Quando nel fantasticar di Sigfrido sotto il tiglio la nostalgia della madre si colora di erotismo, quando Mime cerca di spiegare al discepolo la paura, mentre in orchestra echeggia oscuramente deformato il motivo di Brunilde addormentata tra le fiamme, abbiamo Freud: psicoanalisi null’altro che psicoanalisi.
È un passaggio straordinario del saggio di Thomas Mann Dolore e grandezza di Richard Wagner che per noi e impossibile rileggere disgiunto dalle emozioni, dall’invincibile stupore con cui l’ascoltammo dalla voce di Debenedetti nel corso delle sue lezioni universitarie sulle vicende del personaggio-uomo nell’arte moderna.
Quella sua consuetudine di parlarci tormentando con le mani un contenitore metallico di sigarette, che non si lasciava aprire se non ad intervalli predisposti, quel suo modulare le parole, accompagnato da uno sguardo che Alberto Savinio non avrebbe esitato a definire doppio, fermo cioè sull’oggetto in esame e al tempo stesso « riguardando di là da questo, mirandone lo spettro », che è in quanti il guardare costituisce un’operazione illuminata, un atto che suscita commozioni mentali, rendevano la lezione un incontro con un pensiero capace di conseguire una persuasività raccolta e al tempo stesso soggiogante. Verrebbe voglia di dire che il suo interrogare i testi ci si offriva come un « interrogatorio della gelosia », secondo l’immagine che egli stesso amava suggerire per il suo Proust sulle tracce di quell’essere di fuga che è il vissuto. E come si conviene a chi sa che le confessioni più preziose devono aver l’aria di arrivare da sole, attentissima è la sua cura perché la verità che il testo custodisce si lasci afferrare, senza visibili estorsioni.
Sintomatico il passaggio in cui Proust racconta il suo sostare davanti alla siepe di rose del Bengala, in attesa dell’attimo in cui l’involucro che avvolge il reale si apra e lasci affiorare il suo segreto, che scandisce, come una sorta di leit motiv, tutto il discorrere di Debenedetti intorno alla cultura europea del Novecento – con felici incursioni nel Cinquecento di Montaigne, nel Settecento di Alfieri, nell’Ottocento di Verga e di Tommaseo ma anche di Wagner e di Verdi – teso a illuminare il tracciato di destino dell’uomo d’Occidente costretto, alle soglie del secolo, alla più alta sfida, seguita alla vanificazione degli “assoluti”.
In Personaggi e destino, un saggio del 1947 che scandisce un momento importante della riflessione debenedettiana:
La perdita del padre è la scena iniziale di una storia, che è già stata raccontata sotto il titolo di Avventura dell’uomo d’Occidente. Lo stesso racconto ha fatto anche Alberto Savinio, con la conclusione che il carattere tremendo del nostro secolo è dipendente da una “perdita dei modelli”. [...]. E Wagner, vogliamo dirlo, continua ad affascinarci, perché smuove le nostre fantasie dello ieri nel punto dove toccano le nostre angoscie di oggi. (1)
E assai probabilmente è stata proprio la musica di Wagner – quella in particolare dei Maestri cantori di Norimberga, di cui confessava in Riviera, amici di essersi “ammalato” nei suoi anni adolescenziali – a far nascere, già all’altezza di “Primo tempo“, una consuetudine. mai apertamente. confessata e tuttavia assidua e feconda, con il pensiero di Nietzsche, lontano o comunque indipendentemente dalla mediazione di D’Annunzio.
« In sostanza, la nascita della psicoanalisi – scrive in Il personaggio–uomo nell’arte moderna – dà atto che si è aperta un’altra epoca: quella in cui la coscienza comincia a svilupparsi in un senso verticale, anziché orizzontale.» (2) ma a fornire a Freud le coordinate, o piuttosto l’alfabeto ordinario per formulare le sue teorie è a suo avviso, il filosofo della Nascita della tragedia. E nel corso delle lezioni universitarie dedicate alla poesia di Pascoli:
Si rifletta che l’ultima parte del secolo XIX vede nascere in grande stile la storia delle religioni [...] vede spingersi fino all’utopia tutte le forme di storia, di ricerca letteraria, di linguistica comparata [...]. Si rifletta come il grande filosofo-presago e poeta termometro di quell’età parte dai più rigorosi e geniali studi di filosofia greca per subito tuffarsi a ricercare l’origine – è addirittura una parola d’ordine – l’origine della tragedia e subito si mette a lavorare su due personaggi mitici: Dioniso e Apollo e dà una psicologia dei miti, nella quale pare manchino soltanto alcune precisazioni sperimentali da laboratorio psicoterapico per mettere a nudo certi dati, sui quali si eserciteranno gli approfondimenti e le ipotesi di Freud, (3)
dove la stessa scienza psicoanalitica si ridurrebbe a episodio. certamente rivoluzionario ai fini terapeutici, del pensiero di Nietzche, esso sì dirompentemente nuovo e anticipatore di una lettura in positivo della « caduta degli assoluti » che ha contrassegnato il passaggio di secolo. Non si vuole rivendicare qui il ruolo primario di un’ascendenza culturale mitteleuropea rispetto a un’area francese di solito indicata come naturale luogo della formazione culturale di Debenedetti, ma sia consentito richiamarne l’importanza, a tutt’oggi inadeguatamente emersa, perché lo schema interpretativo debenedettiano sia sottratto a frettolose formulazioni.
E’ fuor di dubbio che il problema delle interrelazioni tra dinamica psichica e dinamica culturale, la necessità di agganci e conferme in aree anche molto lontane, di attraversamenti a più livelli e in relazione a “fatti” non strettamente letterari è una esigenza in lui palesemente profonda fino dagli anni torinesi di “Primo tempo” e della collaborazione alle riviste di Gobetti. Sua preoccupazione di sempre è di chiarire il senso e la funzione delle esperienze artistiche proprio in quanto inserite entro un quadro antropologico in cui siano in gioco possibilmente tutte le istituzioni culturali. Un operare critico in cui l’attenzione al dettaglio. l’attitudine a “separare”, è, perseguita con una puntigliosità pari alla irritazione per ogni sorta di ‘ismi’, perché responsabili di impedire duella elasticità della mente che consente di cogliere immediatamente il nuovo, di tagliar via i giudizi non appena minaccino di diventare pre-giudizi.
Le sue preferenze vanno sempre a quegli scrittori che moltiplicano i propri sforzi per afferrare l’io nel momento in cui le circostanze gli sottraggono la vecchia forma e gliene impongono una diversa. Viene in mente il suo Montaigne: « Io non ritraggo l’essere, ritraggo il passaggio ». E con una strategia da calcolo infinitesimale, che traduce una esperienza non visiva in termini omogenei e visivi, Debenedetti traduce in un discorso che è complicato senza mai essere oscuro, denso di suggestioni e mai effusivo, i suoi tentativi per penetrare in quelle che Leibniz chiama le entità infinitamente piccole. E spesso sono proprio i momenti in cui uno scrittore è meno assistito, le sue scoraggiate evasioni o le confessioni « rilasciate nelle ore più inutili e vane » che propongono al critico la chiave per forzare il segreto della “facoltà” creatrice: sono gli squarci rivelatori delle porte di servizio!
Valga anche per il “lettore” di Debenedetti.
Un suo racconto, nato in primo luogo da una esigenza di testimonianza, Anche gli ossessi, tuttora sepolto tra le pagine di una rivista del dopoguerra – il fascicolo n. 4. 1945 di ”Costume” – potrebbe essere esemplare in tale senso.
Rispetto alle pagine di 16 ottobre, dove una sequenza di verità si trasforma in una “sequenza di allucinazione’ – la furia irrazionale nazista trova adeguata espressione nella agghiacciante determinazione con cui il generale Kappler fa eseguire i suoi ordini di morte tra una folla di comparse ugualmente stupite, sgomente, incredule – qui di fronte allo spettacolo dei tedeschi in ritirata. Debenedetti inette in atto un arretramento delle immagini in una dimensione del tempo che sottragga ad esse ogni capacità di offesa, pur conservandone intatto lo spessore di verità, la forza di denuncia.
Scriverà in altra occasione:
Noi diffidiamo dei miti, d’accordo: abbiamo sistemi razionali che ci assistono e consigliano nel lavoro di modificare il mondo [...]
Ma certe valenze dell’uomo, quanto più egli si adopera a estrovertirsi nell’azione collettiva, continuano a cercare, a trovare nel mito, o in qualche cosa che gli somiglia, la sostanza affine con cui combinarsi. (4)
E in Anche gli ossessi, ipotizzando nei gesti dei soldati tedeschi in ritirata lungo la via umbro-casentinese, “bianca di luna”, urlanti a tratti in maniera discorde, soverchiante, felina, il ripetersi immutabile di antichi riti, di oscure simbologie, di fatto Debenedetti mette ancora una volta alla prova un meccanismo interpretativo che presiede anche al suo lavoro di critico: egli sa che nell’arduo gioco di progetto e destino, in cui si configura ogni avventura letteraria al pari di ogni umana vicenda, sempre insorge il bisogno di nascondere sotto la protezione di un cerimoniale qualche cosa che non si può o noti si osa affrontare direttamente.
È questo il luogo da cui si origina il suo diverso interrogare, dagli anni torinesi di Amedeo, Cinema Liberty, Riviera, amici, dei saggi per Michelstaedter e Saba nella rivista “Primo tempo”, fino alle ultime lezioni di professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma.
Mi sia consentito ancora di ricordare:
«Per adesso mi interrompo» – è il perentorio avvertimento di Debenedetti ai suoi studenti dell’anno accademico 1959/1960 durante un corso di lezioni dedicato alla poesia di Ungaretti.
Ma, siccome ho accennato alla Terra Promessa, non voglio perdere l’occasione di comunicare, come una primizia mentre ancora sono inedite., due delle più recenti liriche di Ungaretti, composte nel gennaio 1960. Fanno parte di una raccolta ancora in divenire, intitolata Il Taccuino del Vecchio appartengono al gruppo degli Ultimi cori per la Terra Promessa (5) e in questo gruppo portano i numeri 20 e 21:
Se fossi d’ore ancora un’altra volta ignaro,
[…]Darsi potrà che torni
Senza malinconia, bimbo?Con occhi che non vedano
Altro se non, nel mentre a luce guizza,
Casta l’irrequietezza della fronte?
dove si assiste ad una interruzione del succedersi lineare del tempo e. al congiungimento, fulmineo e tuttavia lungamente preparato, con una dimensione totalmente sciolta dai riferimenti al “qui e adesso”, che si dona, paradossalmente, in una condizione di massima esaltazione dell’attualità: la cronaca di un viaggio in aereo dal Giappone verso l’Italia.
In questo secolo della pazienza
E di fretta angosciosa,
Al cielo volto, che si doppia giù
E più, formando guscio, ci fa minimi
In sua balia, privi d’ogni limite
Ungaretti – continua la lezione debenedettiana – tocca qui l`immagine di quella sorta di infinito che è il cielo ad alta quota, attraverso un’introduzione narrativodiscorsiva. Comincia proprio accertando il tempo degli orologi, il tempo divenuto affannoso per la fretta che ci incalza, diremmo per la sproporzione tra i nostri mezzi tecnici e i nostri fini umani, accerta, definisce quel tempo da cui si disancorerà.
L’attenzione del critico è fermata in particolare dai versi:
Nel volo dell’altezza
Di dodici chilometri vedere
Puoi il tempo che s’imbianca e che diventa
Una dolce mattina
dove notazioni tecniche ubbidiscono al solo fine di arrestare il “movimento” della cronaca di un volo e consentire il balzo nello smisurato, secondo l’insuperabile modello dell’Infinito leopardiano.
Si direbbe che l’arrestarsi dell’attenzione di Debenedetti sii quei versi ungarettiani, il sottolineare che la ragione dell’interesse sta nella straordinaria capacità del poeta di “introdurre” un diverso calendario, che non misura più il tempo su quello degli orologi, ubbidisca a un movimento delle idee sorprendentemente vicino al pensiero espresso nelle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.
Anche Debenedetti – e non può essere casuale che entrambi siano stati traduttori della Recherchesolo nell’immagine che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità si lascia fissare il passato », come recita la Tesi 5a di Benjamin, ed è in questo orizzonte di pensiero che si avvicina all’ultima stagione poetica ungarettiana, spingendo la sua lettura fino a toccare quello spazio in cui scrittura creativa e scrittura critica, il dire del poeta e il dire del critico, non possono più misurarsi nei termini algebrici di un “più” e di un “meno”, di un “prima” e di un “dopo”: si può soltanto registrare che si verificano “allora”‘ le situazioni in cui il dover essere della critica si concede al più alto grado.
Torna in mente il silenzio di Proust davanti al cespuglio di rose del Bengala: si direbbe che al critico può accadere di riuscire a `dire` quel silenzio, di “raccontare` quell’esplodere verso degli oggetti, ovvero, nel caso in questione, della parola poetica.
E ancora i versi ungarettiam intorno ai quali Debenedetti in-trattiene i suoi studenti:
Puoi imparare come avvenga si assenti
Uno senza mai fretta né pazienza
Sotto veli guardando
Fino all’incendio della terra a sera
dove il “fuoco” che incendia la terra al tramonto, simmetrico al passaggio:
[…] vedere
Puoi il tempo che s’imbianca e che diventa
Una dolce mattina
Non è un caso che sia il Sentimento del tempo la raccolta ungarettiana da cui si è mossa l’analisi di Debenedetti nel suo corso universitario del 1959/1960 e in particolare la poesia Lago, luna, alba, notte; e la scelta ancora una volta è ben motivata se si pensi alla presenza già nel titolo di quella congiunzione, falsamente ossimorica, alba/notte, che si è indicata come il “luogo” da cui può ricevere trasparenza la complessità e attualità del dire di entrambi, e del poeta e del suo critico.
E allora l’improvviso interrompersi di quella lezione di Debenedetti, per l’incontro inatteso con quei Cori, non a caso esclusi dalla Terra Promessa ed entrati a far parte del Taccuino del vecchio, è dovuto all’esplodere verso di quella parola poetica capace di restituire l’attimo di vita piena, Glie era stato il “dono” dell’esordiente poeta del Porto sepolto: quella parola, raggiunta ora attraverso mille cadute, mille corteggiamenti, è in grado di restituire interminabili celii, è. cioè diventata più fragile ma assai più coinvolgente, proprio perché si sa debole, minacciata, esposta al più alto rischio.
II flaneur Ungaretti, che sa di essere biologicamente vicino all’ultimo traguardo, è capace di duello scatto geniale che gli fa vedere la “morte” come il “nuovo”.
« Au fond de l’inconnu pour trouver le nouveau » recita ancora Baudelaire nella citazione di Benjamin in Angelus novus, e si può esser certi che è (lui anche la ragione del consentiniento orinai totale di Debenedetti alla poesia ungarettiana, che del resto egli aveva già ospitato, negli anni torinesi, in “Primo tempo” e di cui, nel fascicolo dell’aprile 1924 di “Orizzonte italico“, aveva disegnato sveltamente un profilo. (6)
Ma soltanto ora il critico scioglie ogni riserva: nella sua ultima stagione Ungaretti mostra, a suo avviso, di saper porre e vincere la sfida più alta: l’arte può non cessare di essere ‘inseparabile dall’utilità` senza per questo “consegnarsi al mercato”, può fare del nuovo il suo valore supremo senza per questo astrarsi dalla realtà sociale dell’uomo.
Piaceva a Debenedetti ricordare le parole di Ismene ad Antigone:
Tu porti nel gelo un’anima di fuoco.
E facciano magari della letteratura, perché no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne. (7)
NOTE
1 G. Debenedetti, Personaggi e destino. in Saggi critici. Tema .serie, Milano, Il Saggiatore. 1959; ora in Personaggi e destino, a c. di F. Brioschi, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. 123.
2 G. Debenedetti, Il personaggio-uomo nell’arte moderna, in Il personaggio-uomo, Milano, Il Saggiatore. 1970, p. 74.
3 G. Debenedetn, Pascoli: La rivoluzione inconsapevole, Milano, Garzanti, 1979, p. 210.
4 G. Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, in Il personaggio-uomo cit. pp. 31-32.
5 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento. Milano, Garzanti, 1974, p. 87.
6 G. Debenedetti, Commento ad un poema di Ungaretti, “Orizzonte italico” aprile 1924.
7 R. Serra, Esame di coscienza di un letterato, in Scritti, a e. di G. De Robertis e a. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1958, vol. 1. p. 408.