Giacomo Debenedetti e il teatro

Conferenza di Luigi Squarzina
Università di Roma “La Sapienza” (21 febbraio 2001)

Sono qui per parlare di Debenedetti traduttore di Le Diable et le bon Dieu di Sartre; il mio intervento poteva essere indicato anche come Debenedetti e Sartre. Le sfaccettature della sua figura sono tante e così varie che potrebbe sembrare accessorio aggiungervi quello che fu il suo momentaneo avvicinamento al teatro, se non si trattasse di un episodio ricco di implicazioni.
Nell’ottobre ’61 avevo messo in scena al Teatro Stabile di Genova, come regista indipendente, Ciascuno a suo modo, per la prima volta dopo Pirandello stesso nel 1928. Avendo saputo che Debenedetti svolgeva un corso di lezioni all’Università di Roma sulla narrativa di Pirandello e in quel momento si stava occupando dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore da cui viene Ciascuno a suo modo, andai a sentirlo. Così ci conoscemmo.
Nel 1962 fui nominato direttore del Teatro Stabile di Genova, a fianco di Ivo Chiesa. In quell’anno, nel quadro delle manovre per un centrosinistra, l’accordo in corso tra democristiani e socialisti portò ad avvenimenti di grande rilievo: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’ennesima riforma della scuola media e l’abolizione della censura preventiva sugli spettacoli di lirica e di prosa, mentre il cinema restava sotto tutela.

Cercherò di precisare perché il ’62, più ancora del ’68, è stato per il teatro italiano una data periodizzante, e come il lavoro di Debenedetti (e mio) abbia contribuito, indirettamente ma non tanto, al consolidamento delle decisioni prese dai politici. Fino ad allora le scelte dei nostri uomini di teatro erano passate attraverso un controllo preventivo, paralizzante, contrario alla Costituzione repubblicana. Dal ’26 al ’62, quasi per un quarantennio, attraverso fascismo e democrazia, guerra e pace, monarchia e repubblica, la borghesia italiana ha tenuto nella minore età con la censura il teatro italiano che, nella quasi totalità, era il suo proprio teatro. Nessun desiderio, nessuna convenienza, sentiva la borghesia di “specchiarsi”. Per due anni era stata proibita La Mandragola. Fino al ’62 fu proibita La Governante di Brancati.
Ce ne volle perché capissero che il permissivismo, col tempo, sarebbe diventata la più efficace delle censure. La ricerca di palcoscenico che limita o nega il valore della parola non era concepibile entro un sistema di controlli che poteva comportare il funzionario di polizia in fondo alla sala che seguiva lo spettacolo con in mano il copione vistato. Una nuova generazione teatrale ha potuto formarsi e affermarsi solo a partire dalla metà degli anni ’60: per essa l’uso del testo come spartito mimico e fonico è subito una strada aperta; si sperimentano quelle forme provocatorie che sembravano, dopo la breve stagione futurista, dover rimanere estranee alla prassi italiana. La caduta del divieto preventivo ha permesso fra l’altro lo sviluppo di un teatro politico, anche con ideologie extraparlamentari.

La nuova legge del governo Fanfani sulla censura venne approvata il 21 aprile ’62. Nella stessa primavera, facendo il programma per il ’62-’63, primo anno della mia direzione a Genova, potei pensare alla mia vecchia intenzione di mettere in scena Le Diable et le bon Dieu di Sartre, rappresentato a Parigi nel 1951 ma da noi impensabile fino a quel ’62. Nella stessa annata Strehler a Milano poteva programmare La vita di Galileo di Brecht. Disponevo a Genova di Alberto Lionello che secondo me era l’interprete ideale per Goetz, il protagonista di Sartre. Presa la decisione – e qui veniamo a noi – pensai di proporre la traduzione a Debenedetti.

Purtroppo non è infrequente dover ascoltare un testo straniero nell’italiano di amici dell’impresario o del regista o dell’agente dell’autore, oppure che ci sia sotto qualche trasparente o occulto scambio di favori. Io ho sempre ritenuto che si debba ricorrere a scrittori o studiosi di primissimo piano. Sono io che ho messo in campo come traduttori di teatro Edoardo Sanguineti per le Baccanti di Euripide nel ’68 (e più tardi per i Sette a Tebe), Cesare Garboli nel ’71 per Molière con Il Tartufo, Enrico Filippini per la Maria Stuarda di Schiller e poi per Brecht, Attilio Veraldi per Strindberg, Agostino Lombardo per Shakespeare.

La scelta di Debenedetti fu particolarmente meditata. Un grande scrittore oltreché sommo critico, cultore della letteratura francese – ci sono in merito bellissime pagine di Macchia – profondo conoscitore dell’Esistenzialismo (che lui trovava già in Michelstaedter, uno dei miti della mia adolescenza), amico di Sartre del quale aveva pubblicato per l’Italia molte opere nel vecchio e glorioso Saggiatore, poi rinato. Sartre aveva pubblicato una traduzione del 16 Ottobre ’43 in un famoso numero di “Temps Modernes”. Presenza culturale indiscutibile, Debenedetti era una garanzia, come richiedeva il non indifferente azzardo costituito allora, come dirò, dalla rappresentazione di Le Diable et le bon Dieu, dapprima a Genova, una grande città su cui pesava l’autorità severa e carismatica del cardinale Siri, e poi in tutta la penisola. Sappiamo che l’Italia è la patria sia del rinvio che dei passi all’indietro: le prime mani della partita sulla libertà della scena andavano giocate con tutte le carte in regola, a rischio di risucchi. Sopravvivevano nel Codice Penale, e dopo il ’62 sopravvissero per qualche anno, i tre oltraggi, alla patria, alla religione, al pudore, tant’è vero che quattro stagioni dopo, nel ’66-’67 io sarei stato processato a Genova per la mia commedia Emmetì, di cui il magistrato accusatore aveva ‘sequestrato’ due scene,  oltraggiose al pudore e alla religione.
Non è inutile a questo punto ricordare perché Le Diable et le bon Dieu, con il soccorso della malafede più che della fede, poteva venire bollato come opera blasfema, a differenza di altri drammi sartriani che erano stati già rappresentati in Italia: A porte chiuse, Le mosche, Le mani pulite.

Siamo nel Seicento tedesco, nella lotta tra le forze cattoliche e le forze protestanti alla vigilia della rivolta dei contadini. Naturalmente quello di Sartre tutto è fuorché un dramma storico, come non lo è Madre Courage di  Brecht. Sartre ha compreso le dinamiche sociali del 1525, ma il suo dramma ridicolizzerebbe qualunque tentativo di considerarlo una “elaborazione artistica di temi storici”. Se vi è storia è nostra, di uomini contemporanei, “situazione”.  Secondo Peter Szondi nella sua Teoria del dramma moderno, il drammaturgo esistenzialista mostra gli uomini non nel loro ambiente naturale, ma li traspone in un ambiente nuovo. Questo trasferimento ripete – per così dire – la deiezione metafisica in esperienze specifiche e determinate delle dramatis personae. Si può dire che Sartre e Camus nella loro diversità sono stati i drammaturghi filosofi del ’900. Lo si deve forse al carattere dell’Esistenzialismo francese, attivo, con una propensione all’intervento nella società e una specie di vocazione per il ragionamento a voce alta, quindi potenzialmente teatrale. Il Malinteso di Camus e il suo Caligola toccano la poesia; altro è il caso di Sartre, di cui io vedo i migliori esiti drammaturgici in due atti unici, A porte chiuse e il breve e poco conosciuto La puttana rispettosa. Il suo teatro è torrenziale, a volte politico senza innalzarsi al di sopra della tesi, eppure trascinante, e mai come in Il Diavolo e il buon Dio.

Nei primi anni Cinquanta Ennio Flaiano scriveva di critica teatrale, e questa fu allora la sua sintesi volutamente disincantata: “Nel 1525 Dio esisteva in Germania, quindi esisteva anche il Diavolo. Dio a quell’epoca sembrava interessato al mantenimento della società feudale e del sistema tolemaico, senza sapere che proprio in quegli anni Copernico? Il Diavolo era la potenza stessa del Male e poiché il Male ha per scopo la conservazione, il Diavolo favoriva la reazione. Dio era rappresentato in terra dai vescovi tedeschi, così ingordi da spingere alla ribellione, benché per motivi diversi, sia la nobiltà che il popolo. Il Diavolo era, o poteva essere, un valoroso quanto crudele guerriero di ventura, un nobilotto senza fortuna, cassaforte di ogni nequizia, per di più bastardo e fratricida”.

Il Goetz sartriano è dunque un grande condottiero mercenario, al servizio del miglior offerente, un uomo senza pietà che scanna e terrorizza facendo e predicando il Male assoluto. Finché non se ne annoia. Durante l’assedio alla città di Worms scommette ai dadi che se perde farà il Bene assoluto. Perde, posa le armi e indossa il saio, da mostro diventa santo, da scherano della conservazione si fa paladino dei contadini poveri. Gli sembra così di misurarsi con Dio sul suo terreno. Ma aveva truccato lui stesso i dadi per perdere. Non è un eroe tragico, è piuttosto l’eroe bastonato di cui parla Benjamin: dice lui stesso di essere buffone. Il ribaltone totale, ideologico, morale, religioso e politico non funziona. Il Bene via via si rivela più disastroso del Male: delitti, persecuzioni, una monaca diventa l’amante di Goetz, l’amante precedente muore in un’epidemia, finché le truppe dei nobili fanno strage dei contadini inermi che lui aveva avviato al pacifismo fondando una Città del Sole.

Qual’è la conclusione del Goetz di Sartre? Ve la faccio ascoltare nella traduzione di Debenedetti. C’è del melò nel Diavolo e il buon Dio, e Debenedetti aveva scritto in un famoso saggio su Saba che il melodramma “ci offre personaggi caratterizzati, che dalle situazioni personali esposte e dialogate nei recitativi salgono ai momenti assoluti dell’aria, della melodia che trasforma quella situazione personale in un toccante, memorabile proverbio del cuore appartenente a tutti”.

Heinrich, il prete che non riesce a spretarsi, accusa Goetz: “Venticinquemila cadaveri. In un giorno di virtù hai fatto più vittime che in trentacinque anni di iniquità”.

Goetz stesso: “Senza dire che i morti erano poveri. Sta a sentire, prete: avevo già tradito tutti, compreso mio fratello, ma la mia fame di tradimento non era paga; allora una notte, sotto i bastioni di Worms, ho avuto l’idea di tradire il Male. Così è andata. Ma il Male non si fa tradire tanto facilmente: dal bussolotto dei dadi non è uscito il Bene, è uscito un Male peggiore. D’altronde, che importa? Mostro o santo, per me era uguale, volevo essere fuori dall’umano. Ma sono rimasto lo stesso Goetz, nient’altro che un bastardo”. E si rivolge al cielo: “Dio, se ci rifiuti la possibilità di fare il Bene, perché ce ne hai data questa fede ardente? Aggiungendo con una smorfia comica di finta umiltà: se non hai voluto che diventassi buono, perché mi hai tolto la voglia di essere cattivo?

Il prete gli dice: “sai che non risponderà”.

Goetz chiede: “perché tace”? L’altro gli replica: “Perché non conti, l’uomo è nulla”. E anche questa sentenza Goetz la capovolge, e nel finale, dopo aver ammesso: “Non ho agito, ho gesticolato”, comprende che deve rispondere di sé non a un Dio muto o morto bensì agli uomini. Ha sperimentato sulla pelle sua e degli altri che l’uomo è solo su questa terra, padrone delle proprie scelte. Getta il saio e riprende le armi alla testa dei contadini ribelli, dichiarando a Nasty, l’estremista rivoluzionario che sarà di nuovo spietato perché “su questa terra e di questi tempi il Male e il Bene sono inseparabili”. Prima, al prete, aveva dichiarato: “Dio non esiste”! Lo dichiara al cielo a cui inutilmente aveva chiesto un segno, e al pubblico. Il linguaggio di Debenedetti traslava la rigidità binaria delle affermazioni di Goetz rivelando nel personaggio, al di là dell’argomentatore un Narciso spropositato, coinvolgente per la sua disperazione autentica. Ma “Dio non esiste!” e tutto il resto, oggi si può dirlo allegramente in qualsiasi luogo di spettacolo, sui palcoscenici più convenzionali o nelle discoteche, però queste affermazioni nel dicembre 1962 a Genova, nella prima stagione in cui un teatro sovvenzionato dal denaro pubblico rinnovava la sua direzione, erano inaudite. Lo spettacolo fu e resta uno dei maggiori successi del dopoguerra, grazie al testo e alla compagnia capeggiata da un formidabile Lionello che si sdoppiava da malfattore a benefattore facendo sbalordire e ridere. C’erano altri attori di grande futuro: Omero Antonutti, Lucilla Morlacchi, Eros Pagni. Questo è il poi. Ma il prima era stato un rischio enorme. Io lo sapevo e, al momento di correrlo, pensai, d’accordo con Chiesa, che dovevamo assicurare al testo una piattaforma artisticamente ineccepibile sotto ogni aspetto e criticamente fortissima per poter fare fronte agli attacchi moralistici e politici che infatti non mancarono e misero in pericolo le repliche, come dirò.

La traduzione costituiva dunque in partenza un punto cruciale. Di quella pubblicata da Arnoldo Mondatori, senza fare qui il nome del traduttore, dirò che cadeva nelle trappole del linguaggio sartiano tutt’altro che privo di durezze e di didatticismi. Per fortuna spesso la proprietà dei diritti di pubblicazione non coincide con la proprietà dei diritti di rappresentazione, gestiti da altri agenti. Così potemmo ripartire da zero. Anticipo qui comunque che la traduzione di Debenedetti non è mai stata pubblicata da Mondatori e poté solo essere stampata nel ’63 sulla rivista “Il Dramma” con questa avvertenza: “La proprietà letteraria di Il Diavolo e il buon Dio di Jean Paul Sartre è di Arnoldo Mondatori Editore, che gentilmente ha permesso di pubblicare l’opera in “Il Dramma” nella nuova versione di Giacomo Debenedetti. Ringraziamo con gratitudine Arnoldo Mondadori”.

Si sarà notato che l’editore di cui si parla è Arnoldo Mondadori, mentre il Sartre filosofo e saggista veniva stampato dai tipi del Saggiatore, che era di Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. Se ho citato le questioni editoriali è perché mi è sempre dispiaciuto che la bellissima traduzione non sia in circolazione. Così non solo non si rende giustizia al lavoro di Debenedetti, ma si danneggia Sartre per un’opera a cui quella nuova versione giova infinitamente.

Ma torniamo alla primavera del ’62, quando si era reso possibile rappresentare in Italia Le Diable et le bon Dieu. Debenedetti accettò subito la proposta, che implicava di consegnare il lavoro alla fine dell’estate, poiché le prove dovevano cominciare alla fine di ottobre, dopo il nostro spettacolo di debutto. Decidemmo che insieme avremmo ridotto il testo da lui tradotto: è un dramma di dimensioni eccessive, di scrittura a volte insistita e ridondante, occorreva tagliare, senza però perdere niente del pensiero sartiano. Non ci autolimitammo, al contrario, premeva ad entrambi di mettere in evidenza proprio quello che fino a pochi mesi prima era stato oggetto di divieto e che era nuovo e liberatorio dire in scena. Debenedetti mi aveva detto subito che il testo doveva acquistare in scioltezza, in velocità, in ritmo, variando il più possibile, nella fedeltà s’intende, la serialità continua delle alternative contraddittorie che ne fa un caso limite di “teatro della scelta”. “Scegliere” è l’imperativo che Goetz, da bravo esistenzialista, pone continuamente a se stesso e agli altri personaggi, anche caricaturalmente.

Durante l’ultima fase del nostro lavoro raggiunsi Debenedetti a Viareggio. Si trovava lì per la giuria del premio Viareggio (sentii alcune discussioni telefoniche) e per incontrarsi con Alberto Mondadori che aveva una villa in Versilia dove fui ospite insieme a lui un paio di volte. Giacomino lavorava con rapidità e sicurezza, quasi mai correggendo.
Ogni tanto riprendeva il suo portasigarette di metallo posato accanto alla Olivetti, lo palpava, lo apriva. Vent’anni dopo la sua morte ascoltai Argan che, introducendo un Convegno su di lui, ricordava giornate intorno a un tavolo, ai tempi del Saggiatore, per decidere lo stile, il tono di una traduzione. Spesso Debenedetti operava delle sintesi, spolpava le battute dal di più. In quella stanza d’albergo con una grande finestra sul viale la mia fiducia si confermava nel vederlo alle prese con i dilemmi speculativi che la grande letteratura da lui amata metaforizzava fino ad esorcizzarli, e che Sartre riproponeva con il suo stile aggressivo, a volte dottrinale e dimostrativo, eppure ‘impetuoso e colorito’, come riconobbe poi Flaiano.
Sotto i tasti della Olivetti di Giacomino, la pur autorevole goffaggine di certe zone del testo, aggravata nella precedente traduzione, acquistava in eleganza. La polpa si staccava dall’osso. E di carne e di sangue fu il personaggio che su quella base potei costruire con Lionello, che era affascinato dalla sfida di un testo con quelle implicazioni. Dopo anni di teatro leggero, Lionello aveva affrontato soltanto da poco, con me, il grande repertorio, con Uomo e Superuomo di Shaw e con il Diego Cinci del Ciascuno a suo modo di Pirandello. Sartre, nell’italiano di Debenedetti, lo aiutò in modo decisivo a mettere a fuoco e affinare la sua qualità più originale e attuale, che lo distaccava dagli altri attori: la capacità di recitare la contraddizione e di recitarla in tutte le sfumature.
Sono sicuro che ciò gli sarebbe stato molto più difficile senza quella traduzione, che gli permetteva di percorrere il selciato di Il Diavolo e il buon Dio come su un monopattino, attizzando le sue straordinarie doti nel comico, nel tragico e nel grottesco, così come stimolava il lavoro del regista. Basti dire che quell’anno il premio ‘San Genesio’ per il miglior attore, assegnato da tutti i critici, il premio teatrale più ambito e più serio che l’Italia abbia mai avuto, fu assegnato a Lionello anziché a Tino Buazzelli, interprete di Galileo a Milano. “Il miracolo, – scrisse Giorgio Prosperi -  la vera chance dello spettacolo, è di aver tratto da un dramma tutto di testa una vivida, grottesca, pagliacciata, in un medioevo irto di streghe, di violenza, d’isterismo, centrato su un personaggio, Goetz, che ha del clown e dell’istrione, che non capisci mai quando scherza o fa sul serio, quando si estranea o quando si identifica con se stesso.
E il risultato espressivo è quello di un caos atroce e buffonesco, ritmato a tempo di metronomo, una galoppante, sfrenata, caricatura della tematica culturale contemporanea”. Si comprende bene che, nell’ottenere questo risultato, il nostro debito verso la traduzione era enorme. Anche a questo volevo arrivare. L’attore, l’attore vero è inserito nei processi culturali del proprio tempo e della propria società, anche se può esserne cosciente solo parzialmente. “Conoscere è esplodere verso”: è la frase di Husserl citata da Sartre in una sua nota, che Debenedetti trovava “bellissima”.
E’ il cammino di Goetz. Ma l’attore ha bisogno di trampolini per spiccare il salto. Il dono intrinsecamente teatrale che possedeva Debenedetti non poteva rivelarsi meglio che nell’affrontare un’opera non di poesia e trovarvi dentro il nocciolo che resiste alla concettualizzazione e può farsi passione, corpo, spettacolo.

Giacomino venne a Genova per la ‘prima’ nel dicembre ’62. Fu contentissimo dello spettacolo e del successo, lo costringemmo a salutare il pubblico insieme a noi. Si andò a cena in un ristorante dove si ballava, mi pare che ballò anche lui. Io finii la serata mezzo sbronzo andando a dormire nel suo albergo, il sontuoso Hotel Columbia che poi è caduto in abbandono. Resta da dire che cosa accadde a Genova e che merita di essere ricordato. Io allora lo riferivo per telefono a Giacomino, tornato a Roma dopo la ‘prima’. E’ un brano, anzi un brandello di storia. Non di storia locale, di storia patria, una impasse a uscire dalla quale fummo aiutati dall’autorità e dal fascino che il testo di Sartre aveva dimostrato nell’italiano di Debenedetti.

Citerò dal libro di Maurizio Giammusso Cinquant’anni del Teatro Stabile di Genova, di prossima uscita per le Edizioni Electa: “Caro Sindaco, come farai a dormire la notte di Natale, mentre in un tuo teatro si bestemmia?”. Migliaia di lettere di questo tono sommersero nel dicembre del ’62 Vittorio Perusio, primo cittadino espresso dalla Democrazia Cristiana, firmate soprattutto da bambini di scuole rette da religiosi. Molte contenevano minacce e “inviti a provvedere”: la Destra lo attaccava, l’Azione Cattolica gli chiedeva la chiusura del Teatro Stabile, “Il nuovo cittadino”, il quotidiano che notoriamente esprimeva le opinioni della Curia, sparava a zero contro di lui e contro i direttori Chiesa e Squarzina. La città era in subbuglio per uno spettacolo teatrale. Si invocava il ritorno alla censura che ancora l’anno prima aveva costretto Luchino Visconti, Paolo Stoppa e Rina Morelli a sospendere l’Arialda, che poi fu abolita. Strehler e Grassi a Milano ebbero qualche noia per il Galileo, ma fu niente in confronto a quello che avvenne a Squarzina e a Chiesa.

Per giorni e giorni furono oggetto di invettive e ingiurie, guidate da “Il nuovo cittadino”, con una pesantezza di espressioni oggi inimmaginabile. A Ivo Chiesa, nato e cresciuto a Genova, arrivavano lettere di abbonati come questa: “E’ con vivo rammarico che, dopo dieci anni di fedeltà al nostro Piccolo, debbo rinunciare a uno spettacolo che pure presenta caratteristiche di un’opera d’arte. Ma, pur non essendo bigotta, sono tuttavia cattolica convinta e non posso capire come Lei, che so educato a fermi principi morali in una famiglia profondamente cristiana, abbia dato il suo placet a un’opera profondamente atea. E questo proprio nel periodo natalizio?”.
Lo spettacolo infatti era andato in scena l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata Concezione: un’aggravante. Il sindaco Perusio, galantuomo e intelligente, un cattolico rispettoso della libertà di pensiero, resistente all’onda che montava anche contro di lui, arrivò a dichiarare in Consiglio Comunale: “A proposito dell’attività del Teatro Stabile ? non esito ad affermare che i censori dovrebbero piuttosto mostrare il rigore della loro severità rispetto alle oscenità, anziché colpire le idee, creare casi complicatissimi e spaccare il capello in quattro, quando appunto si dibatte intorno alle idee, dibattito sempre utile e produttivo”.
Tuttavia, il vento di un ostracismo cattolico così forte e così largo stava per avere effetti devastanti sullo Stabile. Chiesa pensò allora che c’era un solo uomo che poteva far cessare gli attacchi e ricondurre le polemiche sul piano del dibattito intellettuale: il potentissimo cardinale Giuseppe Siri, l’uomo che per quarant’anni fu vescovo della città e che in più d’un conclave venne dato come autorevole candidato a diventare papa.
Come tanti genovesi della sua generazione, Ivo Chiesa lo aveva avuto insegnante al Liceo Doria, quando era ancora don Siri. Domandò dunque d’incontrarlo. E gli fu concesso subito, la mattina del 21 dicembre. Il colloquio durò quasi due ore e non ebbe alcuna drammaticità, nel ricordo di Chiesa: “Nel silenzio, così speciale, assoluto, di quella stanza tappezzata di rosso della Curia, il Cardinale mi parlava con la stessa serenità con cui, anni prima, in quello stesso luogo e in quello stesso tempo sospeso, mi aveva raccontato di un suo viaggio nei castelli della Loira. Solo, questa volta, il tema era il pensiero dei filosofi esistenzialisti, che il Cardinale dimostrò di conoscere profondamente, dalle radici a quella che era la fase dei primi anni Sessanta.
Poi – e adesso, se ne dubitate, avrete anche voi la conferma di quanto i cardinali sanno fare teatro e creare suspense – senza dare risposta alcuna alle mie doglianze, mi congedò così: “Ti aspetto domani sera a una mia conferenza all’Unione degli Industriali Cattolici”.
Non capii le ragioni dell’invito, ma andai, un po’ a disagio in un ambiente che in quel momento non poteva non essermi ostile. Terminata la conferenza, il Cardinale con un gran bel pezzo di bravura mise a confronto il pensiero cristiano  e l’Esistenzialismo. Disse fra l’altro: “Siamo schierati sulle opposte sponde di un fiume larghissimo, non guadabile, senza nessun punto di possibile incontro”. La opposizione fu fermissima.
Ma ancor più ferma, se possibile, fu l’espressione del suo rispetto per un’idea così lontana da lui, e per i pensatori che la professavano di cui rilevò la statura intellettuale: “Uomini – concluse – che non possono essere insultati, e devono invece essere battuti, opponendo le nostre idee alle loro”. Sul Teatro Stabile, sulle rappresentazioni in corso del testo di Sartre, sulle polemiche, neppure una parola.

Ma la tempesta finì di colpo, tagliata di netto da un giorno all’altro.

E Il Diavolo e il buon Dio poté essere recitato in tutta Italia lungo due stagioni. A Milano, subito dopo Genova, trionfa al  Manzoni. Alberto Mondadori, l’editore italiano di Sartre anche se non del suo teatro, telegrafa al filosofo annunciandogli che lo spettacolo interpreta lo spirito più sottile della sua opera e lo invita caldamente a venirlo a vedere. Con Simone de Beauvoir, Sartre lo vedrà la stagione successiva all’Eliseo, durante una vacanza romana. Troverà una sala piena come un uovo e scriverà al Teatro Stabile di Genova che era la migliore edizione da lui mai vista. Eppure nel ’51 a Parigi gli intepreti erano stati Pierre Brasseur e Jean Vilar con la regia di Louis Jouvet”.

Fin qui il libro di Giammuso. Concludo aggiungendo che alla prima romana io rividi Giacomino, presente in sala. La sua ritrosia fece sì che stavolta non volle salire in scena a partecipare agli applausi, che non finivano mai, e che lui meritava almeno quanto noi. Ci fu poi una cena alle Stanze dell’Eliseo, con Vincenzo Torraca, entusiasta, e anche con le sorelle Kessler.