Italo Calvino – In viaggio…

Dal volume di Rosita Tordi Castria Cinque Studi, Roma, Bulzoni, 2010, pagg. 61-82:

 

 

Italo Calvino in viaggio nelle città di Giorgio de Chirico

 

È del 1985 il saggio di Italo Calvino Le livre de la nature chez Galilée incentrato sulla metafora del libro della natura scritto in linguaggio matematico: «Ma io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi et altre figure matematiche, attissime per tale lettura».[1]

Si direbbe che l’obiettivo più difficile perseguito dal grande scienziato appaia all’ultimo Calvino non tanto quello di rendere visibile ciò che è invisibile attraverso la scoperta di nuovi oggetti, quanto quello di rendere visibili, attraverso l’invenzione di una nuova scrittura, gli oggetti che da sempre sono visibili e che da sempre ci illudiamo di conoscere.

È la scommessa sulla quale egli stesso costruisce il suo percorso di scrittore, quella di provare a trasformare in scrittura il mondo non scritto, un mondo che tuttavia gli si configura come un “qualcosa” che di per sé non è predisposto a essere decifrato: «Scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi».[2]

E se è vero quanto egli stesso confessa: «La pittura mi è servita sempre come spinta a rinnovarmi, come ideale d’invenzione libera, di essere sempre se stessi facendo sempre qualcosa di nuovo» è assai probabile che in questa direzione l’ascendente di Giorgio de Chirico, l’inventore della pittura ‘metafisica’, abbia agito in misura niente affatto trascurabile nel suo percorso di scrittore.[3]

Recita ancora quella sua confessione: «Le opere d’arte che contano nella vita d’una persona sono di due tipi: ci sono quelle che si vedono una volta sola e rimangono nella mente come un tutto, impongono nella memoria una loro immagine, fedele o trasfigurata, a cui sempre ci si attiene; e ci sono le opere che si tornano a rivedere innumerevoli volte, e ogni volta rivelano un nuovo particolare, ogni volta hanno qualcosa da dirci».[4]

È senz’altro arduo decidere a quale dei due tipi Calvino avrebbe ascritto le opere di Giorgio de Chirico, di fatto il saggio che gli dedica nel 1983 è tra i più penetranti che siano stati scritti sul pittore delle Piazze d’Italia.[5]        

L’occasione è una mostra personale dedicata al primo de Chirico a Parigi nel Centre Georges Pompidou, e tuttavia non è di poco conto che il ‘pictor optimus’ sia entrato, sia pure en passant, nella sua riflessione già nell’immediato dopoguerra.

In un articolo per “L’Unità” del 22 giugno 1946 Calvino stigmatizza il costume largamente condiviso di considerare antitetici i concetti di ‘umanesimo’ e ‘marxismo’: «Se noi consideriamo l’umanesimo come tendenza a potenziare al massimo la persona umana, a fare dell’uomo (secondo la più alta formulazione di pensiero umanistico: l’imperativo di Kant) sempre il fine e mai un mezzo, quale concezione più umanistica del marxismo, che propone un affrancamento non individualistico o d’ élite ma di tutta la società ?»[6]

In realtà il bersaglio da colpire è la scelta, condivisa in Italia “da tutti gli uomini di cultura”, della via dell’evasione, “evasione dal tempo e dalla logica”, come la  più adeguata per esprimere la “repulsione al fascismo”.

È su questa via che Calvino annovera, quale presenza emblematica, quella di Giorgio de Chirico: «Stanno su questa via il neoclassico e il neobarocco di de Chirico» .

E tuttavia il fatto stesso che il giudizio tranchant si limiti a colpire l’ultima produzione di de Chirico, quella degli anni Trenta e Quaranta, può leggersi come spia della indiscutibile grandezza che l’esordiente scrittore riconosce alle opere della prima stagione, quella delle celebri piazze d’Italia dipinte a Parigi e a Ferrara tra il 1909 e il 1918.

E inoltre: a quella ‘via dell’evasione dal tempo e dalla logica’, seguita dagli artisti italiani tra le due guerre, Calvino guarderà in seguito con ben altra disposizione. Eloquente la sua dichiarazione a chiusura di una conferenza, Tre correnti nel romanzo italiano d’oggi, letta in inglese il 16 dicembre 1959 alla Columbia University: «La mia analisi sarebbe parziale se non dicessi che la nostra generazione ha tratto la sua lezione anche da quel periodo della letteratura italiana noto col nome di “ermetismo”. Non per nulla il poeta della nostra giovinezza è stato Eugenio Montale: le sue poesie chiuse, dure, difficili, senza alcun appiglio a una storia se non individuale e interiore, erano il nostro punto di partenza; il suo universo pietroso, secco, glaciale, negativo, senza illusioni, è stato per noi l’unica terra solida in cui potevamo affondare le radici».[7]

E subito dopo accanto a Montale ricorda Ungaretti, Bilenchi e Giorgio Morandi, un pittore che è presenza significativa in quella linea della pittura ‘metafisica’ che ha in Giorgio de Chirico il grande iniziatore: «Il rigore delle poesie di Montale e di Ungaretti, il rigore degli scarni racconti provinciali di Bilenchi, il rigore dei quadri di Giorgio Morandi, le sue nature morte di bottiglie con la fredda esattezza della luce che avvolge l’umile realtà delle cose, sono stati l’eredità che abbiamo tratta dall’”ermetismo. E non è un’eredità da poco».

In questa direzione un tassello importante è la stessa prefazione che Calvino scrive per la riedizione nel 1964 del Sentiero dei nidi di ragno.

Fa rilevare Alberto Asor Rosa: «Qui c’imbattiamo in una delle più profonde e tenaci linee rette che attraversino tutta l’opera di Calvino, dal Sentiero dei nidi di ragno fino a Palomar. Si tratta […] in generale del fatto che lo sguardo dell’osservatore umano, anche quando contempla il mondo con l’attitudine dell’archeologo […] non può fare a meno di sedimentare su di esso le tracce del proprio essere più profondo, si chiamino queste tracce, a seconda dei casi, simboli o miti o favole.

Già nel Sentiero Kim, parlando a Ferriera: “Ma capisci che questa è tutta una lotta di simboli, che uno per uccidere un tedesco deve pensare non a quel tedesco ma a un altro, con un gioco di trasposizioni da slogare il cervello, in cui ogni cosa o persona diventa un’ombra cinese, un mito?”».[8]

Se si tiene nel debito conto la modalità con cui il tema della città, centrale in tutto il percorso narrativo di Calvino, si declina nel corso degli anni Sessanta, a partire da La giornata d’uno scrutatore del 1963 fino al testo paradigmatico del 1972, Le città invisibili, è da ritenere che l’ascendente della pittura del primo de Chirico – quella degli anni 1909/1918 in cui si assiste alla nascita di un linguaggio artistico che, passando attraverso una lettura personalissima del grande simbolismo europeo, in particolare della pittura di Arnold Böklin e Max Klinger, avvicinati durante l’apprendistato a Monaco di Baviera, perviene a esisti sorprendentemente nuovi con la serie delle piazze d’Italia – abbia svolto un ruolo niente affatto trascurabile nell’immaginario dello scrittore.

Consistenti le spie nel testo ‘corsivo’ delle Città invisibili.[9]

Si ripercorra il passaggio in cui Marco Polo, a Kublai Kan il quale gli fa rilevare che le città da lui descritte sono frutto di invenzione dal momento che il suo racconto è totalmente discordante da quello di altri osservatori da lui inviati nelle città del suo sterminato impero, replica sottolineando la peculiarità dei suoi resoconti: «Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di là metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla».[10]

Quindi è l’autore stesso, che di solito assiste silenzioso alla conversazione tra Kublai Kan e Marco Polo, a saltare dentro il racconto per far sentire direttamente la sua voce e dare un resoconto oggettivo della singolarità delle città descritte dal viaggiatore veneziano: «Ma ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto o notizia riferita dal suo inarticolato informatore era lo spazio che restava loro intorno, un vuoto non riempito di parole. Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa».[11]

Singolare la coincidenza con i tratti iconografici delle città Metafisiche di Giorgio de Chirico secondo l’interpretazione che Calvino stesso proporrà a distanza di dieci anni nel corso di una conferenza.

Sulla occasione che ha originato nel 1983 quella lettura i curatori dell’edizione mondadoriana di tutte le opere di Calvino annotano: «Testo presentato in occasione di una mostra al Beaubourg di Parigi dedicata a Giorgio de Chirico (la lettura era accompagnata dalla proiezione di una serie piuttosto nutrita di diapositive, una quarantina circa), poi in “FMR”, luglio-agosto 1983, col titolo Accanto a una mostra e quindi, con il titolo Viaggio nelle città di de Chirico, nel volume Giorgio de Chirico, Memorie della mia vita (fastigio di Italo Calvino, vol. II°, La Bautta editrice, Ferrara-Matera, 1985). La stesura, come attesta il Taccuino, è compresa tra il 7 e il 13 febbraio 1982».[12]

La nota è almeno molto approssimativa.

Non sarebbe stato affatto irrilevante ricordare che la mostra in questione era stata inaugurata a Monaco di Baviera il 17 novembre 1982, chiusa il 30 gennaio 1983, quindi trasferita a Parigi, nel Centre Georges Pompidou, dal 24 febbraio al 25 aprile dello stesso anno.

Ciò avrebbe evitato quello che si ritiene un refuso: la stesura del testo della conferenza, che Calvino ha letto il 9 marzo nella stessa sede della mostra, si è svolta “tra il 7 e il 13 febbraio 1983” e non 1982 come indicato dai curatori dell’edizione mondadoriana.[13]

Se è vero che è nella settimana che coincide con il trasferimento dei quadri da Monaco di Baviera a Parigi che Calvino, potendo disporre soltanto del catalogo, peraltro in tedesco, della mostra in questione, scrive il testo di una conferenza – il cui titolo, nella registrazione sonora pubblicata nelle edizioni CNAC  GP, recita Voyage dans les villes de de Chirico quindi, nella pubblicazione in italiano nel fascicolo di luglio-agosto 1983 della rivista “FMR”,  Accanto a una mostra – nel corso della quale sono richiamati anche quadri non accolti in catalogo, è evidente che la sua conoscenza della produzione del primo de Chirico è tutt’altro che occasionale.

E inoltre: il fatto stesso di esigere che la lettura sia accompagnata dalla proiezione di diapositive è non trascurabile indizio della intenzionalità di proporre una esplorazione critica, e non semplicemente una narrazione sollecitata da immagini pittoriche.[14]

In una sorta di nastro visivo, che scorre parallelamente a quello verbale, sono infatti riprodotti, nella pubblicazione in “FMR” trentasette quadri che appartengono per la maggior parte al primo soggiorno di de Chirico a Parigi tra il 1911 e il 1915, salvo alcuni della stagione ferrarese tra il 1915 e il 1918 e del secondo soggiorno parigino tra il 1925 e il 1929: La partenza degli Argonauti del 1909, Melanconia del 1912, L’enigma di un giorno del 1914, La statua silenziosa non datato, La grande torre del 1913, Torino a primavera del 1914, Piazza d’Italia  del 1925, Il pomeriggio di Arianna  del 1913, Natura morta “Torino 1888” del 1914/15, La partenza degli Argonauti del 1921,  Il filosofo e il poeta del 1914, L’enigma della fatalità del 1914, Meditazione autunnale del 1912, Interno metafisico con due manichini del 1918, Mistero e malinconia di una strada del 1914, La caserma del marinaio del 1914, Il profeta del 1915, Composizione metafisica del 1913, Malinconia della partenza del 1916, Le temple fatal del 1914, La conquista del filosofo del 1914, L’incertezza del poeta del 1913, Il viaggio ansioso del 1913, Grande interno metafisico del 1917, Interno metafisico con grande fabbrica del 1916, Meubles dans une vallée del 1927, Paysage dans une chambre del 1926, Il grande metafisico del 1917, L’archeologo del 1927, Les jeux terribles del 1925, Il sogno trasformato del 1913, il figliol prodigo del 1922, La joie soudaine del 1926 e Chevaux percés de flèches del 1927.[15]

Resta da chiedersi per quale ragione sia stato scelto per quella conferenza proprio Calvino il quale di fatto, nel corso della sua riflessione sulla pittura del Novecento, al di là della veloce citazione nel lontano saggio del 1946, non ha mai prestato attenzione all’opera di de Chirico.

Non è disponibile una documentazione che sciolga l’interrogativo.

È tuttavia molto probabile che sia stato Calvino stesso a sollecitare quell’invito trattandosi di una mostra sulla prima stagione di de Chirico: Giorgio de Chirico. Der Metaphisyker recita il titolo della mostra inaugurata in Baviera e successivamente trasferita a Parigi. E con quella stagione del ‘pictor optimus’ si può esser certi che l’autore delle Città invisibili ha contratto una antica e ininterrotta consuetudine.

È in ogni caso fuori dubbio che quella conferenza offre una interpretazione penetrantissima dei quadri del primo de Chirico e dispiace che nella edizione mondadoriana di tutte le opere di Calvino essa figuri nella sezione Guardando disegni e quadri del terzo volume dei Romanzi e Racconti piuttosto che nei volumi dei Saggi.

Si ritiene infatti che tale collocazione condizioni a priori il lettore il quale è inevitabilmente spinto a leggere quel testo non come uno studio critico ma come un racconto stimolato da immagini visive.

In questa direzione non contribuisce certo a fare chiarezza uno studioso attento al rapporto di Calvino con le arti visive quale è Marco Belpoliti nel volume einaudiano del 1996 L’occhio di Calvino.

Nonostante premetta che «non è semplice e forse neppure corretto differenziare i testi di Calvino dedicati agli artisti tra testi narrativi e testi saggistici, dal momento che la sua scrittura contiene entrambe queste polarità»[16], finisce tuttavia per giudicare “prevalentemente narrativo” il testo dedicato al primo de Chirico.[17]

Ciò non toglie che la sua riflessione faccia ampie concessioni allo spessore critico del testo in esame: «Il racconto introduce nel paesaggio dechirichiano, segnato da una sospensione temporale, dall’indeterminatezza dell’ora e del giorno, un elemento di temporalizzazione; in modo analogo, lo spazio dilatato condiziona i pensieri del viaggiatore, lo conduce allo smarrimento del proprio tempo che diviene di colpo incerto tra presente e passato, tra la giovinezza e la vecchiaia».[18] Subito dopo, come se si trattasse del resoconto di un sogno: «Lo spazio si offre al narratore e nel contempo si sottrae con la sua effettiva impercorribilità, la sua inaccessibilità. L’agorafobia si comunica dal paesaggio al narratore».[19]

Soffermandosi sulla modalità con cui sono qui usati i termini ‘agorafobia’ e claustrofobia’, Belpoliti richiama la recensione scritta da Calvino l’anno precedente per “La Repubblica” in occasione della pubblicazione del volume Il paesaggio nella Storia d’Italia einaudiana.

In quel testo, La città pensata: la misura degli spazi, Calvino osserva che la dimensione del vuoto urbano è una costante mentale italiana, attraverso cui si collegano le città ideali rinascimentali a quelle del primo de Chirico: «La visione agorafobica di Leopardi ci immette in una dimensione di paesaggi urbani dominati dal vuoto che può ben dirsi una costante mentale italiana e che collega le “città ideali” rinascimentali a quelle metafisiche di de Chirico».[20]

E Belpoliti a conferma della lucidità del rilievo di Calvino: «Tocchiamo qui un nucleo decisivo della poesia di Leopardi: il rapporto tra uno spazio ristretto rassicurante e il fuori smisurato e disumano. Da una parte la casa, la finestra, i noti rumori serali di Recanati, le vie dorate e gli orti; dall’altra la Natura immensa e indifferente quale appare all’Islandese; da una parte la siepe, dall’altra l’infinito. Contrapposizione in cui repulsione e fascino possono scambiarsi le parti: il natio borgo, modello di misura umana, è anche insopportabile; e il naufragare nel mare del vuoto sconfinato può essere dolce».[21]

E tuttavia il riconoscere la acutezza della lettura calviniana riguardo alla decisività dell’ascendenza di Leopardi negli estremi dell’immaginazione spaziale entro cui oscilla il pensiero di de Chirico non modifica il giudizio complessivo di Belpoliti: un racconto di invenzione stimolato da immagini pittoriche.

Quel che in ogni caso emerge dalla sua lettura è il gioco di specchi che sottende il testo della conferenza: Calvino legge de Chirico in primo luogo a chiarezza di sé. Di qui il portare all’evidenza, nel render ragione della peculiarità del linguaggio pittorico di de Chirico, quella triade di maitres à penser, Galilei, Leopardi e Ariosto, decisiva per la sua stessa esperienza di scrittore.

Già nella lontana conferenza del 1959, nell’atto di consegnare il suo autoritratto come scrittore agli studenti della Columbia University, Calvino aveva del resto pagato un tributo altissimo all’autore dell’Orlando furioso: «Tra tutti i poeti della nostra tradizione, quello che sento più vicino e nello stesso tempo più oscuramente affascinante è Ludovico Ariosto e non mi stanco di rileggerlo. Questo poeta così assolutamente limpido e ilare e senza problemi, eppure in fondo così misterioso, così abile nel celare se stesso; questo incredulo italiano del Cinquecento che trae dalla cultura rinascimentale un senso della realtà senza illusioni, e mentre Machiavelli fonda su quella stessa nozione disincantata dell’umanità una dura idea di scienza politica, egli si ostina a disegnare una fiaba. […]. Ariosto così abile a costruire ottave su ottave con il puntuale contrappunto degli ultimi due versi rimati, tanto abile da dare talora il senso d’una ostinazione ossessiva in un lavoro folle; Ariosto così pieno d’amore per la vita, così realista, così umano …

È evasione il mio amore per l’Ariosto? No, egli ci insegna come l’intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d’ironia, d’accuratezza formale, come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come esse possano entrare a far parte d’una concezione del mondo, possano servire a meglio valutare virtù e vizi umani. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell’epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali. È un’energia volta verso l’avvenire, ne sono sicuro, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggero, Bradamante, Astolfo …».[22]

È in questa linea di pensiero che Calvino guarda al de Chirico delle città ‘silenziose’, per usare la definizione che in epigrafe accompagna il testo della sua conferenza nella pubblicazione in “FMR”, come a un suo affine.

Recita l’incipit della sua singolare esplorazione: «Non so come sono arrivato fin qui. Non ricordo cosa c’è fuori, forse un mare quasi nero da cui affiorano squame di mostri. Un cupo mugghio si levava a perdifiato come dalla tromba-conchiglia d’un tritone».

Si tratta di un dipinto del 1909 di cui non si conosce il titolo esatto. Tramandato a lungo sia come Sirena sia come Tritone e Nereide e a partire dagli anni Ottanta come Tritone e Sirena, rappresenta due creature mitologiche con corpo antropomorfico nella parte superiore e doppia coda di pesce nella parte inferiore. A sinistra emerge dall’acqua, di schiena, il tritone con le caratteristiche pinne ad aletta sui fianchi e sulla spina dorsale, ancora gocciolante e incrostato di alghe e lumache marine. Serra tra le mani la buccina, una conchiglia ritorta nella quale soffia con forza traendone il caratteristico suono vibrante e cavo che indirizza al cielo. Dietro di lui una grande onda scura nasconde l’orizzonte e si gonfia come il respiro profondo del mare nel quale si abbandona languida, in un ardito scorcio, la tritonessa dalle carni bianchissime inguainata dal ventre in giù in un doppio tubolare di squame reticolate color verde acqua.

Eseguito con tecnica sommaria ma efficacissima, il quadro è sicuramente un pezzo di bravura di grande effetto in cui si direbbe esibita l’ascendenza di Max Klinger, il grande incisore e pittore e scultore che ha esercitato un ascendente fortissimo nell’immaginario di de Chirico dagli anni della formazione a Monaco di Baviera fino alle produzioni ultime.

È il movimento d’avvio di una ‘esplorazione’ che subito dopo staziona sul quadro, sempre del 1909, La partenza degli argonauti, dove la messa in dialogo del mito classico con la contemporaneità fa registrare una ‘personalizzazione’ destinata a ulteriori accentuazioni.

Sotto spoglie mitologiche è messa qui in scena una vicenda autobiografica: siamo nella baia di Volos e una nave al largo attende la spinta dei venti; sulla riva due personaggi, uno dei quali ha in mano una lira, rivolgono il pensiero alla partenza imminente, dopo aver immolato vittime alla statua di Atena. Sono i due fratelli Giorgio e Andrea de Chirico sotto la doppia veste dei Dioscuri e di Orfeo, che con la sua arte rende possibile il viaggio.

Scrive Calvino con abile passaggio dal dipinto Tritone e Nereide a La partenza degli Argonauti: «Si sa che i suoni, per fermarsi nel riposo d’un’eco e non propagarsi eternamente, hanno bisogno d’approdare a una riva, agli spalti d’un molo, ai muraglioni d’una città.

Poco ricordo della città vista dal mare: bianca dietro i cipressi come quella da cui erano salpati gli Argonauti; scale di granito scendevano alla spiaggia sassosa dove il marmo delle statue era arrossato dal sangue dei capretti sacrificati alla Dea».

La descrizione di Calvino è accurata nel cogliere i dettagli più significativi dell’iconografia dechirichiana: «È dall’interno della città che ricordo la vicinanza del mare; o dirò meglio: la vicinanza del mare era un ricordo: una cortina nera sbatteva al vento sulla loggia d’un palazzo, e chi aspettava il compiersi d’oscuri oracoli guardava giù le onde rompersi alla base delle colonne. Se a terra l’aria era ferma, le cortine ricadevano pesanti nei pomeriggi d’autunno, ma sull’orlo cupo del mare la corsa del vento e delle vele passava alta sui tetti delle case».

Il richiamo ora è al famoso dipinto, L’enigma dell’oracolo, sempre del 1909, ma non presentato alla mostra, quindi non riportato nel testo visivo pubblicato in F.M.R. ma inconfondibile spia di una consuetudine antica con l’opera di de Chirico e comunque niente affatto approssimativa.

Si tratta di un quadro importante nel processo di nascita della pittura metafisica perché costituisce l’anello di congiunzione tra il momento simbolista e il momento della “rivelazione”: tutto è giocato sulla contrapposizione tra una zona di silenzio e di immobilità (l’interno del tempio) e una dove fluisce la vita (le nuvole in cielo, le case) secondo una struttura che compare qui per la prima volta e che trasferisce nel linguaggio pittorico la poetica dell’infinito di Leopardi. Importante il particolare della tenda nera, ferma quando deve comunicare un senso di mistero, mossa dal vento quando deve trasmettere il senso della rivelazione e dell’annuncio che secondo la tradizione emana dagli antri delle sibille. A dominare la scena teatrale la figura dell’Ulisse di spalle, che tornerà successivamente in molti dipinti fino al 1918, emblematica dell’uomo di pensiero, solo di fronte al mondo e all’enigma del suo destino (l’oracolo rappresentato dal simulacro bianco parzialmente coperto da una tenda).

Il quadro fa parte della serie degli ‘enigmi’ e tra questi piace a Calvino segnalare L’enigma della fatalità, un quadro del 1914 il cui insolito formato, il triangolo, richiama l’attenzione sul significato simbolico delle figure geometriche e in questo caso oltre al triangolo anche la scacchiera, in primo piano, messa in particolare evidenza da una mano, avvolta in un guanto rosso, che sfiora il riquadro in bianco e nero della scacchiera con la punta delle dita.

Senza dubbio la scacchiera, elemento iconico centrale nelle Città invisibili, può leggersi come una delle spie dell’ascendente dechirichiano nell’immaginario urbano di Calvino il quale peraltro non esita a confessare: «La verità è presto detta: da quando sono entrato in questa città, la città è entrata in me; dentro di me non c’è posto per nient’altro. Da allora il mio sguardo scorre su superfici levigate, sgombre, che il sole fa dorate, l’ombra nere; ma a dire il vero io non so se il sole ci sia né dove sia, perduto dietro lo spessore d’un cielo verde-bottiglia, o sfoggiando la sua giovinezza mattutina in nuvole leggere e bianche; non serena, perché mai la giovinezza lo è, bensì ansiosa, trepidante: scorrono i cirri, veloci come rughe che affiorano su una fronte giovane e scompaiono».

Calvino ha lucida consapevolezza che la sua indagine sui meccanismi del pensiero di de Chirico tocca il cuore di una problematica che innerva anche il proprio percorso creativo: la elaborazione di un linguaggio inedito mediante il quale il tema della città diventa un modo di conoscenza del reale.

Di qui il coinvolgimento e l’emozione della scoperta: «Piazze, vie, spianate s’estendono davanti a me ostentando un’apparente accessibilità, come a dire: “siamo lisce e sgombre, percorretemi. Chi potrebbe diffidare del loro invito?

Solo un agorafobo”».

Il confronto che Calvino istituisce con il pittore fa pensare a quella ‘lotta con l’angelo’ evocata da Giacomo Debenedetti quando deve definire il ‘corpo a corpo’ in cui consiste la fatica del critico per carpire all’artista il suo segreto.

«Forse l’agorafobia – fa rilevare Calvino – è un contagio che questa città trasmette a chi vi arriva senz’ essersi premunito; anch’io ne soffro, devo dire, da quando mi trovo qui».

E avanza con circospezione nelle piazze del suo de Chirico: «Gli spazi vuoti mi paiono ardui da attraversare; preferisco strisciare dietro gli spigoli degli edifici, tra i pilastri dei portici, senza avventurarmi allo scoperto; tanto più che non saprei dove dirigermi. A chi potrei chiedere la strada? A quei due passanti laggiù in fondo? Mi sembrano lontani, troppo lontani; anche se adesso sono fermi e sembra che parlino tra loro, prima che io sia arrivato là certo si saranno allontanati. Potrei invece interrogare una statua? Se ne incontrano molte e paiono più facilmente raggiungibili. Ma quello che le statue insegnano, senza che io lo chieda, è una linea di condotta: devi stare immobile, lasciare che lo spazio circoli intorno a te; se ti situi nel modo giusto nello spazio, il tempo non avrà più presa su di te, la clessidra resterà sospesa».

Il riferimento implicito è al pensiero di Nietzsche, a quella ricerca dell’eternità nel tempo che trova la sua espressione poeticamente più alta nel passaggio dello Zarathustra in cui è descritto l’incontro con il pastore al quale un serpente è entrato nella gola, in prossimità della grande porta nella cui sommità è incisa la parola “Attimo”: è l’attimo in cui l’eterno entra nel tempo.

È intorno a questo, definito da Nietzsche il suo pensiero abissale, che si incentra la riflessione del primo de Chirico, la sua sfida a dar conto, attraverso il linguaggio della pittura, di una realtà sottratta alle dimensioni spazio-temporali dell’esistente.

Ed è quel che esercita in Calvino una invincibile seduzione: «Lo spazio ha dimensioni che presentano ognuna caratteristiche diverse: l’orizzontalità è un piano continuo, la verticalità è fatta di elementi isolati: torri, fari, ciminiere. In cima alle torri sventolano bandiere appuntite, stendardi, orifiamme d’ogni colore: se è per una festa, è soltanto lassù che essa viene celebrata; qua sotto tutto tace. O sarà per indicare ai naviganti da quale parte tira il vento? Ma quaggiù non vola neanche un granello di polvere; solo l’alto cielo è trascinato dalle correnti. D’altronde non si vede anima viva sulle torri, dalla base alla vetta.

Da ogni parte mi giri continuo a vedere quei due signori laggiù in fondo».

Quindi il disvelamento: «Questa città è fatta per accogliere il pensiero. […]. Qui il pensiero trova il suo spazio, e il suo tempo, un tempo sospeso, come d’invito, d’attesa. Qui il pensiero sente d’essere sul punto d’affacciarsi all’orizzonte della mente, e può prolungare questo stato d’incertezza aurorale e rimandare il momento in cui sarà obbligato a precisarsi, a diventare il pensiero di qualcosa». 

Calvino richiama, sia pure con ironico distacco, due filosofi centrali nella storia del pensiero moderno: «Dal tempo in cui leggevo i filosofi molto tempo è passato, la mia memoria s’è fatta incerta, e ora sto cercando di ricordare quello che diceva un filosofo … Je pense, donc … il  pensiero bisogna bene che sia da qualche parte, che occupi un luogo, il pensiero deve avere una residenza spaziosa, una città …. Si pensa, dunque esiste una città del pensiero».

Il richiamo è alla nozione cartesiana di res cogitans e res extensa, mentre l’aneddoto riferito a Kant è un pretesto per ricordare la necessità per l’uomo di pensiero di una sorta di ‘barriera’ fisica per attivare al meglio la propria capacità di pensare: «E le torri? Forse sono come quella torre che un altro filosofo guardava dalla sua finestra,a Könisberg. Raccontano le biografie di quel filosofo che ogni pomeriggio, di ritorno dalla sua passeggiata abituale, si sedeva vicino alla finestra e la presenza della torre, anche se appena intravista quando al calar del sole diventava un’ombra indistinta, era propizia alla sua meditazione».

Alla funzione della torre, necessaria allo sguardo assorto del filosofo tedesco, è associata quella delle statue nelle piazze di de Chirico:«Non c’è nulla che inviti al pensiero quanto l’immobilità delle statue, non importa se rappresentano dee avvolte in drappeggi o uomini pubblici in redingote: basta che siano di marmo, basta una figura su un basamento con intorno uno spazio vuoto, una piazza, oppure isolata nel vano d’una nicchia; ed ecco la mente si sente subito propensa a sostare, a riflettere.

Certo che in queste piazze puoi incontrare i due Dioscuri, nudi, con una lancia, o Edipo, cieco, col bastone».

Il richiamo è al dipinto del 1920 in cui de Chirico torna su un tema che gli è caro, La partenza degli Argonauti, già rappresentato in un quadro del 1909 dove evidentissima era la dipendenza da Max Klinger, il pittore al quale ora, in occasione della morte, oltre a dedicare un penetrantissimo saggio, vuole offrire la testimonianza di un magistero che non ha mai smesso di agire: nella esecuzione del dipinto la figura di uno dei Dioscuri con in mano una lancia e con lo sguardo rivolto verso il mare è una palese citazione da una incisione klingeriana.

Un omaggio dovuto a un grande maestro?

Senza alcun dubbio è stato Klinger, il pittore innamorato della musica, a suggerire al giovanissimo de Chirico, negli anni dell’apprendistato a Monaco di Baviera, le vie e i modi per mettere in dialogo mito classico e modernità.

Ed è lezione da cui discende la peculiarità di tutto il percorso artistico del ‘pictor optimus’, delle sue città dove è offerta alla mente la possibilità di viaggiare in assoluta libertà, con passi ora fulminei ora lentissimi, attraversare piazze dove sostano rare, sconcertanti presenze: «Certo in queste piazze puoi incontrare figure ieratiche, rigide come manichini, con teste a clava o a uovo, senza volto: se nei loro corpi di legno o pietra esse incarnano là le nostre inquietudini, ciò vuol dire che l’inquietudine è ormai tutta contenuta in loro, e in noi non resta che una calma assorta e malinconica; come quella che ci ha ispirato l’angelo della melanconia, che ci sottrae le nostre angosce nascondendole in una collezione d’oggetti eterocliti e asimmetrici».

Il richiamo è al dipinto di de Chirico, Melanconia, del 1912: la posizione stessa della statua, col capo reclinato sul braccio, e la presenza della scritta nel basamento, rinviano all’iconografia canonica della malinconia, alla tradizione che associa l’umore malinconico all’esercizio della poesia, della filosofia, delle arti e in questa linea interpretativa piace a Calvino sottolineare la indiscussa forza modellizzante della incisione di Dürer.

«Queste figure – prosegue il conferenziere – prendono su di sé le nostre inquietudini fino a renderle strane ed estranee ai nostri occhi; perciò l’ispirazione che traiamo da loro è silenzio e quiete, e quando le incontriamo nelle piazze della città le salutiamo come le nostre muse» dove l’uso stesso della prima persona plurale del possessivo può leggersi come una spia dell’alto grado di penetrazione da parte di Calvino all’interno dell’universo dechirichiano: «Le muse sempre hanno comunicato con gli uomini da un al di là sconosciuto; ma l’al di là da cui queste ci parlano è l’ombra dentro di noi, che esse si guardano bene dal rischiarare, anzi spingono più indietro, più lontano, e ce ne offrono solo una struggente penombra.

È la malinconia che illumina queste strade e non l’angoscia».

E immediatamente lo sguardo di Calvino è catturato dal dipinto del 1914, Mistero e malinconia di una strada, dove si assiste all’incontro allarmante di due ombre: una bambina che gioca con un cerchio, una silhouette nera che si slancia verso l’ombra di una statua invisibile che si protende minacciosa a sbarrarle la strada. Lo spazio del quadro è diviso in una zona oscura, resa ancor più inquietante da un furgone addossato alle arcate del portico, con le porte posteriori spalancate, in attesa che sia deposto in esso un carico, forse quello di una bara, e in una zona opposta, una teoria di arcate nere che si succedono in una superficie bianchissima: la minacciosità dell’insieme è accentuata dal fatto che le due zone non ‘concordano’ affatto in quanto i loro punti di fuga sono diversi.

Recita la lettura di Calvino: «Anche nella luce meridiana troppo viva che batte sulle arcate d’una via interminabile e trasforma in ombra la bambina che gioca col cerchio. Ecco un’altra ombra si profila al crocevia, un’ombra umana … Una minaccia? Un incontro col destino? Tutto ciò che il futuro può rivelare è poca cosa. Conta solo il ricordo, che è già presente nel presente, l’incertezza d’un attimo che resta uguale a se stesso e si ripete. Torna la strada con luci ed ombre, torna a correre la bambina (ora salta alla corda), torna l’ombra a sbarrarle la via (ora è l’ombra d’un fumaiolo di fabbrica), sulla destra non c’è più il furgone misterioso, o si è spostato, il palazzo dalle arcate ora è sormontato da una loggia con l’orologio, forse è una stazione, una stazione marittima, siamo in un porto, ora in fondo alla strada si vede il mare e un veliero.

Le figure misteriose potrebbero far credere a qualcuno di trovarsi nella città del sogno. Errore! ».

È qui implicitamente richiamata la complicata vicenda dei rapporti di de Chirico con i Surrealisti: se è innegabile l’ascendente che la sua pittura della stagione ‘metafisica’ ha esercitato sul movimento di cui Breton nel 1924 ha pubblicato il manifesto programmatico, è altrettanto vero che il ‘pictor optimus’ si è via più clamorosamente opposto a riconoscere la paternità attribuitagli proprio in quanto contrario a ogni forma di ‘automatismo’ in arte.

In piena consonanza Calvino: «Il sogno si svolge in città dai contorni imprecisi, dove s’incontrano persone che cambiano d’identità e di forma. Qui tutto è esatto, definitivo, stabile: quel che c’è c’è e, per strano che sia, non potrebbe essere altrimenti. Siamo in una città da vivere a occhi aperti, una città della veglia, dove l’attenzione si posa uniforme e costante sulle cose, come la luce, impassibile. Nei sogni la mente è prigioniera di ciò che vede o crede di vedere e che le incute spavento o meraviglia: qui la mente raziocinante si sente spinta al di là dello spessore delle apparenze, là dove si aprono gli spazi siderei delle idee».

Viene qui allo scoperto quel gioco di specchi che sottende l’intera esplorazione calviniana: l’arte è un’operazione da svegli, nella piena efficienza dei ‘meccanismi del pensiero’.

E in questa direzione Calvino richiama l’attenzione sul dipinto, di difficile interpretazione,  del 1914 Le Temple fatal : una composizione orizzontale che presenta in primo piano uno schermo o un sipario suddiviso a scomparti geometrici sul quale sono raffigurati in senso orario una lavagna nera con disegni tracciati in bianco, un busto femminile circondato da segni cabalistici, una sagoma di stampo da cucina a forma di pesce con attorno delle scritte e infine un rettangolo diviso in diagonale con segni cabalistici nella parte inferiore. Dietro questo schermo un cielo verde, al centro due stendardi rossi al vento tra due aeree strutture architettoniche prospetticamente disposte, una in luce e l’altra in ombra.

La figura del pesce, che nelle mitologie e nelle religioni antiche, mesopotamiche e iraniche, greche, ebraiche e cristiane, è sempre simbolo di nascita e restaurazione ciclica, salvatore e strumento della rivelazione, qui è filtrata ironicamente attraverso un’immagine bassa e popolare, quella dello stampo da cucina.

Di difficile interpretazione sono invece i disegni tracciati nel riquadro nero che simula una lavagna: l’occhio aperto sotto cui appare la scritta ‘Joie’, la figura con gli occhi chiusi sotto cui appare la scritta ‘souffrance’, la scatola cranica trasparente, il doppio cerchio sulla sinistra. Ipotizzabile un richiamo alle teorie di Nietzsche che potrebbe trovare una conferma nelle scritte sui bordi dell’altro riquadro nel quale è raffigurato il pesce: éternité d’un moment, énigme, chose étrange, non-sens  e isolata nel lato breve del riquadro: vie.

Calvino ferma a lungo l’attenzione su questo dipinto nel quale l’immagine è resa più assoluta, nuda, spettrale dall’artificio del disegno a matita sulla nuda tela accanto alla pittura a olio e avanza una riflessione sul pensiero nello stato di veglia e nella fase del sogno: «Pure il sogno – anzi il sonno – e il pensiero hanno aspetti simili: sono entrambi degli “stati secondi” in cui devi entrare staccandoti dal mondo esterno; e come esistono immagini che conciliano il sonno, così altre conciliano il pensiero. Per esempio una lavagna dove sono tracciate delle rette, delle curve, delle formule, ha il potere d’introdurti in un mondo scorporato, rarefatto, quale potrebbe essere quello della ragione, o almeno a portarti fin sulla sua soglia o comunque a dartene una nostalgia, o un presagio.

Ciò non implica affatto che tu ti metta a decifrare i segni sulla lavagna, teoremi, proiezioni di linee, diagrammi; già sai che quei segni sul fondo nero sono solo una lontana approssimazione a un universo ben più vasto».

Quindi lo sguardo di Calvino scorre su altri dipinti di quegli anni Dieci, L’enigma della malinconia, del 1914, La caserma del marinaio, dello stesso anno e Malinconia della partenza del 1916 nei quali si configurano altri emblemi dell’altrove: «Come la scacchiera, la squadra, l’uovo, la mappa delle coste d’un arcipelago, questi oggetti che incontro sul mio cammino, come fossero i veri abitanti della città – no – come fossero l’habitat del pensiero, abitante uno e molteplice.

Tutte le prospettive hanno un limite: un muro o un parapetto sbarra in fondo le vie: dietro passa un treno. Qualcosa sempre indica l’altrove: il treno con la nuvola di fumo bianca è come la vela bianca della nave sul mare scuro».

Piace a Calvino richiamare l’attenzione sulla figura del labirinto che è centrale anche nel proprio percorso creativo: «Queste immagini di movimento a me sembra non facciano che confermare una cosa: io sono qui, fermo immobile e ci resto. […].

Insomma, non è d’agorafobia che io soffro, qui. Al contrario, sento che sono diventato claustrofobo; mi sento chiuso in questo labirinto di vie e piazze, continuo a ripassare per gli stessi portici, a ruotare intorno alle stesse torri, a scontrarmi con gli stessi muri di mattoni.

Cerco altri spazi, dove regni un altro ordine, un’altra luce».

Non è questa ricerca dell’altrove il cuore stesso delle Città invisibili ?

Si direbbe sancito qui il gioco di specchi che sottende fin dall’inizio il Viaggio nelle città di de Chirico: «Ed ecco che ogni tanto – prosegue il conferenziere, mentre scorrono nel nastro visivo quadri come La conquista del filosofo, del 1914, L’incertezza del poeta, del 1913, Il viaggio ansioso, sempre del 1913, Grande interno metafisico, del 1917, Interno metafisico con grande fabbrica, del 1916, Meubles dans une vallée, del 1927, Paysage dans une chambre, del 1926 – mi si aprono paesaggi di città diverse, forse non meno malinconiche di questa, ma d’una normalità ostentata, con grandi stabilimenti industriali, ville in collina, vedute in cui tutto appare al suo posto, ogni luce, ombra, ogni colore. Ma queste vedute sono piatte, incorniciate, appoggiate a cavalletti in mezzo a strumenti da disegno. Se un albero fiorito finalmente s’illumina tra due oscuri muri di palazzi, si scoprirà che è solo un fondale di tela appeso. L’aria aperta qui è solo dipinta, un impiantito di palcoscenico è il terreno in cui si posano i nostri passi.  

Esterno e interno si scambiano i ruoli.

Le colonne e gli alberi s’ammucchiano in una stanza; le poltrone e gli armadi a specchi si posano sui prati. È per farmi rinunciare a pensare al fuori? Per escludere che un fuori esista?

La città del pensiero vieta che si possa pensare a qualcosa fuori dal pensiero?».

L’incalzare delle domande amplifica la coscienza del vuoto in cui si consuma il quotidiano esistere. L’attenzione si sposta sul dipinto del 1917, Il grande Metafisico, emblema delle ansie della contemporaneità: «Alle volte gli oggetti come spinti da una frenetica forza di attrazione, si stringono uno all’altro, s’accatastano e compenetrano, fino a che compongono la loro eterogeneità in una figura allampanata e spigolosa, dalle dimensioni e proporzioni di persona umana. È una nuova stirpe d’abitanti che sta prendendo forma, generata dalla città per il bisogno di colmare un vuoto, un’assenza?».

Si direbbe che agisca nella lettura calviniana dell’universo dechirichiano l’ascendente di Montale, il grande interprete del paesaggio ligure e suo ‘grande educatore’. Si ripercorra in particolare quell’osso montaliano al quale Calvino dedica nel 1976 uno dei suoi saggi più penetranti :

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

 

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto

Alberi case colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

È agevole cogliere in questi versi di Montale indubbie consonanze con la pittura del primo de Chirico.

E tuttavia la lettura calviniana tocca una problematica estranea all’universo montaliano richiamando l’attenzione sul profilarsi nell’opera di de Chirico di una realtà non più antropocentrica dove l’uomo finisce per essere oggetto tra gli innumerevoli altri oggetti del quotidiano: «Il punto d’arrivo del filosofo è questo? – si chiede cautamente Calvino – Annettere l’uomo al mondo delle cose, solido e misurabile e sicuro, identificare l’io nell’accumulazione di vestigia dei secoli?».

Subito la sua attenzione va a dipinti quali L’archeologo, del 1927, Les jeux terribles, del 1925 e in particolare a Il figliuol prodigo, del 1922, nel quale è rappresentato l’abbraccio tra il padre, una figura di vecchio colta di spalle, e il figlio, un manichino di legno, al quale sono addossati vari strumenti di misurazione quali righe e squadre, di grandissima intensità poetica per quella mano ‘umana’ posata sulla spalla del padre.

L’esplorazione di Calvino si chiude di fatto qui, con una domanda che è  forse un auspicio: «Quanto di umano era esiliato nel meccanico, ecco ritorna, come figliuol prodigo, a ricongiungersi all’umano fissato nel marmo delle convenzioni, ad abbracciare la statua paterna?».

Quel che segue si direbbe l’anticipazione di temi intorno ai quali Calvino strutturerà quelle ‘lezioni’ per gli studenti dell’Università di Harvard, che avrebbe svolto nell’autunno del 1985 se un ictus non avesse interrotto il suo percorso artistico e umano: «Non so da quanto tempo sto vagando attraverso questa città; non so più chi ero quando sono entrato tra le sue mura, né quanto sono cambiato da quando ho imparato a considerare tutto ciò che vedo come spoglia che devo lasciare alle mie spalle, relitto d’un mondo di cui la mente deve liberarsi per raggiungere l’esattezza, l’impassibilità, la trasparenza».

È difficile leggere l’explicit di questo Viaggio nelle città di de Chirico sottraendosi alla tentazione di scorgere in esso una sorta di trepido, definitivo, congedo: «Non ricordo quali passioni o turbamenti offuscavano il pensiero fuori di qui; ho dimenticato la parte di me stesso che ho lasciato lungo il cammino; solo alle volte mi prende il sospetto che la mia iniziazione mi sia costata troppo cara, ma non so valutarne né i guadagni né le perdite. Alle volte penso che andando avanti sempre più nel cammino che questa città mi indica, arriverò a ricomporre qualcosa che s’è spezzato; alle volte invece mi pare che sia stata consumata una separazione definitiva.

Ma separazione tra cosa e cosa?

Questo non lo so».

E subito dopo scorrono nel nastro visivo un dipinto del 1926, La joie soudaine, e un dipinto del 1927 Chevaux percés de flèches, nei quali sono rappresentati due cavalli che si rincorrono, nel primo caso lungo una spiaggia deserta, nel secondo in uno sterrato erboso, sempre con sfondo di templi e di rovine.

La lettura di Calvino restituisce con accenti vibrati una immagine intrisa di modernità ma dotata della potenza del mito: «Certe mattine un nitrito prorompe altissimo, vibra nell’aria; un altro nitrito gli risponde, e un altro, ora sembrano allontanarsi, ora farsi più vicini, insieme con un gran battito di zoccoli. Da tempo tutti i cavalli sono fuggiti dalla città e si aggirano sulle spiagge deserte. C’è chi li ha visti galoppare sulla riva del mare, con le criniere e le code fluenti che volano al vento, il pelo lucido sulle forti groppe.

Non so perché questi nitriti mi turbano.

Non so perché mi senta spinto dall’improvviso desiderio di raggiungerli e poi trattenuto da paura. Pare che i cavalli siano tornati selvaggi, dotati d’una forza folle che sbriciola le rovine dei templi. Nessuno più potrebbe sottometterli alle redini e alla sella. Quando s’imbizzarriscono il rimbombo del loro scalpitare risuona come un terremoto che fa tremare la città».

Questa è grande scrittura critica!

Nei modi piani di un racconto Calvino consegna qui un saggio magistrale che può essere scritto soltanto quando si verifichi l’incontro tra due artisti d’eccezione: in questo caso uno scrittore e un pittore del Novecento che, all’inizio del nuovo Millennio, continuano a configurarsi come presenze con le quali è opportuno intensificare il dialogo.

 



[1] CALVINO, Italo, Il libro della natura in Galileo, Saggi I°, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1995, pp. 853-860.

[2] CALVINO, Italo, Mondo scritto e mondo non scritto, Saggi I°, op. cit., pp. 1865-1875.

[3] CALVINO, Italo, Album Calvino, I Meridiani, Mondadori, op. cit., p. 265.

[4] Ivi, p. 272.

[5] CALVINO, Italo, Viaggio nelle città di de Chirico, in Romanzi e racconti, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1994, vol.III°, pp. 397-404.

[6] CALVINO, Italo, Umanesimo e Marxismo ora in Saggi I°,op. cit., pp.1469-72.

[7] CALVINO Italo, Tre correnti nel romanzo italiano d’oggi, in Saggi I°, op. cit  p.61.

[8] ASOR ROSA, Alberto, Stile Calvino, 2° ed., Torino, Einaudi, 2008, p. 55.

[9] CALVINO, Italo, Le città invisibili in Romanzi e Racconti II°, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1992.

[10] CALVINO, Italo, Le città invisibili op. cit., p. 497.

[11] Ivi, p. 386.

[12] CALVINO Italo, Saggi I°, Note e Notizie sui testi, op. cit.,  p. 1254.

[13] Recita il frontespizio del catalogo della mostra Giorgio de Chirico, pubblicato dalla casa editrice di Monaco Prestel-Verlag: Giorgio de Chirico der Metaphysiker.  Herausgegeben von William Rubin, Wieland Schmied und Jean Clair. Haus der Kunst, München 17. novembre 1982 bis 30. Januar 1983 e Centre Pompidou, Paris 24. Februar bis 25. April 1983.

[14] Non è trascurabile che nel mese di marzo, subito dopo aver letto la conferenza, Calvino parta per New York dove agli studenti della Columbia University legge una conferenza sul suo romanzo del 1972 Le città invisibili.

[15] Si fa riferimento al testo della conferenza pubblicato in italiano nel fascicolo n° 15 della rivista “FMR” con il titolo Accanto a una mostra e in epigrafe: «Alcuni mesi fa, a Parigi, durante una mostra al Beaubourg, Italo Calvino lesse questo suo viaggio nelle silenziose città di Giorgio de Chirico. Le immagini, che accompagnano qui il Corso del Testo, corrispondono alle diapositive che accompagnarono allora la sua lettura».

[16] BELPOLITI, Marco, l’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, ed. ampliata 2006. Belpoliti richiama in nota (p. 323) un titolo diverso rispetto alla pubblicazione del testo in “FMR” : «Le città e il pensiero è il titolo del racconto che Calvino legge a Parigi nel 1983, in occasione della mostra di Giorgio de Chirico al Centre Pompidou, racconto pubblicato in traduzione francese nella rivista del Centre Pompidou e in Italia nel numero di luglio-agosto di “FMR”. Nel corso della lettura vengono proiettate una trentina di diapositive di quadri di de Chirico riprodotti nel numero della rivista italiana come una sorta di testo parallelo, testo visivo che lo scrittore ha evidentemente avuto presente nel momento in cui scriveva il suo racconto».

[17] Ivi

[18] Ivi, p. 199.

[19] Ivi, p. 200.

[20] Ivi, p. 199.

[21] Ivi.

[22] CALVINO, Italo, Tre correnti nel romanzo italiano d’oggi, Saggi I°, op. cit., pp. 74-75.