“Riviera amici”. Debenedetti e Montale

Capitolo conclusivo del volume di Rosita Tordi, Montale Europeo
Roma, Bulzoni, 2002

“Rileggendo i nuovi Saggi critici di Giacomo Debenedetti oggi ristampati da Mondadori – recita una recensione di Eugenio Montale per il “Corriere della Sera” del 19 settembre 1955 – ci accorgiamo che questo critico relativamente giovane (è nato nel 1901) appartiene ancora a una generazione generosa, capace di mantenere un dialogo coi lettori (ch’ebbe numerosi, come prova l’esito dei suoi libri). La sua critica, che raramente fu “di terza pagina”, è stilistico-psicologica, non riassuntiva, e non tende al breve e concluso bozzetto, ma al discorso articolato che lascia aperte molte porte”.
Permangono, anche se in forma meno perentoria, meno esibita ma tuttora tagliente, le antiche resistenze manifestate nella recensione del 1929 – apparsa nel fascicolo di agosto di “Pegaso”- alla prima serie dei Saggi critici. Lo stesso carteggio conferma a quell’altezza una incrinatura nell’amicizia tra il poeta e il critico, di fatto non più ricomposta, nonostante la faticosa e apparente riconciliazione.
E’ vero anzi che Montale lascia avvertire già prima del saggio del’29 una qualche volontà di marcare le distanze dal critico torinese. Si ripercorra ad esempio la lettera del 10 novembre 1924 dove oggetto del discorrere è il racconto Amedeo, ospitato da Ferrieri nel fascicolo 11/12 del “Convegno”: “Ed ora, Debenedetti, una parola sola su Amedeo. Una sola, perché i discorsi lunghi si fanno sulle opere mediocri o fallite (perdonami questa eretica proposizione) e Amedeo è una cosa viva e riuscita – L’ho letto con crescente ammirazione e mi son detto che la tua bravura e il tuo acume sono ammirevoli – C’è una continuità di tono che non era stata raggiunta finora da nessuno dei nostri giovani che tentano questo tipo di racconto fatto di analisi, di interni e di soliloqui. E c’è un’arte che può parer fredda solo a chi trova gelidi i ritratti di Ingres. Amedeo vive nel nostro ricordo anche senza fatti a cui vada legata la sua figura. Direi anzi che l’unico fatto, quello della circolare-catena, sia la parte meno felice di questa composizione che tende a un cristallo, a un’arrotatura di tipo superiore, in cui particolari del genere, un poco realistici, stanno a disagio. E’ preferibile che i dettagli siano tolti da una sorgente più eterna – Ricorda, oltre il bussare che si sente alla porta di Macbeth, i colpi d’ascia sui tronchi, nel ciliegeto (nel dramma di Cekov)”. (in I Meridiani, 1999, p.LXII).
L’atteggiamento di Montale è di chi guarda con sufficienza ai tentativi di un giovane che non sa ancora risolversi sulla via da seguire. Esplicita conferma è, a due anni di distanza, la recensione occasionata dalla riedizione in volume del medesimo racconto, Amedeo e altri racconti nelle edizioni del “Baretti”. Nonostante sia definito in apertura “uno dei libri narrativi più degni di ammirazione che siano usciti negli ultimi tempi”, la presa di distanza è subito evidente: “Quali ragioni abbiano guidato lo scrittore nell’opera sua appar chiaro non meno dal libro che dall’annunzio editoriale: dove si affermava che i racconti di Amedeo, sostenuti tutti su ragioni liriche e su accorte sfumature ambientali, costituiscono il primo esempio italiano di una narrativa d’introspezione, realizzata in forme volutamente letterarie e colte. Ora, non è già che il Debenedetti ignori il Peccato del Boine ed altri libri nostri, antichi o recenti, di scandaglio e di analisi; ma egli risponderebbe probabilmente, a chi volesse ricordargli alcuni nomi, di aver tentato di superare quella tessitura friabile episodica e talora singhiozzante ch’è propria di tali scrittori, e di sommergere una somma non minore di significati e di interessi umani nel periodo disteso e nella conquista pacata della più precisa e rigorosa tradizione letteraria. E questo impegno stilistico egli ha spinto tanto lontano da fargli assumere a materia d’arte, penso di proposito, smorti episodi della vita quotidiana, da lui sottoposti decisamente al riverbero di quell’atteggiamento intellettuale che tanto, e certo legittimamente, lo preoccupa. In altri termini il Debenedetti ha voluto consegnare alla vita dell’espressione letteraria definitiva (a più “dimensioni”) alcuni momenti di vita au relenti; e momenti modesti, ma appunto per questo tanto più adatti – per ragion di contrasto – a vibrare d’echi e di risonanze singolari”. Montale non fa quindi a meno di richiamare i rischi di operazioni siffatte, particolarmente visibili in racconti come Suor Virginia o Cinema Liberty: “Il pericolo di simili esperienze è quello di non consentire allo scrittore un impegno convinto e sostanziale; e di inclinarlo a un’arte troppo intellettiva e scevra di sensualità. E’ un po’ quello ch’è accaduto al Debenedetti in Suor Virginia, la cui mirabile esecuzione non basta a cancellare dal lettore una impressione di “pensato”, che più rende manifesta la sottigliezza del dato iniziale”.
Diverso discorso impone tuttavia Amedeo “che, con alcune parti del monologo finale, resta, a dirla come i nostri colleghi d’oltr’alpe, la pièce de résistence del volume. E certo, queste pagine nelle quali il Debenedetti s’è trovato a lavorare sopra il fondo distaccato e meglio riconosciuto del “ritratto” basterebbero da sole a classificare un giovane scrittore. S’è detto che sole non restano nel volume: si vegga, ad esempio, lo schizzo d’Irma in treno (pp. 132-3); oppure, a disingannare chi nell’autore considerasse soltanto l’essayst, la visione del cielo notturno su Torino (p.127)” dove è ancora un volta leggibile il tentativo di mettere la sordina al critico per “salvare” lo scrittore del quale pure gli dispiace “qualche traccia di eloquenza”.
Senz’altro più generoso il giovane Debenedetti nei confronti dell’esordiente poeta ligure: forse doveva un poco dispiacergli la breve silloge di Accordi, più tardi disconosciuta dallo stesso autore, se si fa eccezione per Corno inglese, e tuttavia non deve essersi fatto troppo pregare dall’amico Solmi per ospitarla in “Primo Tempo”. Ed è la poesia di Montale, accanto alla musica di Wagner, al centro di quel suo racconto giovanile, Riviera, amici, sempre in Amedeo e altri racconti, ma già apparso, nonostante un primo rifiuto, nel quindicinale milanese “Il Convegno” diretto da Enzo Ferrieri.
Senza dubbio filtrata attraverso la poesia degli Ossi è la descrizione del paesaggio che il protagonista guarda dal treno in corsa verso la Riviera: “Perché il nome collettivo di Riviera ha, da tempo cessato di essere per me una larga designazione geografica ed è divenuto il simbolo dell’atmosfera di libertà e di svago che alitava intorno agli amici liguri: Eugenio Montale e Lodovici e Grande, quando – insieme col triestino Bobi, un Joubert silenzioso ed arguto del loro gruppo letterario – mi mandavano delle cartoline da uno qualunque di questi luoghi che ora percorro”. E subito dopo un escamotage per portare sotto i riflettori il suo Montale: “Cerco nella valigia il libro di Eugenio Montale: Ossi di seppia. L’avevo portato meco, prevedendo che qui, in Riviera, l’avrei riletto con una solidarietà ancora più attenta che per il consueto. Ora, a sfogliarlo, trovo sempre più viva accanto a me la corona degli amici che impregna del suo spirito la Riviera e me la rende così ospitale. Montale li ha tutti raccolti nel suo libro e iscrivendone i nomi, a titolo di offerta, in cima alle poesie del volume, ha composto delle loro persone un fregio vivente”.
E tuttavia corre a Debenedetti l’obbligo di precisare subito dopo che nel gesto di Montale non è ravvisabile nulla che possa richiamare il vezzo ottocentesco per cui sul volume chiuso l’autore si erge come su un piedistallo: “Montale, conscio della natura schiva ed appartata dei suoi poemi, ha provato senza dubbio alquanto pudore all’idea di figurare, ombra solitaria, à coté del suo libro qui existe. Allora volle intorno a sé tutti i suoi amici più cari. Nel giorno di festa in cui il libro gli parve maturo per la pubblicazione, egli seppe distinguere la sua contentezza di artista dal giubilo stentoreo di quei maestri dell’Ottocento. Si ricordò del turbamento con cui qualche volta gli era toccato di riassumere i motivi della sua lirica:
codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
e allora trovò un modo cauto, struggente e persuasivo – il solo che potesse riuscire adeguato – di accomiatarsi dai suoi canti, e convocò con un cenno cortese e discreto i suoi amici, pronunziandone a pena il nome: e questa fu la sua prefazione dissimulata. Se le grandi prefazioni dei grandi libri di poesia d’altro tempo avessero potuto portare sinceramente in testa l’indirizzo del pubblico a cui si rivolgevano, esse sarebbero dovute aprirsi con qualche vocativo solenne che suonasse, per esempio: uomini! nazioni! posteri! quando non chiamavano a dirittura a testimoni, l’ombra immensa, l’ignoto, il mistero. Montale con voce velata si è contentato di dire: amici…”.
La spinta alla drammatizzazione porta Debenedetti fuori dagli schemi del racconto disperdendo anche intuizioni critiche non ovvie in quella stagione ancora molto incerta della fortuna critica di Montale il quale non può tuttavia che dichiararsi lusingato per l’attenzione dell’amico. Recita la sua lettera del 6 maggio 1926: “Carissimo, leggo ora sul 15nale il pezzo che mi riguarda del tuo scritto Riviera, amici (leggerò poi il resto) e te ne ringrazio di cuore. Dopo le note puramente estetiche – e in questa sede belle e opportune – di Cecchi Solmi ed altri, l’indagine sul mio libro non poteva che portarsi sul terreno morale, a chiamarlo così. Una raccolta di versi che offre adito a un doppio esame di tal genere può ritenersi forse non al tutto vana e fallita. Questa riflessione attenua un po’ lo scontento che mi rode, di me, dell’opera mia, della mia vita. Le tue pagine sono belle, affettuose e degne affatto della tua intelligenza e della tua bontà. Debbo ritenermi fortunato dell’interessamento e dell’affetto che ha circondato – ad eccezione del caro Lavriano – il mio libro. Per certi segni direi che il focherello non è spento ancora: se non m’ inganna una recente bellissima lettera mandatami da Valery Larbaud, che verrà a trovarmi assai presto.
Io dovrei scriverti assai meglio e più; ma conduco una vita disperatissima e non vedo spiragli per il mio avvenire. Vedo che gli altri si fanno una casa, dove io continuo a tirare innanzi alla sprovvista e senza possibilità di tirare il fiato. Puoi accusarne in parte anche le mie condizioni di salute che non potrebbero essere più precarie. Il risultato è quello che sai o immagini. Ma è inutile lagnarsi del destino che forse ci si merita.
Mi diceva Carrà, giorni addietro, che a Milano mi si crede ebreo per via del “caso Svevo”. Se fosse possibile essere ebrei senza saperlo, questo dovrebbe pur essere il mio “caso”, tanta è la mia possibilità di sofferenza, e il mio senso dell’arca, più che dell’home, fatta di pochi affetti e ricordi che potrebbero seguirmi dovunque, inoffuscati”.
E subito dopo, accennando al ciclo di letture di poesia delle origini dal titolo Primavera della lirica italiana che Debenedetti è chiamato a tenere presso “Il Convegno” a Milano nei giorni 4, 11 e 25 di quello stesso mese (L’arte della lettura, La lettura e la critica, Gli albori della rinascenza): “E tu? So che parli al Convegno, e mi duole di non poter venire: avevo pochi risparmi, e andai a Venezia e Trieste per tre o quattro giorni. Ho rivisto là Cecchi e Svevo e ho conosciuto Saba e Benco. E molte, troppe altre persone.
Perdona se non ti scrivo di più, per ora. Abbi pazienza e vedi oltre le parole”.
Assai più severo il giudizio di Montale quando è chiamato a intervenire pubblicamente. E’ il caso della recensione del 1929 alla prima serie dei Saggi critici: dopo un alternarsi di “dare” e di “togliere”, essa finisce di fatto per assestarsi intorno al profilo del saggista straordinariamente intuitivo che non riesce tuttavia a liberarsi delle sue “emozioni più disperatamente individuali”. Nelle accattivanti ricognizioni debenedettiane le “ragioni del cuore” avrebbero in definitiva sempre aggio sulle “ragioni della ragione”.
Si ripercorra quella recensione montaliana fin dal suo incipit: “Con gli undici numeri della sua rivista “Primo Tempo” che portò una nota di nobile riserbo nell’avventuroso e mercantile dopoguerra letterario, Giacomo Debenedetti si affermò singolarissimo fra i moins de trente ans della critica nuova. Il tono di “Primo Tempo”, rivista d’esordienti, era talora cifrato e difficile per amor di reazione. Di quel gusto risentono i primi saggi, del resto ricchi di acume, del libro di oggi, Lo stile di Benedetto Croce, Michelstaedter, e uno dei due saggi sul Saba, un poeta che si può dire debba al Debenedetti gran parte della sua giusta reputazione.
Incontrammo più tardi, nel “Baretti”, gli studi successivi del volume: i due Radigiuet e il primo Proust, e in essi è facile vedere come la chiusa durezza idealistica dei precedenti en marge fiorisca di nuovi modi e s’illeggiadrisca di esperienze meno conformiste e comunque più varie. In queste pagine sono già presenti tutte le qualità del Debenedetti: una curiosità sottile e sempre desta, talora grave di preoccupazioni e di interrogativi, tal’altra piacevolmente atteggiata tra la fumisteria e il gioco di conversazione; una capacità impressionante di seguire il pensiero di uno scrittore in tutti gli avvolgimenti, in tutte le pieghe, in tutti gli sviluppi; l’aderenza alle mode e ai problemi del tempo in tutto ch’essi hanno di vivo e di veramente originale; e infine la passione del proprio mestiere di critico, vi par poco? quella passione senza della quale non nasce critica degna di restare”.
Comincia a prender forma, dopo la profusione delle lodi, il profilo del critico condizionato da un incorreggibile dilettantismo di fondo: “Non si esclude, naturalmente,che anche la maniera del Debenedetti abbia i suoi difetti: tra i quali dovremo forse porre una qualche deficienza di rilievi sintetici, di epigrammi definitivi, tali da riassumere, e perciò da rendere più concludenti, le lunghe ricognizioni stilistiche e sentimentali”.
E subito dopo, giocando sul richiamo al barilliano Paese del melodramma, l’affondo tagliente: “Le analisi di questo amante della carta geografica del Paese dei Sentimenti (l’imagine è sua) hanno tal volta qualcosa di monocromo e di poco differenziato; i rilievi di questo critico che alterna e intreccia e magari confonde di proposito l’indagine estetica e quella psicologica e morale, subiscono in qualche caso le intimidazioni della sua cultura e inclinano a soluzioni che sanno di astratto e fanno pensare a una diminuita potenza di “presa” critica. Dato il “genere” dell’indagine del Debenedetti – ed anzi lodato il genere che presuppone un’elasticità intellettuale poco comune – piacerebbe di vedere il giovane critico arrivare fino in fondo al suo sistema, esaurirne altre possibilità e significati. Ma procuriamo di non andare troppo in là con questa osservazione e non scambiamo per un desiderio di tenersi sempre pronta una “uscita di sicurezza” la giusta preoccupazione del Debenedetti di non cristallizzarsi in un gesto unico, in un’unica falsariga. E soprattutto non nascondiamoci che questi difetti sono ben poca cosa di fronte ai risultati che nei suoi saggi – veri e propri saggi, non articoli di giornale: altra singolarità – il critico sa raggiungere”.
E’ fuor di dubbio che rilievi siffatti peseranno come un macigno nella fortuna critica di Debenedetti.
E a rendere ancor più sferzante il suo affondo, Montale mette in campo l’opera di Proust di cui Debenedetti è stato in Italia un lettore della primissima ora e senz’altro tra i più illuminati: “Non a tutti gli scrittori, è vero, s’intona perfettamente quella sua maniera densa e intricata che riproduce a meraviglia le folte vegetazioni del pensiero riflesso. Ma ponete il Debenedetti di fronte a un autore di molta complessità, ricco di interferenze e di rispondenze con gli aspetti più suggestivi del costume contemporaneo; a un autore che pare uniforme ma sa ravvivare il suo grigio di un’infinità di delicati “accidenti” e di semitoni; mettetelo di fronte a uno scrittore in cui l’elegia romantica si unisca al gusto acre e disincantato del posnaturalismo e ad un rigore costruttivo che fonda e annulli in sé la crudezza opaca del “documento”; mettetelo di fronte a un Proust e otterrete pagine profonde di persuasione e di significato, e tali da reggere ai confronti più pericolosi (Proust e la musica, Commemorazione di Proust)”
Montale riporta quindi un lungo passaggio dal saggio debenedettiano a dimostrazione che non possono esservi dubbi sulla priorità dello scrittore rispetto al critico: “Io non conosco, per mia fortuna!, che una piccola parte della letteratura critica che sull’opera di Proust è andata crescendo in Francia negli ultimi anni; ma credo che le pagine di Debenedetti possano figurare “tra le più belle” anziché “tra le più giuste”, perché il profilo psicologico e morale del Proust tracciato dal Debenedetti non esclude una valutazione più strettamente estetica del vasto libro proustiano, e di questa io che non sono uno specialista della materia non saprei prevedere la portata”.
E a sigillare il limitante giudizio sovviene il saggio conclusivo in cui Debenedetti affronta il nodo cruciale del rapporto tra critica e autobiografia: “Si capisce facilmente – incalza Montale che, nonostante la condiscendenza esibita, di fatto non vuole concedere nessuna attenuante all’amico critico – come tali rapporti interessino un saggista che dimostra alcunché di personale e di scoperto (nonostante ogni cautela) in ogni sua pagina. E che la cautela ci sia ce ne avverte già la prefazione, dove dice che “solo in un colpo d’occhio retrospettivo è permesso al critico di riconoscere sotto la trama logica dei propri discorsi, un vivo grafico delle proprie avventure di uomo. Se dall’autobiografia egli fosse partito deliberatamente, si troverebbe, finito il gioco, aver quasi sempre torto: essendovi arrivato senza premeditazione, potrà almeno ritrovare ne’ suoi scritti le ragioni del cuore, o meglio quelle dell’animo, che son più valide, si sa, che le ragioni della ragione”. E la citazione in questo caso deve funzionare, nell’aspettativa di Montale, come un cartiglio che lasci immediatamente riconoscere la specificità della critica debenedettiana.
Non si discosta dalla perimetrazione allora tracciata il saggio che Montale tornerà a scrivere per Debenedetti trenta anni dopo (1955), in occasione della pubbicazione della terza serie dei Saggi critici: ” Il fortunato schema di cui ci ha offerto Croce i migliori esempi in Poesia e non poesia, il forte scorcio che appiana molte questioni, e dal quale spesso un poeta esce piallato e potato più del giusto, ha fatto scuola e ha dato all’Italia alcuni critici originali, per lo più di estrazione e carriera universitarie. Debenedetti che alla università si è affacciato da poco – quasi in veste di free lance, di franco cacciatore – è di formazione diversa, più moderna e se vogliamo più romantica. Aggredisce spesso il suo soggetto come se volesse divorarlo, distruggerlo; e alla necessaria “ambivalenza” del critico è dedicata una pagina di questo volume; ma anche quando sembra che l’eleganza dell’eloquio, l’ornato della bella espressione e un certo desiderio di mostrarsi in prima persona gli prendano la mano, egli finisce sempre per restare in tema e per ricadere sul filo a piombo dell’argomento”. Il fastidio di Montale è palpabile dietro la generosità con cui riconosce senz’altro al critico torinese una straordinaria capacità intuitiva e una scrittura di indiscutibile eleganza e persuasività: “In tutta la critica psicologica che si fa o si faceva in Francia si nota sempre una certa prevaricazione, si ha il senso che l’autore discusso sia un pretesto, non un’anima da comprendere. Debenedetti, analizzatore elegante come pochi se ne videro, non dimentica mai che un libro importante è un fatto di coscienza e perciò sarà sempre necessario tenere presenti i suoi scritti ogni volta che si voglia rileggere con mente critica gli autori sui quali egli si è esercitato: da D’Annunzio a Proust, da Pirandello a Saba e a Svevo (verso il quale ha più di un’”ambivalenza”)”.
Ancora una volta Montale non fa a meno di sottolineare che le qualità dello scrittore sono a tal punto preminenti rispetto a quelle del critico che, anche quando gli capita di dissentire, finisce per essere catturato nella rete di una scrittura che non lascia prender distanza: “Si può qualche volta non andar d’accordo con lui, ma non si saprebbe restare indifferenti dinanzi a una passione letteraria vissuta e sofferta con tanta serietà”.
Le ragioni del limitante giudizio montaliano diventano assai più scoperte e motivate nella presentazione che sarà invitato a scrivere per una delle più fortunate opere postume di Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, vale a dire il ciclo di lezioni sulla narrativa italiana contemporanea che ha impegnato il critico negli ultimi anni del suo insegnamento di Letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Roma La Sapienza. Non possono considerarsi ‘innocenti’ i riconoscimenti di Montale al ‘professore’ ma piuttosto la conferma che ancora una volta è a suo avviso il piacere della conversazione, la voglia di sedurre più che di persuadere con i passaggi di una concatenazione logica del pensiero, ad avere aggio nelle operazioni di un critico che negli anni Sessanta andava svolgendo una ricognizione, che doveva poi configurarsi tra le più avvedute, della narrativa italiana del primo cinquantennio del Novecento. Tenendo fermo lo sguardo sulle presenze di Joyce, Proust e Kafka, quali fari indiscussi della narrativa europea alle soglie del secolo, Debenedetti ha frugato nel non esaltante spazio della narrativa italiana del primo cinquantennio del secolo scorso, isolando le opere di Svevo, Pirandello e Tozzi come i massimi esempi in Italia di una narrativa che, al di là dei programmi esibiti, di fatto non si lascia chiudere nella gabbia veristico-naturalistica.
Analoga operazione Debenedetti era andato svolgendo, in un precedente corso universitario (1956-57), nell’ambito della poesia italiana del Novecento, isolando in particolare la triade Saba/Ungaretti/Montale tenendo questa volta fermo, come luogo europeo di riferimento, l’opera di Mallarmé.
E’ assai probabile che la scelta debenedettiana delle Occasioni, come l’espressione più alta, accanto all’ungarettiano Sentimento del tempo, della poesia italiana nell’ambito del grande Simbolismo europeo, non abbia affatto incontrato il favore di Montale il quale non a caso dichiara senza reticenze di preferire il critico di narrativa, anzi il professore, di cui gli piace riascoltare la voce attraverso le lezioni universitarie, dedicate alla narrativa italiana del primo Novecento.
Non stupisce quindi il suo silenzio riguardo a La poesia italiana del Novecento, l’altra raccolta di lezioni, svolte da Debenedetti all’Università di Roma nel 1956/57, anch’essa pubblicata postuma, con la presentazione di Pier Paolo Pasolini.
La scelta di Debenedetti in questa occasione cade sulla Elegia di Pico Farnese, la cui struttura è fortemente drammatizzata: una processione di pellegrine muove all’alba dal borgo di Pico Farnese, luogo della sosta notturna, verso il vicino santuario, cantando salmi che hanno la funzione di innescare l’accensione lirica” . Scritta tra il 29 aprile e il 5 maggio 1926 essa costituisce insieme a Palio, nell’unità del sistema dei grandi testi delle Occasioni, il trittico che ha al centro Nuove stanze.
Al poeta la consecuzione seriale attuata nella prima edizione deve in seguito dispiacere, forse perché costruzione troppo evidente, sicché nella seconda provvederà a dissimularla scompaginando il trittico con l’intrusione, tra Nuove stanze e Palio, di un elemento estraneo (Il ritorno). Il rilievo è di Dante Isella il quale, nella breve presentazione che accompagna il testo della Elegia nella edizione critica delle Occasioni da lui curata, sottolinea come a una prima parte (vv. 1-26), descrittiva, con scarse rime dissimulate, uniformemente paratattica (come già rilevato da Carpi) si contrapponga una seconda ( dal v.32: “Oh la pigra illusione”), “lirica, calata in una sintassi ricca e mossa, fortemente inarcata, fino a là dove (vv.59-63) la certezza del riconoscimento avvenuto e della protettiva assistenza di Lei si distende nella calma assertiva della chiusa”.
Le lettere di Montale a Bazlen del 1 e 5 maggio e del 9 giugno 1939 danno conto del difficile iter che ha preceduto la redazione definitiva di questo testo: “Io qui volevo essere Blake-Rossetti, non Lipparini-Carducci; insomma devi aiutarmi a migliorare fin dov’è possibile questa elegia: ho molta fretta”, scrive il 1° maggio. E a distanza di cinque giorni: “Ho molto ritoccato l’Elegia, e non a freddo. Ora ti chiederei l’exequatur”. E se non esita a ringraziare il suo esigentissimo lettore per i suggerimenti ricevuti: “I ritocchi hanno giovato all’insieme della poesia. Prima c’era quella serie di ultimatum o imperativi categorici che finivano con una partita di tiro … e varie zeppe”, non nasconde tuttavia un certo fastidio per la propria arrendevolezza, come nel caso dell’aggettivo “imperiosa” lasciato senz’altro cadere, in un passaggio che è centrale:
(…) Ben altro
è l’Amore; è passato ora tra i bossi spartiti,
con la tua frangia d’ali, messaggera imperiosa.
La redazione definitiva recita:
(…)? Ben altro
è l’Amore – e fra gli alberi balena col tuo cruccio
e la tua frangia d’ali, messaggera accigliata!
Montale non è affatto persuaso della nuova lezione: “Ma il sacrificio dell’imperiosa non mi va giù anche se il corruccio mi par dia molto quel senso di profilo fatale extra umano”, tuttavia è costretto ad ammettere che la poesia ne ha musicalmente guadagnato: “Ora anche il ritmo passa più gradualmente da un inizio statico descrittivo a un moto narrativo e lirico”. Altro luogo ermeneutico controverso è il passaggio dominato dalla figura del “teatro dell’infanzia” e dalla rievocazione della donna salvifica il cui “splendore è aperto”:
(…): Ma più discreto allora
che dall’androne gelido, il teatro dell’infanzia
da anni abbandonato, dalla soffitta tetra
di vetri e di astrolabi, dopo una lunga attesa
ai balconi dell’edera, un segno ci conduce
alla radura brulla dove per noi qualcuno
tenta una festa di spari.
Recita l’autocommento montaliano: ” Il teatro dell’infanzia è certamente equivoco, ha tutt’e due i sensi che hai scoperto. Ma solo chi è stato a Pico
può essere certo che il teatro è stato un vero teatro dove si recita; chi non c’è stato avrà egualmente il sospetto, il dubbio, il suggerimento del vero teatro; perché teatro nel senso di milieu (il teatro del delitto) sarebbe molto banale e difficilmente attribuibile a Eusebius”. Questa volta Montale non è affatto disposto a cedere: “Così lascerò il passo immutato. A me succede spesso (e spesso volontariamente) di essere equivoco in questo modo. P. es. nel mottetto della donna che sta per uscire dalla nuvola (Perché tardi? Nel pino lo scoiattolo…):
“A un soffio il pigro fumo… (?)
si difende nel punto che ti chiude”
è chiaro che ‘nel punto’ (v.6) può avere due sensi: nel momento che e nel luogo che, tutti e 2 legittimi. Per Landolfi questo dubbio è orrendo; per me è una ricchezza. Certo, in questo caso l’equivoco è inconscio, spontaneo; nel caso del teatro è un po’ cercato”. Montale dunque si serve degli stessi “argomenti” usati dal suo lettore, freudiano della prima ora e convinto assertore della opportunità di estendere anche alla critica letteraria la metodologia psicoanalitica, per giustificare la sua volontà di conservare immutato questo passaggio del testo in cui si conferma l’attribuzione alla presenza femminile di un ruolo che non si lascia chiudere nelle categorie dell’umano. In questa direzione la donna il cui “splendore è aperto”, protagonista della Elegia di Pico Farnese, non è diversa dalla donna “figura di Cristo” dei versi di Iride, nella sezione Silvae della Bufera e altro: la sua funzione salvifica non acquista legittimità e potenzialità nuove attingendo esplicitamente alla simbologia cristiana ma è vero tuttavia che tra il 1939 e il 1943, rispettivamente le date di composizione dell’Elegia e di Iride, la Storia si è incaricata di scrivere le sue pagine più fosche in qualche modo oltrepassando ogni possibilità di uno sguardo lucido e implicitamende autorizzando quella “fuga” dall’umano che può aver suggerito a Montale la identificazione di Iris, l’ebrea americana costretta a lasciare l’Europa, con la presenza di Cristo, emblematica del sacrificio umano nella sua espressione più alta. Montale stesso ne è in qualche modo sorpreso se nella Intervista immaginaria 1946 richiama l’attenzione sull’automatismo che ha presieduto alla nascita di quella poesia: “Il libriccino (Finisterre 1943), con quell’epigrafe di D’Aubigné, che flagella i prìncipi sanguinarii, era impubblicabile in Italia, nel ’43. Lo stampai perciò in Svizzera e uscì poco prima del 25 luglio. Nella recente ristampa contiene alcune poesie ‘divaganti’, In chiave, terribilmente in chiave, tra quelle aggiunte, c’è Iride, nella quale la sfinge delle Nuove stanze, che aveva lasciato l’oriente per illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiano. Paga lei per tutti, sconta per tutti. E chi la conosce è il Nestoriano, l’uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il rigido e astratto monofisita. Ho sognato due volte e ritrascritto questa poesia: come potevo farla più chiara correggendola e interpretandola arbitrariamente io stesso? Essa mi sembra la sola che meriti gli appunti di obscurisme mossimi di recente da Sinisgalli; ma anche così non mi pare da buttarsi via”.
Forse può giovare a intendere le ragioni di quella identificazione di Clizia con la figura di Cristo che ha luogo nei versi di Iride se si richiama, seguendo il suggerimento di Giovanni Macchia per Notizie dall’Amiata, ultima delle Occasioni, l’ammirazione di Montale per Mussorgskij (La stanza dell’Amiata in La poesia di Eugenio Montale, Atti del Convegno internazionale, Milano-Genova 1982, Milano, Librex, 1983, p.83), purissimo musicista tragico nonostante l’indifferenza verso l’arte pura e gli sviluppi della scienza orchestrale, non potrebbe tuttavia essere pienamente compreso se – la sottolineatura è dello stesso Montale cronista musicale – la conoscenza dei grandi scrittori russi non ci avesse iniziato a quella sorta di cristianesimo naturale che nell’Occidente europeo non era stato intravisto nemmeno dal romanticismo. “Era questa – rileva Giovanni Macchia nella sua lettura di Notizie dall’Amiata – una assai valida indicazione per leggere Montale, e non come poeta puro. Qualcosa di mussorgskijano nel pensiero, nella nera densità del paesaggio, nella quasi totale assenza di luce, ove scoppiano soltanto scintille, e in quell’insistente registro di toni bassi, può essere avvertito anche in questa lirica” e, al di là delle Occasioni, il rilievo è sicuramente estendibile anche ai versi di Iride, che apre la sezione Silvae, ultima di La Bufera e Altro.
In Omaggio a Montale (a cura di Silvio Ramat, Milano, Mondadori, 1966, p.165), Sergio Antonielli inizia la sua lettura Clizia e altro con il seguente rilievo. “La parola di Dio che non compare mai, salvo errore, negli Ossi di seppia e nelle Occasioni, ricorre più volte nel terzo libro di Montale”anche se il nome di Dio non si legge mai e in questa direzione Ettore Bonora, in Un grande trittico al centro della Bufera – in La poesia di Eugenio Montale, Atti del Convegno Milano-Genova 1982, Milano, Librex, 1983, p.97 – osserva che nel modo di designare Dio nei versi di Iride “si ha da riconoscere, se mai, quel timore della maestà divina che rende impronunciabile il nome di Dio agli ebrei”.
Di fatto il ricorso a figure neo e vetero-testamentarie, che trama di sé i versi di Iride e di Finisterre, non implica una sia pur provvisoria adesione a una religione storica ma è in primo luogo, come si è già accennato, espressione dell’immenso disagio di fronte a una pagina della storia degli uomini che oltrepassa le categorie dell’umano. Si ripercorra L’arca, la cui prima pubblicazione è in “Il Tempo” del 25 febbraio 1943, laddove il poeta accenna alla guerra, vista come fatto “permanente” – secondo la stessa autoesegesi in risposta a Silvio Guarnieri nella lettera del 29 novembre 1965 – e ricorre alla figura del “vello d’oro” come di un “qualsiasi sudario” che, quando si alza, scopre i ricordi, le immagini di persone care perdute:
(…). La tempesta
certo li riunirà sotto quel tetto
di prima, ma lontano, più lontano
di questa terra folgorata dove
bollono calce e sangue nell’impronta
del piede umano. Fuma il ramaiolo
in cucina, un suo tondo di riflessi
accentra i volti ossuti, i musi aguzzi
o analogamente nei versi di Il tuo volo, la cui prima pubblicazione è in “Parallelo”, n.1 nella primavera del 1943, giudicati dallo stesso Montale, in una lettera a Guarnieri del 29 novembre 1965, alquanto enigmatici ma non incomprensibili:
Oh non turbar l’immondo
Vivagno, lascia intorno
Le cataste brucianti, il fumo forte
Sui superstiti!

Di contro al “troppo straziato bosco umano”:
E’ poca cosa la parola
recitano i versi di Personae separatae, pubblicati in “La Ruota ” (anno 1V, n.1, Roma, gennaio 1943) con la data “Novembre 1942″, nei quali la guerra è vista soprattutto come “alterità metafisica”, secondo le stesse indicazioni che si leggono nella lettera a Guarnieri del 29 novembre 1965.
E nel quadrante di un orologio impazzito:
(…) ciò che manca,
e che ci torce il cuore e qui m’attarda
tra gli alberi, ad attenderti, è un perduto
senso, o il fuoco, se vuoi, che a terra stampi,
figure parallele, ombre concordi,
aste di un sol quadrante i nuovi tronchi
delle radure e colmi anche le cave
ceppaie, nido alle formiche
è invocata la presenza di Clizia, la “inconsapevole Cristòfora” il cui ritratto è pienamente sbalzato nel passaggio conclusivo di La primavera hitleriana (ancora nella sezione di Silvae aperta dai versi di Iride ma nata in altra stagione, successivamente al ciclo di Finisterre al quale invece cronologicamente quei versi appartengono. La prima pubblicazione della Primavera hitleriana è in “Inventario” n.3-4, Firenze, autunno inverno 1946-’47):
(..). Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’altro e si distrugga
in Lui per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri della sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…
Se è vero che esiste una reciprocità di scambi tra il critico e il poeta, può essere opportuno ricordare che in quegli stessi mesi che segnano il passaggio dagli Ossi alle Occasioni, Montale svolge una intensa attività recensoria che lo porta a occuparsi anche di Joyce di cui recensisce i Dubliners. Si tratta di uno studio molto circostanziato e approfondito, per “La Fiera Letteraria” del 19 settembre, occasionato dalla pubblicazione nelle edizioni Plon della prima traduzione francese, Gens de Dublin, introdotta da un saggio di Valery Larbaud nella collezione di autori stranieri diretta da Charles Du Bos.
Montale lamenta la scarsa attenzione che i critici italiani, ad eccezione di Emilio Cecchi, dedicano all’opera di Joyce nonostante di gran parte di essa circoli già da tempo anche la traduzione francese: “Con la precedente traduzione del Portrait of the Artist as a Young Man (Dedalus, La Sirène, Paris), coi frammenti di Ulysses pubblicati da “Commerce” (estate 1924) nella traduzione del Larbaud e di A. Morel, e con la versione del dramma Exiles (“Convegno”, aprile-maggio 1922), il pubblico francese, e italiano, che non possa accostarsi al linguaggio caleidoscopico del poeta irlandese, o non possa accedere ai prezzi piuttosto elevati dei testi originali, è ammesso alla conoscenza di una notevole parte dell’opera joyciana”. E in particolare a proposito di Dubliners, di cui gli pare che il racconto Le sorelle sia il più convincente, Montale sottolinea la distanza dalle scritture della “cappella naturalista” il cui obiettivo è “una specie di mise-au-point univoca e sinfonica dei dati ambientali”. Al contrario il procedimento di Joyce consiste a suo avviso “nel trarre partito dalla singolarità stessa del taglio di codeste sue tranches e della lacerazione che ne consegue. Il senso di tali composizioni è in quella frangia di parole non dette, di reazioni non constatate e di vita inosservata che accompagna i tronconi mutilati di questi pezzi di vita dublinese; è nel paradosso con cui lo scrittore riesce, individuando la sua città nativa nei suoi tratti più realistici, le sue figure nei loro segni più minuti, a fare di questa Dublino concreta e provinciale una città rigorosamente astratta e fuori dal tempo” che è, mutatis mutandis, l’obiettivo consapevolmente perseguito dal poeta genovese. “Per cantare la sua città – sottolinea Montale a chiarezza dell’autore in esame ma anche di sé – il Joyce non credette di poter fare cosa migliore se non lasciarla per molti anni, e forse per sempre; e i racconti dublinesi furono scritti, almeno in gran parte, a Trieste. Nell’Ulisse alcuni buoni intendenti mi accertano che siano parecchie prospettive e scenografie triestine, riportate senza danno nel quadro dublinese; ed anche qui non mi stupirebbe affatto che tali passi fossero scritti da Joyce, assai dopo del suo lungo soggiorno in Italia”. E il gioco di specchi diventa singolarmente efficace quando la riflessione tocca “l’origine e l’educazione cattoliche di uno scrittore che riconosce di dovere ai gesuiti una notevole parte del proprio patrimonio intellettuale, e che ha passato a Parigi, sui testi di Aristotile e di san Tommaso, molte sere della sua prima giovinezza”. E subito dopo con un gesto che palesa il disagio di chi affronti una problematica nella quale si senta personalmente coinvolto: “Diremo in breve – afferma perentoriamente Montale – che il “senso del corpo” di Joyce è altro da quello dei romanzieri francesi; ed è rimasto in lui fondamentalmente cattolico. Un realismo, in questo senso, assoluto, qualora sia, com’è qui, spogliato della cristiana speranza nella redenzione; un senso preciso della fatalità di condurre seco, per le vie del mondo, uno scheletro pesante e insopprimibile, una carne vorace e peritura ch’è da sola una condanna della nostra miserabile condizione di esseri viventi”, dove lo stesso uso plurale dell’aggettivo possessivo può leggersi come segnale non del tutto trascurabile di quel gioco di specchi di cui si è accennato. E subito dopo, confermando una conoscenza dell’opera di Joyce non limitata al testo da recensire, Montale precisa: “Non è l’atteggiamento spirituale dei russi (si parla de’ più noti) nei quali è sempre possibile, come ha dimostrato da par suo il Scestov, veder trapelare dalla foresta spessa delle affermazioni nichiliste, una speranza à rebours: come dire una luce assurda e lontana ch’è rifranta sull’opera loro, ne è riassorbita e la sostenta. E non è l’atteggiamento del Cechov o di Katherine Mansfield, come riconosce anche il Jaloux, che ha ricordato prima di noi questi nomi; poiché l’esperienza spirituale del Joyce è, nei Dubliners, piuttosto assunta nell’involucro del gesto e del fatto che non in se stessa dissolta e anatomizzata. Diremo anzi che costì pochi segni fanno presentire quel monologo interiore sul quale è fondata l’orchestrazione dell’Ulisse. Del resto non è facile, e forse nemmeno possibile, leggendo i Dubliners, sottrarsi dalla tentazione di metterli in rapporto coi libri successivi del Joyce. Accade allora che si colga appieno il consenso di una certa capacità dello scrittore di ambientare in pochi tocchi che tengono più del metafisico che del realistico i propri racconti”. E qui ancora una volta è chiamata in campo una specificità del narrare che Montale vede volentieri accostata al proprio modo di fare poesia. E l’ipotesi si direbbe confermata subito dopo: “L’audacia di certi “spacchi” e di taluni scorci non ha perciò la sua origine in una volontà di stilizzazione decorativa della tumultuosa vita contemporanea, come accade in molti scrittori nuovi, per lo più di tendenze grottesche e caricaturali; ma ripete i suoi motivi da una visione più profonda e che noi, ammaestrati dai libri susseguenti, non possiamo considerare che come lirica e sostanziale. A questa stessa origine s’è richiamati da quell’altro elemento di cui abbiamo finora taciuto, e che nei Dubliners ha una parte decisiva: il corso delle ore, il clima, la temperie. E’ talvolta la neve che assedia nelle proprie case questi uomini di Dublino e li reclude in una contemplazione in cui gli oggetti e le cure casalinghe sono definiti con la gentile caldezza di un Vermeer che fosse appena un poco più inquieto e più rotto; ma è più spesso il solleone che investe le cose e le ingrigia più e più nel gran torpore. Dubliners è perciò il libro di una instabile barometria spirituale esercitata sopra un mondo, più che di uomini, di quais, di magazzini, di tranvie a scartamento ridotto, di refettori e di granai. (…): Un passo, non importa se indietro o innanzi, restava da compiersi e i due limiti erano chiari: da un lato l’ordine infrangibile e il canto fermo della sua infanzia, dall’altro l’accettazione consapevole di quel fragoroso e spettrale deserto dal quale l’arte novissima non ha cessato ancora di attendersi il fiorire incredibile del miracolo.
Ma il monstrum, l’Ulisse, nasce (…) e dice a chi sa intendere, nel piano che sfugge all’indagine del lettore, di là dalla grigia odissea di fatti meccanici e minuti assunti dal Joyce a materia del suo canto, che il poeta è disceso con noi nel tormentato Sabbato contemporaneo, e che nell’ordine degli imponderabili la sua decisione è ormai un fatto compiuto”.
Montale tornerà a occuparsi sia pure indirettamente di Joyce: è in Agli occhi delle mogli non si è mai grandi uomini, recensione a Vita di mio marito – una biografia di Svevo scritta dalla moglie – per il “Corriere d’Informazione” del 9 dicembre 1950. Piace a Montale richiamare l’amicizia di Svevo con il narratore irlandese: “Nell’esistenza non breve e, tutto sommato, felice di Svevo due fatti fanno spicco: l’episodio della sua “scoperta” e la lunga sua consuetudine con James Joyce che fu il vero artefice della sua fortuna e che di lui era stato amico e maestro di lingua inglese durante il periodo della residenza triestina di Joyce. In quali anni e per quanto tempo? Su questo punto tanto importante non (…) ci illumina a sufficienza questa vita scritta dalla signora Svevo. Sappiamo che Joyce visse a Trieste dopo il 1903 e vi restò qualche tempo, probabilmente qualche anno; ma inutilmente chiederemmo alla signora Svevo di chiarire la frequenza e l’intensità dei rapporti che corsero fra il maestro e lo scolaro. Louis Gillet scrisse che Joyce si riteneva in debito verso due italiani: Vico e Svevo. La natura di questo debito è appena un’allusione nel libro della vedova Svevo; troppo poco, anche per un biografo che non pretenda d’esser critico. (…)

Certo l’incontro con Joyce resta fondamentale nella vita di Svevo. Trieste, con Dublino, è stata la città più importante di Joyce; e l’uso che Joyce ha fatto di Dublino è molto affine all’uso che Svevo ha fatto di Trieste: assorbimento della realtà e sconfinamento in una città magica, di fantasia”, una modalità del poiein nella quale Montale stesso ama riconoscersi. Ed è in questa prospettiva che non tralascia occasione per confessare il proprio debito nei confronti dei narratori anche se “Sempre, in ogni tempo, i poeti hanno parlato ai poeti, intrattenendo con essi una reale o ideale corrispondenza”. E’ la sua dichiarazione in Dante ieri e oggi, il saggio con cui partecipa al Congresso fiorentino per il settimo anniversario della nascita di Dante (in ,Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi, vol.II°, Firenze, Sansoni, 1966, pp.315-33). E Dante è il poeta con il quale Montale non ha mai interrotto il dialogo fino dagli anni adolescenziali: “Quand’ero giovane e appena mi accostavo alla lettura di Dante – ricorda in quel suo contributo per il Congresso fiorentino – un grande filosofo italiano mi aveva ammonito di stare attento, appunto, alla lettera e di trascurare ogni oscura glossa. Nel poema dantesco, diceva il filosofo, c’è una fabbrica, un’impalcatura che non appartiene al mondo della sua poesia, ma ha una sua funzione pratica”. Montale non concorda affatto con la lettura di Croce : “Chi ha il senso della poesia non tarda ad accorgersi che Dante non perde mai la sua concretezza neppure nei casi in cui la fabbrica si mostri meno rivestita della supposta efflorescenza. Anzi si direbbe che il suo virtuosismo di tecnico giunga al massimo delle sue possibilità allorché la rappresentazione plastica, visiva, non è più sufficiente”. E’ in questa singolare capacità di Dante di rendere fisico l’astratto, corporeo l’immateriale che può ravvisarsi la ragione prima della fedeltà di Montale il quale trova semmai un affine in Eliot con il suo saggio del 1929: “(…) a suo parere, il procedimento allegorico crea la condizione necessaria all’accrescimento di quell’immaginazione sensibile, corposa, che è propria di Dante. In parole povere i soprasensi hanno bisogno di un senso letterale molto concreto. Così dalle figure ancora massicce dell’Inferno (quelle figure che al riluttante Goethe sembravano esalare fortore di stalla), alle figure più composte del Purgatorio fino alle immateriali apparizioni del Paradiso l’evidenza delle immagini può mutare nei suoi colori e nelle sue forme ma resta sempre accessibile ai nostri sensi. Muta semmai la complessità del ricamo. Parole come carpet, tapestry ricorrono nel breve saggio. Nel Paradiso anche l’astrazione è visibile e il più astruso concetto è inseparabile dalla sua forma. E se nel tappeto della terza cantica il rilievo plastico è minore, questo non significa minor concretezza dell’immaginazione ma solo rivela l’inesauribile complessità dei significati e in pari tempo la loro ineffabilità. (…). Dante crea gli oggetti nominandoli e le sue sintesi sono fulminee. Di qui il suo particolare classicismo, legato a una filosofia creazionista e finalista. Dal pertugio del sensibile, dall’esaltazione delle forme Dante evade così dalle strette del pensiero scolastico: ma di ciò lasceremo discutere i competenti”. C’è da scommettere che Montale non sospenda affatto quel tipo di attarversamento dell’opera di Dante e quando torna a discuterne con Eliot tiene ferma quella stessa angolazione di lettura che è la medesima da cui vorrebbe che si leggesse il proprio percorso di poeta giunto ormai al suo epilogo.
Preoccupazione di Eliot, lettore della Commedia dantesca, è sollevare il velo dell’allegoria e affrontare la problematica religiosa che essa sottende: “E’ necessario che il Belief, la fede del poeta, sia condivisa dal suo lettore? Per Eliot è solo necessario che essa sia compresa in funzione della poesia che esprime. Si ha qui una sospensione del giudizio che è propria dell’esperienza estetica ed è il tipico modo di certa cultura anglosassone di dare una qualche autonomia all’arte pur negando le distinzioni tra l’estetico e il concettuale proposte dalla filosofia idealistica”. Montale, pur condividendo la teoria eliotiana dell’immaginazione sensibile di Dante, si dichiara tuttavia insoddisfatto di una indagine che non tenga adeguatamente conto dell’uso dantesco delle metafore, dal momento che “l’interesse del lettore, anziché diminuire, si accresce quanto più si fa problematico il groviglio dei simboli”. E tuttavia non tralascia di sottolineare che la Commedia dantesca può leggersi come “l’ultimo miracolo della poesia mondiale” proprio in quanto è il massimo esempio di “oggettivismo e razionalismo poetico” e il perentorio assunto potrebbe leggersi come un invito rivolto da Montale, approssimandosi il termine del suo percorso artistico e umano, all’eventuale lettore perché tenga conto della estraneità dei suoi versi alla civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionalistica in cui gli è capitato di vivere.
Senza dubbio non sfugge a Debenedetti la radicale diversità degli esordi poetici montaliani rispetto agli esiti ‘paradigmatici’ di Ungaretti e richiamando I limoni non fa a meno di rilevare: “Può essere difficile, per l’estrema sottigliezza e precisione che le si chiede nel registrare stati soggettivi e apparizioni oggettive; ma ermetica non è. Conosce stati o fenomeni essenziali, non cerca di conoscere le essenze in se stesse”. E a proposito del poemetto Mediterraneo, ancora negli Ossi, sottolinea che, se per la relativa ampiezza strutturale e il modo tra simbolico e allegorico di evocare le immagini, può far pensare ai componimenti lunghi di Valéry e per il particolare sentimento del mare ad alcuni passaggi celebri del primo canto del Maldoror di Lautréamont, referente d’obbligo è piuttosto l’eliotiano correlativo oggettivo. E subito dopo corregge ancora il tiro: “Montale, indipendentemente dalla poetica di Eliot, tesse e contrappunta oggetti e apparizioni emblematiche di un suo stato soggettivo. (…).

Ma di quello stato, in Montale, non si dà un’ulteriore spiegazione metafisica o dottrinaria o sistematica o teologica o dogmatica. (…).

E’ un io empirico, sebbene conti il fatto che la sua sia un’esperienza di destino valevole anche per gli altri uomini. Ma come storia personale la sottrae, lascia visibili soltanto gli emblemi che la adombrano o la sottintendono, senza richiamarla.
D’altronde quegli emblemi (…) vengono da una mitologia personale, “privata” come ha ben detto Solmi: sono i personaggi delle operette vedute dal giovane in Keepsake”.
Debenedetti constata la inassimilabilità della poesia di Montale agli esiti più significativi delle avanguardie poetiche del novecento ma anche alla tradizione post-simbolista ed ermetica europea, referente immediato della sua indagine sulla poesia italiana del primo novecento attraverso alcuni campioni isolati dall’ungarettiano Sentimento del tempo e dalle Occasioni. In quest’ultimo caso la sua scelta cade sul testo fortemente drammatizzato di Elegia di Pico Farnese: “In realtà, la trama narrativa, se così possiamo chiamarla, si fonda sulla descrizione di un pellegrinaggio a Pico”. Debenedetti cerca la chiave interpretativa in passaggi strutturalmente secondari, frammenti di litania che, intercalati nella descrizione del paesaggio attraversato dalle pellegrine dirette al santuario, creano un effetto di contrappunto: “Come fattura e intonazione letteraria quella strofa di litania è una parodia seria senza intento di contraffazione della vera strofa cantata o vociferata dalle pellegrine, alle infrazioni e irregolarità metriche del canto popolare sovrappone la coltissima sapienza delle irregolarità volute, dei versi faux exprè, falsi a bella posta, è un pastiche dove il gioco letterario e mimetico non ha per fine il gioco: c’è un’intenzione seria, forse dolorosa, più tardi scopriremo che può essere polemica o irritata, ma intanto ha come un’autenticità liturgica. Per di più combina e monta parole e simboli della vera liturgia delle pellegrine, simboli di cui l’etnologia, la storia delle religioni, il folclore ci ha insegnato il significato, ma nel montaggio, pur conservando la portata dei singoli simboli ne travisa il significato tradizionale e di insieme, anzi ne fa qualcosa di oscuro, l’allusione ad un simbolo e insieme il simbolo di qualche cosa che non si lascia ricondurre al significato abituale di quei simboli”.
L’esempio è offerto subito dopo, in apertura del secondo frammento di litania, ed è la figura centrale della simbologia sacra, cristiana, quella del ‘pesce’ incisa nelle pareti della grotta in cui è presumibile che sostino le pellegrine, forse quella su cui si erge il santuario:
“Grotte dove scalfito
luccica il Pesce, chi sa
quale altro segno si perde,
perché non tutta la vita
è in questo sepolcro verde. Il distico conclusivo nega tuttavia ogni apertura verso il trascendente, contrapponendo la figura del “sepolcro verde” al simbolo cristiano del ‘pesce’, anticipato nel precedente frammento di litania dall’immagine del ‘sudario’. E quando il canto della litania si perde, l’incipit della strofa successiva conferma la chiusura verso il trascendente:
(…). Perché attardarsi qui
a questo amore di donne barbute, a un vano farnetico
(…)? Ben altro
è l’Amore
Debenedetti commenta: “E’ la rivolta del poeta contro l’amore, la religione cioè di quelle brutte pellegrine, “donne barbute”, che si stravolgono col loro “vano farnetico” in ciò che le Notizie dall’Amiata chiama la “rissa cristiana”. E’ la ricerca di un altro Amore, quello individuale del poeta con il suo irrinunciabile bisogno di conoscere il significato dell’umano esistere. E se richiama la fortunata definizione di Pancrazi, secondo cui la poesia di Montale è insieme “fisica” e “metafisica”, il critico non tralascia tuttavia di sottolineare che quella formula è condivisibile solo in un orizzonte di senso totalmente sottratto alle religioni confessionali, compresa quella cristiana: “C’è un’angelicazione che può essere anche terrestre”.
La tesi gli pare si rafforzi nella ripresa di litania, il terzo e ultimo frammento in parentesi nel testo:
(‘Collane di nocciuole,
zucchero filato a mano
sullo spacco del masso
miracolato che porta
le preci in basso, parole
di cera che stilla, parole
che il seme del girasole
se brilla disperde’)
Un susseguirsi di figure che richiamano le fiere di paese e riportano al teatro dell’infanzia, con le sue feste subito smentite, secondo modalità che Debenedetti ritiene documentino l’importanza dell’ascendenza gozzaniana.
Anche qui una poesia racconto: “E’ la storia di un mattino, di una mezza giornata, dal risveglio delle pellegrine e poi del paese di Pico fino a quando il poeta, guidato dalla sua donna, supera la propria crisi individuale contro la convenzionale religiosità collettiva, e si rimette, almeno provvisoriamente, d’accordo col mondo sulla piazza della Kermesse paesana, davanti al baraccone del tiro a segno. (…). Basta qualche cosa, questa povera festa, che giustifichi la giornata: “Il giorno non chiede più di una chiave”.
Partito con l’idea di dimostrare la piena appartenenza delle Occasioni alla tradizione post-simbolista ed ermetica, di fatto Debenedetti si trova a dover ammettere che i connotati di oscurità che ha rilevato non sono di per sé tratti esclusivi di una Scuola poetica: “Ci converrà invece andare a cercare – recita la conclusione della sua analisi – perché quella poesia ci dia un nuovo mondo, venga da un altro e nuovo mondo: insomma rientri in quella che, dalla fisica di Einstein in poi, bisogna chiamare con una parola proprio di Einstein, una nuova linea dell’universo”.
Ed è una linea interpretativa sulla quale finisce per assestarsi la stessa lettura della Elegia di Pico Farnese, condotta da Umberto Carpi con un diverso procedimento metodologico, rinunciando a priori a ogni tentativo di ricondurre il linguaggio poetico montaliano all’interno delle istituzioni fondamentali della tradizione simbolista, evidenziando piuttosto il condizionamento della situazione storico – politica in cui nascono le ultime Occasioni: “L’inno fonico, lessicale, metrico, ritmico e sintattico alla “messaggera”, in quanto è splendore vincente riservato ai pochi entro l’atmosfera elegiaca di Pico Farnese e della salmodia della società di massa ivi allegorizzata, diventa la forma specifica con cui il poeta occulta (nella realtà e nelle logiche diverse della poesia) la divisione della propria anima e le sue ragioni storiche”. E riguardo alla particolare religiosità che emerge dalla Elegia, una religiosità non feticisticamente irrazionale ma spiritualmente conoscitiva, Carpi sottolinea che Montale “compie il massimo sforzo di riqualificazione della poesia: nel senso che il prodigio (al cui verificarsi sono legate le sorti conoscitive del poeta) non può più scaturire, come negli Ossi, da un evento esterno, dall’attitudine a cogliere squarci di eccezionale felicità naturalistica (la ricorrente e ben nota fenomenologia dei prodigi che schiudono la divina indifferenza), ma deve consistere nella capacità della poesia stessa (sacerdote la donna-angelo e testimone il poeta) di modificare le cose, di produrre miracoli, di lampeggiare barlumi di un’altra storia”. E tra le ascendenze culturali più prossime , Carpi ritiene decisiva per la svolta angelica iniziata con Elegia di Pico Farnese, la lettura da parte di Montale delle rilkiane Elegie duinesi nella traduzione di Leone Traverso: “Gli angeli di Rilke erano portatori di una superiore capacità di conoscenza, di un’eccezionale vista della mente: la loro Ueberschau (e diUeberschau gli “occhi d’acciaio” e il “duro sguardo di cristallo” sono, appunto, gli organi deputati); gli angeli testimoniavano altresì la possibilità di Umschlag, di “rovesciamento improvviso dell’anima”, che consente miracolosamente di attingere la felicità della conoscenza.
Compito del poeta è di realizzare nella poesia, attraverso lo strumento della parola, il protagonismo dell’angelica Ueberschau e insieme il prodigioso Umschlag delle cose, la trasformazione della storia. Questo era il messaggio – conclude la sua analisi Carpi – che veniva a Montale da Rilke-Traverso: tanto più suggestivo e prezioso, in quanto esprimeva una delle più alte risposte dell’intellighentsia mitteleuropea ad una trascorsa bufera, alla frantumazione delle patrie e dei valori nel primo decennio del Novecento”. E tuttavia un’altra e ancor più sconvolgente bufera si sprigionerà da quell’area mitteleuropea con conseguenze inaudite: la breve silloge che Montale pubblicherà a Lugano nel 1943 nasce in quell’ora fosca e ne porta le stigmate fin nel titolo.