Come strappare il miele dalla gola del leone

saggio di Mario Lavagetto
in “Il Manifesto” 20 febbraio 2001
A distanza di cento anni dalla nascita e di trentaquattro dalla morte, Giacomo Debenedetti sembra finalmente avere trovato un giusto riconoscimento nel quadro del pensiero critico moderno. Chi attraversa la sua opera, così ampia e disseminata, composta soprattutto dai saggi pubblicati in vita e dai corsi universitari che hanno visto la luce postumi, si trova davanti a una testimonianza irrinunciabile, a un esercizio dove l’energia dell’argomentazione si allea con un forte istinto (e piacere) investigativo e con un susseguirsi di acrobatici exploits. A sorreggere i quali, ci sono uno stile e una scrittura così sorvegliati e smaglianti da sollevare la diffidenza dei “professori”, di coloro che Debenedetti ripetutamente evoca nel ruolo di custodi dell’autorità e del luogo comune. Il suo, riconoscerà Contini in una generosa, magari un po’ tardiva, testimonianza, era il caso esemplare di un “vero scrittore” che aveva messo le proprie “doti” al servizio della critica, che aveva trovato – si può aggiungere – in quelle doti il più dottile e il più efficace degli strumenti ermeneutici. “Come si potrebbe mai parlare – si chiedeva Adorno – di ciò che è estetico in modo non estetico, senza la minima somiglianza con l’oggetto, e non cadere nel filisteismo e mancare a priori la presa su quell’oggetto?”

A rendere anche più difficili l’approccio e il riconoscimento, c’è poi quellache potremme chiamareuna fuga premeditata non solo dalle “trionfanti ostentazioni del metodo” ma anche da qualsiasi accettazione di metodo. “Nell’osservare un testo – dice Debenedetti – due atteggiamenti sono possibili: o un estremo generalizzare, un tirare al denominatore comune, e allora tutto si rassomiglia, si può trovare Omero in un cantastorie, e Pindaro nell’inno degli sciatori. Oppure, una ricerca dello specifico, dell’individuazione, e allora certe somiglianze facilone e inebrianti, che paiono trovate dell’intelligenza, fanno un po’ l’effetto di certi abbagli dei miopi che, per corta vista, scambiano un cavolfiore per un mazzo di gigli”.
L’incommensurabilità dei singoli autori e delle singole opere e la determinazione con cui, in ogni circostanza, Debenedetti appare intenzionato a “mettere in questione l’atto di scrivere” nella sua irriducibileconcretezza, permettono tutt’al più di basare la singola performance su alcuni modelli strategici, adottati di volta in volta con molta flessibilità e in funzione di oggetti nettamente individuati. La forma saggio, quella che Debenedetti ha privilegiato, e che nelle lezioni non viene rinnegata ma elaborata in modo didattico e più discorsivo, rifugge infatti – come sosteneva il giovane Lukàcs – dalla “violenza del dogma, che attribuisce dignità ontologica al concetto metatemporale contrapposto all’individuale in esso assunto”, e tende alla verità, “ma come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno”. Dunque nessun programma, nessun piano prestabilito che risulterebbero inconciliabili con l’irripetibilità originaria del saggio e con la sua natura eretica; piuttosto una serie di esplorazioni condotte senza rispettare interdetti né obiettivi pregiudiziali, con la consapevolezza di poter puntare solo – e caso per caso – a vittorie locali, tattiche e non definitive.

Ma se Debenedetti non si spinse mai fino a iscriversi a una “teoria” (ne subì una, e con molte reticenze, fino all’inizio degli anni quaranta);; se si astenne dal fissare i principi di un metodo; se non volle legarsi le mani e rinunciare a priori a nessuno degli arnesi che aveva acquisito e accumulato negli anni; se, infine, non disse mai cosa era (o doveva essere) per lui la “critica”, mostrò tuttavia, in ogni circostanza, di appogtgiarsi a una idea implicita, sottaciuta, non formulata, o almeno non dettagliata, e nondimeno messa ripetutamente in scena attraverso una serie di folgoranti metafore: metafore del lavoro critico, metafore che dicevano in cosa consisteva quel lavoro o che lo rappresentavano nel suo farsi. A catalogarle, e a leggerle l’una dopo l’altra, si ricaverebbe il diagramma di un’esperienza dove il ricorrere di alcune costanti non pregiudica in alcun caso la flessibilità e la prontezza nell’adeguarsi alle singole “partite” e alle regole congiunturali che ogni partita impone.

Per averne conferma, basterà qualche prelievo in ordine sparso, partendo da una prescrizione negativa: al critico non è “lecito parlare di segreti” e ancor meno “arrendersi all’ineffabile (…) deve tener presente che il suo lavoro è proprio di significar per verba quei segreti, quell’ineffabile; ma non può dimenticare che il suo è un lavoro asintotico, una corsa all’infinito, che al limite rimane sempre un ‘nulla di inesauribile mistero’, per dirla con parole di Ungaretti; e che il suo onore di critico sarà già abbastanza salvo se, tentate tutte le possibili vie, egli avrà almeno indicato, il più possibile circoscritto quel punto di renitente mistero.
“L’onore di un critico”, pensa Debenedetti, consiste in ogni caso nel non arrendersi al segreto che si trova davanti e che appare disseminato nel testo, disperso in un’infinità di piccoli frammenti, di tracce ambigue e di difficile classificazione: come accade con “taluni documenti vietati che, dopo una rapida visione che ne sia stata offerta, vengono minutamente lacerati: e allora comincia per noi con una curiosità complicata di risentimento, il faticoso gioco di riconnettere, provando ad una ad una le varie combinazioni, un frammento dopo l’altro”.

All’inizio, dice altrove Debenedetti, c’è sempre un’ambivalenza, “una simultaneità d’odio e d’amore: amore per il poeta che indefinitamente riattira nel suo incanto; odio contro il mistero del poeta che indefinitamente si rinchiude su se stesso, sfidando le parole che vorrebbero ghermirlo, farlo nostro, riesprimerlo”. E’ per qusto che “la critica vera” non può mai essere “ancella” o “complice”, né limitarsi “con le sue lanterne cieche” a inseguire lo scrittore: è, deve essere, “antagonista”, e il saggio, nella sua forma più alta e perfetta, si configura come “un dialogo drammatico” che mira a “esplorare un prima del fatto compiuto”. Vale a dire che la genesi dell’opera è per Debenedetti fondamentale, che l’autore può rivendicare il proprio diritto di esistenza e che nessuna strada è più sicura di quella che porta “a sorprendere e a capire la musica nel corpo stesso del musico”: parole scritte nel 1927 quando, sottolineava, l’impresa poteva apparire alquanto ereticale, dati i canoni e gli usi più ortodossi della critica di oggidì”.
D’altronde, fin dalle prime prove, la scena critica si presenta a Debenedetti come il luogo di una lotta, di una sorta di corpo a corpo in cui il critico deve mettersi a rischio e abdicare a ogni pretesa di invulnerabilità: deve “infilare il coltello nell’ostrica”, “strappare il miele dalla gola del leone”, prendere l’avversario “per il collo” fino a costringerlo “a sputare le sue ragioni”. In seguito le metafore si faranno più caute e non suggeriranno più, in modo tanto esplicito, paradigmiatletici o venatori, ma se la scelta del “veicolo” sarà diversa, il “tenore” resterà costante: “la critica – scrive nel 1937 – perpetua il mito della lotta di Giacobbe con l’angelo. Il critico è sempre l’uomo che si misura contro qualche cosa di più divino di lui, il poeta: vorrebbe, in certo senso, sopraffarlo nelle tenebre. Finché viene giorno, finché si fa luce e l’uomo che ha lottato vede e adora l’angelo. Ma c’è stato un momento in cui all’angelo, al poeta egli ha contestato il suo diritto di esistere”.

Il momento in cui “viene giorno” è decisivo ed èpreceduto nell’economia del dialogo drammatico da un momento ancora più decisivo: quello in cui “il critico dve fare come il sarto, quando mette in prova il vestito che ha tagliato e imbastito”; quando prende i lembi di stoffa, sulle maniche, sulle spalle, lungo i fianchi, dove già parevano avere la sagoma del vestito finito, e strappa e appunta alla meglio, goffamente, quasi distruggendo la forma che aveva già data”. Siamo alla stretta e anche un “medico di campagna” è costretto a esporre la sua “diagnosi” alla “controprova”. Se condideriamo l’insieme delle ricognizioni proposte da Debenedetti, credo che non sia arbitrario trovare qui un vero e proprio “scioglimento”, una sorta di “prova del testo” affrontata senza “grimaldelli” o “schemi-grimaldello”.

Pazientemente costruita e messa a punto, la spiegazione dovrà funzionare come una “chiave” capace di aprire la porta senza forzarla dopo che siè compiutal’ultima, cruciale ricapitolazione: “Si tenga conto di come si è svolto il nostro lavoro. Abbiamo inseguito il Tommaseo, lo abbiamo anche un po’ braccato; dalle sue confessioni, dai suoi risultati, dal suo comportamento abbiamo cercato di trarre volta a volta le conclusioni che ci parevano più generali e illuminanti. Ma non potevamo essere ancora sicuri che quelle conclusioni, anche dove ci parevano più generali, raggiungessero una sufficiente apertura di compasso per comprendere e spiegare tutti i fenomeni e gli eventi che l’opera del Tommaseo ci offre. Se è vero, come ci sembra, che quella pagina sui ‘barbati’ fa scoccare la scintilla , e diventa insieme la conferma, la sintesi di tutte le nostre intuizioni o conclusioni parziali, le coordina e insieme le spiega; diventa, insomma, la spiegazione di tutte le spiegazioni; allora di qui, non appena saremo riusciti a esprimerci tutto il senso illuminante, centrale che ha per noi quell’immagine, potremo ridiscendere ai particolari, leggere ordinatamente il Tommaseo, con la sicurezza che i problemi che ne nasceranno non saranno più ‘problemi’ nel senso problematico della parola, non ci presenteranno più incognitr sconcertanti e contraddittorie; che le nostre risposte interpretative si potranno ormai dedurre come corollari: semmai aggiungeranno altre controprove alla nostra tesi fondamentale”.

Questo clic, uno dei più spettacolari e impressionanti che Debenedetti abbia mai rappresentato, lo vidi – insieme ad alcuni coetanei di diciannove anni – accendersi e brillare in un’aula dell’Università di Roma. Se qualcuno è in grado, per motivi anagrafici, di ricostruire il modo in cui un liceale – in quegli anni, parlo del 1959-60 – poteva approdare a una lezione della facoltà di Lettere, e se riesce a rappresentarsi come venissimo, tutti o quasi tutti, da un insieme di letture voraci e disordinate – molti classici, molti poeti moderni, poca critica, molte storie della letteratura, molte antologie che ci indicavano il tempo di commuoverci e quello di rifiutare, che ci sollecitavano a ditinguere strumenti “sinfoni” e strumenti “asinfoni” -, non gli sarà difficile capire come quell’invito a cercare nella barba di Tommaseo, e in una pagina sui barbati, la “spiegazione delle spiegazioni” dovesse risultare per noi traumatico. Debenedetti, con voce piana, senza strappi, e che pure suggeriva una formidabile concentrazione intellettuale, costruiva sotto i nostri occhi la sua meravigliosa macchina critica, fatta di citazioni convocate dall’area più estesa e meno prevedibile, di immagini accattivanti e di sorprendenti colpi di scena. Il nostro disorientamento sembrava rientrare nei piani di chi aveva fatta propria la divisa del matematico Augustin-Louis Cauchy che, ai suoi allievi perplessi di fronte ai primi postulati del calcolo infinitesimale, era solito ripetere: “Andate avanti e finirete col crederci”.
Bisognava cambiare strumenti, punti di vista, modalità di approccio: la critica era un’altra cosa; era quella cosa che avevamo sotto gli occhi eveniva fatta funzionare con tanta, appassionata eleganza. Era quella lotta, quel rischio, quell’insegnamento, quell’accorta imbastitura: era l’esempio di una libertà spregiudicata e felice, un euforico invito ad approdare “come Ulisse alla terra di Nausicaa e prendere parte ai giochi che vi si stavano svolgendo”; in nessun altro modo – ci veniva detto – avremmo potuto capire le regole di quei giochi.