con musica. Ma bisognerà ancora ben definire il carattere variabile e il valore dei due elementi – il drammatico e il musicale.

Ho ragione di temere che non si possa realizzare niente di valido né di forte volendo servirsi di questi elementi nello stato in cui si trovano. E senza dubbio avranno bisogno di una preparazione del tutto speciale prima di essere adatti a dare forma ai volumi e alle situazioni conseguenti a una metafisica nuova.

La fisionomia dell’epoca che si precisa è troppo caratteristica perché si possa sognare di utilizzare i vecchi ingredienti nella modalità di una produzione relativa a questa epoca».

Leggibile sullo sfondo il Manifesto tecnico della musica futurista dell’11 marzo 1911, in cui Francesco Balilla Pratella dichiara la necessità di dare un’anima musicale alle folle, ai grandi cantieri industriali, ai treni, ai transatlantici, alle automobili e agli aeroplani, ma di fatto la specifica valorizzazione del rumore nasce in Savinio da un’esigenza antitetica a quella futurista: quel che gli interessa è una accentuazione del conflitto drammatico e irrisolto tra la soggettività e l’incombente realtà tecnologica.

È al contrario legittimo ipotizzare, nell’explicit della riflessione saviniana, l’ascendente di Luigi Pirandello, del suo saggio Sincerità, apparso nel fascicolo di aprile 1898 della rivista mensile mensile “Ariel”, in cui conia, sia pure con molti ‘distinguo’, il termine Sincerismo che Savinio non esiterà a utilizzare per definire la ‘nuova’ musica composta per Chants de la mi-mort, il dramma per musica degli esordi.

Sincerism è peraltro il titolo del servizio dedicato alla musica saviniana che il gallerista e critico Alfred Stieglitz  promuove per il fascicolo di aprile 1915 della rivista newyorkese, pre-dadaista, “291”.

Recita la presentazione: «Una nuova tendenza nell’arte è stata iniziata a Parigi dal musicista italiano Alberto Savinio: egli l’ha chiamata “sincerismo”. (…). Il sincerismo consiste nel franco riconoscimento dei motivi musicali serviti come punti di partenza delle sue composizioni».

Al di là della interpretazione che di quel termine offre Stieglitz, senz’altro sorprende che nella bibliografia critica saviniana non sia mai stata avanzata, neanche in via di ipotesi, la possibilità di un richiamo al fatto che a coniare quell’ismo, sia stato lo scrittore agrigentino.

Non v’è dubbio che ne sarebbe derivato un quadro più mosso e articolato del contesto culturale in cui Savinio si è mosso nella fase iniziale del suo percorso artistico nella Parigi di Apollinaire.

Al di là di questa e altre possibili ascendenze, quel che in ogni caso si intende qui sottolineare è la novità dirompente dei suoi Chants de la mi- mort sia per quel che riguarda la musica sia per il testo letterario, che peraltro Savinio, in linea con quanto teorizzato in Le Drame et la Musique, presenta al pubblico separatamente: il  24 maggio 1914 esegue una suite per piano nella sede della rivista di Apollinaire “Les Soirées de Paris”, suscitando la sorpresa di un pubblico di artisti della più avanzata avanguardia europea, e nella stessa rivista, nell’ultimo fascicolo dell’agosto 1914, pubblica il singolare ‘libretto’.

Di fatto si tratta di un poema drammatico che ha una sua compiutezza indipendentemente e dalla musica e dalla messinscena: tutti i complicati ingranaggi del pensiero e della fantasia sono messi in azione al fine di frantumare i confini delle età e dei linguaggi, in un rimescolamento drammatico di sacro e profano, di classicità e modernità.[4]

Nello spazio sottilissimo tra il sonno e la veglia, vigili i meccanismi del pensiero, la vicenda procede in un ribollire di invenzioni fantastiche ad alto tasso simbolico, fino allo scatenamento della passione in una scena di amore / morte, mentre di lontano irrompe improvviso, in italiano nel testo, l’avvio di un canto di volontari:

Ad-dio mia bel-la, ad-di-o!

L’a-armata se-e ne va (pararam, pam, pam),

e se non partis-si anch’io

sarebbe una viltà…

e se non partis-si anch’io

sarebbe una viltà…

Seguono colpi di cannone e altri rumori, in linea con la poetica del Sincerismo,  mentre la scansione ripetuta del distico finale si direbbe un segnale della esigenza del primo Savinio, greco di nascita, ‘nomade’ per scelta, di marcare la sua appartenenza all’Italia.

Figura centrale del singolare libretto è Daisyssina, una presenza muta, emblema dell’eterno femminino, unica ad avere un nome proprio.

Intorno a lei si muovono personaggi designati sulla base delle loro caratteristiche fisiche: l’uomo–calvo, l’uomo-giallo, la madre di pietra, gli uomini di ferro battuto, due angeli, un re folle, gli uomini-bersaglio, un ragazzo e, mescolate ad essi, statue e macchine.

L’azione propriamente drammatica si limita alla Scène de la tour, preceduta da due brevissimi atti, La rencontre e L’épiscope.

La Préface poétique e il conclusivo Chant de la nuit sono in qualche misura speculari: alcuni dettagli scenici tornano identici, dalla grande candela che brilla alla finestra, alla nave che si allontana, all’uomo senza volto che gioca con sfere multicolori. La stessa immagine con cui si chiude la Préface, “la cloche de minuit”, rimanda a Chant de la nuit che sigilla la pièce, a saldare il nesso indissolubile tra vita e morte, tramonto e aurora, declino e rinascita, in una concezione circolare del tempo di chiara ascendenza nietzschiana.[5]

Considerevole la mole di elementi iconici di matrice futurista, usati in funzione polemica, rovesciata: dalla litania degli uomini di ferro che sfilano contorcendosi nelle loro giunture metalliche, inquietanti simulacri del dispiegarsi inesorabile della tecnica, agli uomini / bersaglio di latta con un cuore rosso disegnato sul petto, appoggiati alla parete di fondo della scena, alle macchine disseminate confusamente alla ribalta, mescolate a statue.

Nella Prefazione poetica è presentato ‘uno strano essere animalesco’, che cova le uova, protetto da una ‘muraglia invalicabile’.[6]

Si assiste quindi alla nascita inquietante di un uomo senza volto, parodia dell’uomo-macchina futurista:

Homme sans voix, sans yeux et sans visage,

fait de douleur, fait de passion et fait de joie ;

il connaît tous les jeux, il fait toutes les culbutes,

il parle tous les langages…

et il attend …[7]

Segue, in una dissacrante parodia del dogma cristiano, la scena della morte dell’uomo senza volto e della sua resurrezione:

Le mort revient et se regarde mort;

cet homme noir qui passe ;

d’un tout petit lit de fer sans matelas

pointent les pieds aux mules rouges ;

haut dans le ciel, ceints de nimbes, volent

les deux archers aux flèches invisibles et plaintives[8]

L’uomo senza volto, che ‘conosce tutti i giochi’ e ‘parla tutte le lingue’, si imporrà  come presenza incombente e vero motore dell’azione.

Intanto ‘aspetta’, mentre intorno a lui si addensano foschi segnali:

sa pluie est dure comme l’acier et vibrent

haut dans son ciel de longs éclaires sans bruit[9].

Interviene una voce fuori campo a sottolineare l’intensità drammatica di quell’attesa:

Ah! et ses yeux inexistants sont pleins

de larmes résineuses.

Ah! et son coeur gélatineux appelle

comme la cloche de minuit.[10]

Quindi uno sparo, un grido, il silenzio.

Si alza il sipario e ha inizio una vicenda che procede per lampi improvvisi in un ribollire di invenzioni fantastiche ad alto tasso simbolico: due angeli entrano attraverso gli oblò e si inginocchiano al centro della scena nell’atteggiamento di guardiani di tombe, quindi l’Uomo-calvo, l’Uomo-giallo, Daysissina, la Madre di pietra, gli Uomini-bersaglio si presentano alla ribalta l’uno dopo l’altro per scomparire subito dopo quasi si trattasse di fantasmi che affiorino allo spazio della coscienza per rientrare subito dopo nell’indistinto.

Savinio indugia nelle istruzioni per la messinscena, descrivendo nei minimi dettagli il luogo in cui si svolgerà l’azione: nella parte superiore della torre una camera a forma di cono, tappezzata di rosso e illuminata da due finestre a forma di oblò che richiamano l’interno di una nave. Un tendaggio nero, palese citazione del celebre quadro di de Chirico del 1912, Enigma dell’oracolo, divide la stanza nella quale si intravvede in fondo un letto pesante come un catafalco coperto da una sorta di baldacchino.

Nel piano inferiore della torre un’apertura quadrata incornicia le antenne di una trealberi. Al centro, la statua equestre di un re. Altre statue, un po’ dappertutto e alcune grosse macchine inattive.

Una porta si apre dietro il tendaggio: entra Daysissina, seguita dall’uomo-giallo che cammina estatico, spinto da un ‘Dio-amore’ invisibile.

Ha luogo quindi lo scatenamento della passione in una scena di amore / morte:

La mort ! La mort !

Douce, brûlante,

Fraîche … – j’étais, enfant,

Hanté par le cauchemar de l’innocence -,

 

A ! la couche merveilleuse ;

Je dors ;

Mon cœur s’écoule, mon âme

-                   tube de cristal – glisse

d’entre mes doigts.

Tourne, tourne, tourne spirale!

L’axe de la toupie m’embroche;

Tous les cerceaux se sont fermés.

Le centre, là, point rouge,

Attire comme l’aimant…

 

Les os se sont dessous,

Je ne suis plus que sang![11]

L’uomo-calvo chiude il tendaggio dietro cui giace nel letto l’uomo-giallo mentre da lontano giunge l’eco della canzone militaresca “Ad-dio mia bella ad-dio”.

La scelta di una assoluta mobilità del punto di vista e di un uso spericolato dello zoom, per cui ai campi lunghi si alternano pause in cui l’occhio si ferma su un dettaglio minimo e ravvicinatissimo, isolandolo e amplificandolo, il ricorso alla tecnica delle dissolvenze incrociate per cui il periodo risorgimentale allunga la sua ombra nel presente, dilatano oltre misura le dimensioni spazio-temporali del dramma.

L’azione culmina in un doppio delitto che si svolge con ritmo serratissimo: mentre Daysissina giace nel letto accanto all’uomo-giallo, la madre di questi, vittima di una infrenabile gelosia, la uccide servendosi di uno stiletto elettrico fornitogli dall’uomo-calvo e subito dopo, accompagnandosi con una chitarra, canta ebbra di gioia per essersi liberata della rivale.

Il figlio, svegliatosi da un sonno popolato di incubi, compie automaticamente una serie di gesti insensati: solleva il cadavere della donna amata, raggiunge una poltrona dove lo adagia perché possa ‘assistere’ al terribile gesto vendicatore che egli si accinge a compiere nella più stupefacente imperturbabilità.

La scena successiva vede l’uomo-giallo che, dopo aver compiuto il matricidio, al parossismo della demenza, gioca con il cadavere della madre, rattrappitosi fino a diventare una bambola di pietra: tra scoppi di risa la abbraccia, la culla, la lancia in aria e la riprende per poi lasciarla cadere a terra e calpestarla, in una ripetizione ossessiva ma ilare, come  un bambino con il suo giocattolo preferito.

Il delirio dell’uomo-giallo è reso, se possibile, ancor più fosco dalla livida luce di due candele che brillano ‘stranamente’ alle finestre della torre mentre il silenzio che ha accompagnato lo svolgersi dell’azione è rotto dall’avvio improvviso dei motori di grosse macchine disseminate nel piano inferiore della torre: ruote enormi girano vertiginosamente, avvolte nelle cinghie di cuoio; i pistoni si sollevano a scatti, e ripiombano nelle loro guaine d’acciaio.

A sigillare la pièce è il lancinante canto dell’uomo-calvo:

Gens de la cité, c’est la nuit, les étoiles…

(…).

Je reste, homme sans visage,

Avec le fardeau de ma chair flapie.

Ah, nom d’un chien ! C’est la mi-mort.[12]

È in questa soglia paradossale, tra vita notturna e diurna, che Savinio gioca fin d’ora la sua partita con l’ineffabile riuscendo a dare ‘figura’ a ciò che per definizione è ‘invisibile’, testimoniando l’ascendente di quella linea di pensiero che ha i referenti più autorevoli in Schopenhauer e Nietzsche, da lui avvicinati in quel crocevia di culture che è Monaco di Baviera di inizio Novecento.

Nonostante l’attenzione suscitata dai suoi Chants, Savinio decide, già nel 1915, di abbandonare la musica per la letteratura.

Ciò non toglie che resti un assiduo frequentatore dei teatri d’opera e che in explicit del suo precorso artistico e umano, crei un’opera in tre atti, Cristoforo Colombo, (1951), in cui avanza un’idea di Europa destinata a sopravvivere anche nell’ipotesi in cui non dovesse più esserci il territorio chiamato Europa, e l’atto unico Orfeo vedovo, rappresentato il 24 ottobre 1950 nel Teatro Eliseo di Roma.

‘Vedovo’, l’Orfeo di Savinio, è soltanto dell’arte.

Coinvolto nel dramma della vita, crede di far rivivere meccanicamente colei che è la sua stessa anima, ma deve constatare che è solo liberandosi della vana realtà che lo circonda che può ritrovare la sua Euridice, la “Poesia”.

È in questo personaggio, simbolo del continuo superamento del limite, che all’ultimo Savinio piace specchiarsi, in assoluta coerenza con un percorso di uomo ‘soltanto poeta’: “Orphée c’est moi”.



[1] G. de Chirico, in  Memorie della mia vita, Milano, Rizzoli, 1962, pp. 242 – 243, rievoca la morte del fratello Alberto Savinio,  nella sua abitazione romana di Viale Bruno Buozzi, il 5 maggio 1952.

[2] Ibidem

[3] Paris, éditions Soirées de Paris, n° 23, 15 avril 1914, 55 pages + 4 pages d’Anatole France sur Théophile-Alexandre Steinlen – Au sommaire : 8 reproductions hors-texte noir & blanc d’après les récents tableaux de Georges Braque – La chronique mensuelle (Maurice Raynal, Guillaume Apollinaire, Pierre Henner, Louis Rive, Paul Visconti, etc.) – Des lettres d’Alfred Jarry – Poèmes de Guillaume Apollinaire, Jean Royère, Max Jacob, Vincent Muselli, Blaise Cendrars, Jacques Dyssord, Pierre Henner – Albert Savinio : Le Drame et la Musique – Roch Grey : Biarritz.

[4]Cfr. Michele Porzio Savinio musicista, Venezia, Marsilio, 1988. In particolare i capitoli: Il metalinguaggio musicale, p. 31; “La mort de Niobéo lo straniamento del mito, pp. 86-96; Musica estranea cosa (pp.153-161).

[5] Per le ascendenze culturali rintracciabili nel dramma saviniano si rinvia a R. Tordi, Il diadema di Toth, Roma, L’Ateneo, 1986.

[6] La stessa torre in cui il dramma si svolge, in riva al mare, segnalato dalla presenza di una trialberi, visibile anche dall’interno attraverso una grande apertura quadrata nel primo piano, rinvia a La torre rossa, e a L’énigme d’une journée, due dipinti di Giorgio del 1913 e 1914.

Nel primo, conservato nel museo Guggenheim di Venezia, una cilindrica torre rossa è al centro di una piazza fiancheggiata da portici e affacciata sul mare dove è ormeggiata una nave. Sul lato destro della piazza, tra la fine del portico e la torre giganteggia solitaria una statua equestre, seminascosta per lo spettatore a sottolineare il senso di misteriosa ambiguità che domina la scena.

Nell’altro, conservato nel Museo di Arte Contemporanea di San Paolo del Brasile, isolata al centro di una piazza, fiancheggiata da portici, su un alto piedistallo un’alta figura maschile in redingote, colta di spalle, con una sciabola in mano, rivolta verso il fondale di scena dove giganteggiano una torre cilindrica e una ciminiera; il tutto avvolto in una spettrale fissità da fotogramma cinematografico.

[7] Sulla conoscenza incerta da parte di Savinio della lingua francese, in particolare a proposito di Chants de la mi-mort, cfr. M. Sabbatini, L’argonauta, l’anatomico, il funambolo, Roma, Salerno Editrice, 1997 e Giuditta Isotti Rosowsky, Savinio: un auteur, deux écrivains in AA.VV., De Marco Polo à Savinio.

Ecrivains italiens en langue française, a c. di F. Livi con pref. di Christian Bec, Presses de l’Université de Paris Sorbonne, 2003, pp. 179-188.

Per il rapporto tra l’uomo senza volto saviniano, prototipo del manichino di de Chirico, e l’uomo seriale futurista, si veda il saggio di Maurizio Calvesi in Le due avanguardie, Bari, Laterza, 1981 p. 188.

Cfr. inoltre la monografia di Luca Pietromarchi, Dal manichino all’uomo di ferro. Alberto Savinio a Parigi (1910-1915), Milano, Unicopli, 1984.

La traduzione da Chants de la mi-mort è di chi scrive:

Uomo senza voce, senza occhi, senza viso,

fatto di dolore, di passione e di gioia;

conosce tutti i giochi, fa tutte le capriole,

parla tutte le lingue…

e aspetta…

[8] Trad. :

Il morto ritorna e si guarda morto;

quell’uomo nero che passa;

da un piccolissimo letto di ferro senza materasso

spuntano i piedi dalle pantofole rosse;

alti nel cielo, cinti di nembi, volano

i due arcieri dalle frecce invisibili e lamentose.

[9] Trad.:

La sua pioggia è dura come l’acciaio e vibrano

in alto nel suo cielo lunghi lampi senza rumore

[10] Trad.:

Ah! e i suoi occhi inesistenti sono colmi di lacrime resinose.

Ah! e il suo cuore gelatinoso chiama

Come la campana di mezzanotte.

[11] Trad.:

La morte! La morte!

dolce, bruciante,

- fanciullo ero

ossessionato dall’incubo dell’innocenza –

Ah! Il giaciglio meraviglioso;

io dormo;

il mio cuore scorre via, la mia anima

- tubo di cristallo – scivola

fra le mie dita.

 

Gira, gira, gira spirale!

L’asse della trottola mi trafigge;

tutti i cerchi si sono chiusi.

Il centro, là, punto rosso,

attira come una calamita…

 

Le ossa si sono sciolte,

io non sono che sangue!

 

[12] Trad.:

Gente della città, è la notte, le stelle…

(…).

Io resto, uomo senza volto,

con il peso della mia carne sfinita,

Ah! Maledizione! É la mezza-morte.