di Franco Contorbia
Appunti per una storia da scrivere
1. A ventidue anni dalla morte, credo che i conti con Giacomo Debenedetti siano lontani dall’essere saldati. Non mi riferisco tanto alla irreducibile inadeguatezza di quei discours sur la méthode (sul “metodo” di Debenedetti, sulla sua irrepetibile quiddità) che proprio Debenedetti ha sistematicamente e, per dir così, diabolicamente “orientato”, in vita e dopo, costringendo gli esegeti a muoversi con forzata ripetitività sul terreno da lui scelto, e a riciclare, banalizzandoli, i prodotti di una vocazione metaforica predicata come prodigiosa. (1) Aggiungerò che alla vastissima serie delle carte più o meno segrete venute in luce dagli immediati dintorni del 1967 a oggi non sembra aver corrisposto un radicale salto di qualità sul piano euristico (e non voglio neppure sfiorare, per ora, una questione che non è, comunque, di modesto rilievo: la misura del coinvolgimento, intendo, verosimilmente minima, dell’interessato nella costruzione della sua immagine postuma secondo queste modalità progettuali). Preferisco spostare altrove il punto di osservazione.
Giacomo Debenedetti nasce con il secolo, nel 1901, e muore nel 1967: la sua parabola biografica, insomma, coincide esattamente con due terzi del Novecento e ne testimonia, quasi sempre a un livello eminente di esemplarità, caratteri e antinomie, contraddizioni e fratture. Ecco, che una storia del genere (storia di una identità perseguita e messa in mora, conquistata e smarrita) resti in attesa di un autore plausibile, è – o così a me pare – il più flagrante dei paradossi che un’approssimazione non pregiudicata all’intera vicenda privata e pubblica di Debenedetti rivela.
Premetto subito che non mi propongo di azzardare ipotesi “complessive”: mi accontento di addurre una elementare sequenza di indicazioni, di interrogazioni e di congetture.
2. Sono, intanto, avvolti in una fitta penombra gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e del primo apprendistato intellettuale. Una pagina debenedettiana vòlta a fissare, nel 1958, un remoto “ricordo” biellese (la partecipazione di Guglielmo Alberti e di suo fratello a una cerimonia funebre. per Alessandro La Marmora svoltasi nel lontanissimo 1911); (2) un cenno di Sergio Solmi, a un anno dalla scomparsa di Debenedetti, ai rapporti con Jean Luchaire ai tempi della Lega Latina (1918); (3) la bella intervista, infine, che Renata Debenedetti ha rilasciato nel 1982 a Rosita Tordi (4) sono i soli documenti che consentono di articolare un poco un quadro normativamente bloccato dal reiterato ricorso ad una formula (la Torino di Gramsci e di Gobetti…) estenuata dalla meccanicità delle ripetizioni coatte.
3. Tra la chiusura di “Primo tempo” (dicembre 1923) e la fisica sparizione di Piero Gobetti (morto il 16 febbraio 1926) e di Antonio Gramsci (arrestato 1’8 novembre) andranno registrati almeno, accanto alla riflessione debenedettiana sulla condizione ebraica affidata alle conferenze sui Profeti, (5) il tentativo di pubblicare ancora tre numeri unici della rivista (6) e la ricerca insistita di uno specifico spazio professionale (o paraprofessionale) in quanto homme de lettres.
L’episodio più significativo in tale direzione è la semisconosciuta collaborazione di Giacomo Debenedetti-Swann alla “Gazzetta del Popolo” degli anni 1926-1929 (7) (gli anni, rispettivamente, di Amedeo ed altri racconti e della prima serie dei Saggi critici…), non indebitamente riconducibile all’orizzonte culturale e mondano entro il quale ha corso, con l’alto patronato di Lionello Venturi e di Felice Casorati (due tra le stelle fisse di Debenedetti “torinese”’), l’effimera avventura “rinascimentale” che segna l’apoteosi e il crollo dell’impero finanziario di Riccardo Gualino. (8)
4. Manca uno spoglio decente degli interventi debenedettiani ospitati, tra il 1928 e il 1933, da “La Fiera” prima e poi da “L’Italia letteraria”: (9) sedi sicuramente meno numinose (e più mediocremente “istituzionali”) che “Il Convegno”, “II Baretti” e “Solaria”, ma degne di attenzione da parte di chi si disponga a chiarire da un lato le ragioni dell’impasse, al limite dell’afasia, che intorno al 1932 paralizza il lavoro di Debenedetti e trova un eccezionale controcanto nel dialogo epistolare con Umberto Saba, (10) dall’altro l’ambiguo capitolo del “Meridiano di Roma”, un’impresa editoriale esplicitamente legata alla politica culturale del fascismo nella quale Debenedetti svolge un ruolo non secondario al fianco del direttore Pier Maria Bardi, e di Anton Giulio Bragaglia, Alberto Consiglio, Cornelio di Marzio e Nello Quilici, tra il 1936 e il 1937, alla vigilia delle persecuzioni antiebraiche. (11)
5. Un autentico puzzle (risolvibile, forse, quando verrà portato a termine l’ordinamento del Fondo Giacomo Debenedetti esistente presso l’Archivio Contemporaneo del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze) è costituito dagli esercizi inventivi di Debenedetti successivi ad Amedeo ed altri racconti, parzialissimamente anticipati nell’ultimo numero di “Solaria”, datato settembre-dicembre 1934, ma in realtà pubblicato il 31 marzo 1936, (12) che si inscrivono, val la pena di notarlo, in una fase di straordinario allargamento dei consueti confini disciplinari.
Penso sia all’attività di Debenedetti nel mondo del cinema, recentemente indagata da Lino Micciché, (13) sia alle meno note incursioni ch’egli compie nei territori della critica d’arte (su una linea di tendenziale complicità con esperienze figurative anche geograficamente finitime da Casorati a Menzio) (14) e del dibattito musicale contemporaneo (i Maggi musicali fiorentini del 1937 e del 1938). (15)
Un’attitudine sperimentale tanto vertiginosa sembra presupporre, più che una febbrile inquietudine “metodologica”, una mobilissima, mercuriale oscillazione tra forme di esistenza che in qualche modo trascende i poteri di razionalizzazione del “narratore”.
A dir le cose in fretta, per un singolare gioco del destino il più grande studioso italiano del romanzo del Novecento diventa, senza mediazioni, il protagonista di un romanzo biografico che non è in grado di raccontare. L’aporia è stata colta, più che da altri, dal figlio di Giacomo Debenedetti, Antonio, in due luoghi de La fine di un addio (una « lettera al padre » il cui bruciante rovello conoscitivo reca, non equivocamente, l’impronta indelebile di una ferita mai rimarginata) che mi piace riprodurre qui:
«Perché. non scrive? ».
Dopo la domanda rivoltami da Paola, passo la giornata a interrogarmi sui fallimenti delle mie prove narrative.
Non riesco a trovare che risposte dure, impietose verso me stesso. Gli elementi negativi, che ricorrono implacabilmente nella mia prosa, sono tre: eccesso di introspezione, continuo ricorso alla tecnica della digressione, autobiografismo.
Il racconto è in sé un camminare magari prepotente, a passi persino sgraziati. Io faccio invece il girotondo, senza procedere verso un punto. Perché?
Per rispondere a questa domanda, un’altra domanda. L’insieme di condizionamenti psicologici, che mi impediscono di uscire allo scoperto dell’avventura fantastica, può riportarsi all’origine ebraica e alla traumatica esperienza ancestrale dei ghetti?
Non credo esista una risposta, una e una soltanto. Il mio mondo immaginativo però, come per lunga abitudine ai luoghi chiusi, sembra incapace di svilupparsi, esprimendosi nei momenti successivi di una storia. .
A volte parrebbe lasciarsi tentare, sotto il profilo della costruzione, dalla musica:
da quella circolarità melodica, che costituisce il contagioso incanto del Cavaliere della Rosa. Questo straordinario orgasmo orchestrale trasformato nel valzer più lungo
dell’intera storia musicale; (16)Appartengo, allo stesso modo di Umberto o di Bobi Bazlen, a una generazione che si è voluta riconoscere nell’intelligenza. Aldilà dei destini individuali, senza dubbio diversi, abbiamo compiuto una scelta comune: abbiamo puntato – non a caso tutti e tre romanzieri e tutti e tre incapaci di scrivere il nostro romanzo – sull’intelligenza anziché sul melodramma, sull’intelligenza anziché sul sesto senso o la creatività per la creatività.
L’intelligenza, il suo culto ci hanno tenuto lontani anche dalla scelta e dall’impegno politico: ci siamo limitati, sotto tale profilo, a un naturale antifascismo della ragione e talvolta del gusto. (17)
Che la tormentosa sincerità dell’auto da fé comporti automaticamente la felicità di una scrittura libera e abbandonata, non starò a sostenere ad ogni costo: ma che la determinazione didascalica di Antonio Debenedetti si applichi, nel caso, a un problema reale, mi pare difficile negare.
In tal senso, La fine di un addio si colloca a pieno titolo nella non foltissima costellazione di quei romanzi che, soprattutto a far data dagli anni Sessanta (capostipite sua generis Lessico famigliare di Natalia Ginzburg), hanno sottoposto a un teso ripensamento retrospettivo segmenti diversi della storia culturale e politica della Torino entre deux guerres: da Le due città di Mario Soldati a L’uomo di Torino di Velso Mucci, da Una giovinezza inventata di Lalla Romano a La gioventù di Manlio Cancogni.
6. Della seconda citazione da La fine di un addio si isoli l’ultimo capoverso: con l’inevitabile margine di schematizzazione che contrassegna l’ “autoritratto” di Giacomo Debenedetti tracciato dal figlio, la definizione potrà valere come introduzione non incongrua alla “svolta” debenedettiana degli anni 1943-1944 e all’opzione comunista mai più posta in discussione fino alla morte.
Ho in mente, certo, l’eccezionalità di scritture saggistico-parenetiche come Otto ebrei e 16 ottobre 1943, delle quali non occorre sottolineare la risentitissima autonomia rispetto ai codici in via di costituzione del nuovo realismo variamente “resistenziale”, avvertendo, tuttavia, che i due testi si connettono strettamente alla fitta trama di relazioni che tra il 1944 e il 1946 Debenedetti stabilisce con le riviste del postfascismo (da “Mercurio” a “La Nuova Europa”, da “II Costume” a “Comunità”; e si tenga conto, pure, della condivisione con Leonida Repaci delle responsabilità di direzione del quotidiano “L’Epoca”), rivendicando come primaria l’esigenza di ricomporre la lacerata fisionomia dell’ « uomo d’occidente » nel momento stesso in cui riaffiorano i sintomi di una acutissima crisi personale che soltanto Saba, ancora una volta, riesce a scandagliare nelle sue motivazioni profonde. (18)
7. È una soglia, cotesta, che non mi è concesso di varcare: mi limito a osservare che la renovatio “marxista” di Debenedetti si fonda per un verso sulla rimozione della propria vicenda di intellettuale nel fascismo, per un altro su una dedizione al Partito così strenuamente, acriticamente ortodossa da conferire connotati agghiaccianti ai suoi silenzi del 1948, del 1952, del 1956. (19) Questi silenzi impressionano oggi non meno che ieri: non la collaborazione alla “Settimana Incom” negli anni della guerra fredda, o la ininterrotta partecipazione (inseparabile da una sorta di predeterminazione autopunitiva?) alle mediocri liturgie dell’industria culturale.
Ventidue anni sono molti, e richiedono, naturalmente, l’aggiornamento degli strumenti di navigazione impiegati in un passato prossimo divenuto irrevocabilmente remoto: ma non per questo il lungo viaggio di Giacomo Debenedetti ha cessato di intrigare interpreti di generazioni anagraficamente divaricatissime. La morale della favola (una possibile morale della favola) è probabilmente racchiusa nell’incipit di un saggio letteralmente testamentario quale Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo.
Chiamo personaggio-uomo quell’alter-ego, nemico e vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e, adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te. Allora non c’è più scampo, bisogna lasciare che si intrometta. (20)
Replicando il fulmineo gesto con cui il « personaggio-uomo » disvela il « motto araldico » celato nel « risvolto della giubba » , Giacomo Debenedetti si assicura una permanente capacità di “durata”, e di fascinazione, presso la famiglia dei « lecteurs » – « hypocrites » e no – presenti e futuri: la sua storia, la storia di Giacomo Debenedetti, continua, evidentemente, a riguardare anche loro.
NOTE
1. Sul « meraviglioso metaforista [...], sempre atteggiato in favola altamente drammatica e ironica », si veda Gianfranco Contini, Una parola per Giacomo Debenedetti, in “L’Approdo letterario”, XIII, 39 (nuova serie), luglio-settembre 1967, p. 3 (Giacomo Debenedetti 1901-1967, a cura di Cesare Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 102).
2. Giacomo Debenedetti, La « ricerca » di Alberti, in “La Fiera letteraria”, XIII, 44, 2 novembre 1958, p. 1. Ho ripreso il lacerto in questione nell’Introduzione a Giacomo Debenedetti, Saggi 1922-1966 Milano, Mondadori, 1982 p. XIV.
3. Sergio Solini, Curioso ma fedele, in “La Fiera letteraria’”, XLIII, 5, 1° febbraio 1968, p. 11 (Giacomo Debenedetti 1901-1967, cit., p. 107). Anche questo brano di Solini si può leggere in Franco Contorbia, Introduzione, cit., p. X.
4. R. [osita] T. [ordi],Intervista a Renata Debenedetti. in “L’Informatore librario’, XII, 4, nuova serie, 15 aprile-15 maggio 1982, pp. 19-20.
5. Sull’argomento si veda la relazione che Rosita Tordi ha letto al convegno “Cultura ebraica e letteratura mitteleuropea”, svoltosi a Gorizia dal 6 al 9 novembre 1982, e ha pubblicato, con il titolo Giacomo Debenedetti e Umberto Saba: a proposito di cinque conferenze sui Profeti, in “Letteratura Italiana Contemporanea”, III, 7, settembre-dicembre 1982, pp. 73-78.
6. Il programma (Ripresa) della progettata e mai realizzata nuova serie di “Primo tempo” è nell’appendice alla ristampa integrale di “Primo tempo” 1922-1923, a cura di Franco Contorbia e con una postfazione di Gianni Scalfa, Milano, CELUC, 1972, pp. 383-385. La tenace persistenza del proposito è attestata, a tre anni dall’explicit di “Primo tempo”, da una lettera di Saba a Debenedetti del 27 dicembre 1926 (la si veda tra le Lettere di Umberto Saba, in “Nuovi Argomenti’`, 41, novembre-dicembre 1959, pp. 18-20; la nota introduttiva di Giacomo Debenedetti, che della rivista occupa le pp. 1-8, è ripubblicata, con il titolo Per un gruppo di lettere, in Intermezzo, Milano, Mondadori, 1963, pp. 70-80).
7. Un primo, incompleto censimento degli articoli debenedettiani della “Gazzetta del Popolo” è stato avviato da Francesco Mattesini, Bibliografia di Giacomo Debenedetti, in La critica letteraria di Giacomo Debenedetti, Milano, Vita e Pensiero, 1969, p. 326. Cinque « note cinematografiche » di Debenedetti apparse sul giornale torinese nel marzo 1929 sono state riproposte da Lino Micciché in un capitolo (1929: Swann al cinema) della raccolta degli scritti debenedettiani sul cinema da lui curata (Giacomo Debenedetti, Al cinema, Venezia, Marsilio, 1983, pp. 141-151). Utili informazioni sui rapporti di Debenedetti “critico cinematografico” con il giornale torinese sono a pp. 326-330 della Nota ai testi. Più in generale, sugli « occasionali, ma non superficiali, interessi artistici, musicali e teatrali » di Debenedetti di cui è traccia nelle pagine della ”Gazzetta del Popolo’”, è da vedere la p. 328. Un altro articolo di Debenedetti (Fra i moderni umanisti di Pontigny ) pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” del 5 dicembre 1927 è stato ristampato da Rosita Tordi tra i documenti allegati al suo Il diadema di Thoth. Itinerari per una “diversa” esplorazione del reale nella letteratura italiana del primo Novecento, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1981, pp.197-202.
8. Per un essenziale bilancio delle iniziative culturali di Riccardo Gualino si vedano il saggio di Marziano Bernardi Riccardo Gualino e la cultura torinese e l’elenco delle Manifestazioni del Teatro di Torino 1925-1930 in Riccardo Gualino, Frammenti di vita e pagine inedite. Prefazione di Ermanno Gorgo Salice, Roma, Famija Piemontèisa, 1966, pp. 157-200 e 201-248. Frammenti di vita è il titolo dell’autobiografia di Gualino uscita a Milano presso Mondadori nel 1931; nella nuova sede è a pp. 5-143. Lo studio di Bernardi e il regesto citato – la paternità del quale, anonima nel 1955, è stata, nella circostanza, restituita a Guido M. Gatti – sono stati ripubblicati autonomamente nel 1970 a Torino dal Centro Studi Piemontesi (pp. 9-52 e 53-98). Altre due opere di Gualino (Solitudine. Roma, Darsena, 1945, poi Roma, De Carlo, 1948; Uragani. Palermo, Sandron, 1933) sono state accolte, a cura di Giovanni Testo, che vi ha premesso un’ampia introduzione (pp. VII-XXXVI), nel volume Riccardo Gualino scrittore (Torino, Famija Turinèisa, 1979, pp. 1-96 e 97218).
9. Qualche notizia in Francesco Mattesini, Bibliografia di Giacomo Debenedetti, cit., p. 326. Un articolo apparso su “La Fiera letteraria” (Prezzolini e i giovani, 8 luglio 1928) è stato ripubblicato da Rosita Tordi, Il diadema di Thoth, cit., pp. 203-207).
10. Di Saba si vedano le due splendide lettere a Debenedetti del 16 luglio e del 31 ottobre 1932 (Lettere di Umberto Saba, cit., pp. 21-22 e 22-23).
11. Sull’episodio più inquietante della collaborazione al “Meridiano di Roma” (il lungo articolo su Mussolini scrittore, quindicesimo della serie delle Cronache letterarie, pubblicato il 9 maggio 1937), si vedano soprattutto Anco Marzio Mutterle, Ritratti critici di contemporanei. Giacomo Debenedetti, in “Belfagor”, XXV, 3, 31 maggio 1970, pp. 303-304 (e nota 17 di p. 303), e Eia, Eia, Eia, Alalà! La stampa italiana sotto il fascismo 1919/1943. Antologia a cura di Oreste del Buono. Prefazione di Nicola Tranfaglia, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 336 (breve nota introduttiva del curatore) e 336-337 (riproduzione di alcuni brani dell’articolo di Debenedetti), ripresi e discussi cori intelligenza da Giampaolo Dossena, Alla barba di chi non ha debiti, in “Il lettore di provincia’”, III, 9, giugno 1972, pp. 69-70.
12. « Non sono arrivati ancora alla luce i due romanzi scritti rispettivamente intorno al ’30 e al ’55 » (Enrico Ghidetti, Prefazione a Giacomo Debenedetti, Amedeo e altri racconti. Con l’inedito Amedeo Il e due lettere di Umberto Saba, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. XII). Dei Due capitoli di un romanzo inedito (Morte di Maria e Domenica) pubblicati su “Solaria’”, il primo è stato ristampato nell’Antologia di Solaria, Firenze, Parenti, 1937, pp. 137-146. Sul più antico dei due romanzi inediti ricordati da Ghidetti si vedano le lettere di Debenedetti a Alberto Carocci del 4 novembre 1928, del 6 marzo 1934, del 21 luglio e del 21 agosto 1935 (Lettere a Solaria, a cura di Giuliano Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 90, 487, 586, 587), e in particolare la prima: « Sai che sto finendo un romanzo, e questo mi costringe a subordinare gli altri lavori: è anche la ragione per cui sono esitante a copiarti una delle due brevi novelle che ho preparato da tempo e che sarei lietissimo di vedere stampate su Solaria ». Con il titolo Amedeo II Ghidetti presenta a pp. 81-91 della riedizione citata un « frammento della continuazione di Amedeo dell’immediato [secondo] dopoguerra » (p. XII).
13. Su Debenedetti “teorico’”, critico e operatore cinematografico sono fondamentali l’introduzione (Debenedetti al cinema, pp. VII-XL) e gli apparati (Nota, pp. 303-339) che Lino Micciché ha allestito per la citata silloge Al cinema, nonché gli sparsi richiami contenuti in Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, I, 1895-1945, Roma, Editori Riuniti, 1979, ad indicem. All’uno e all’altro autore si rimanda per ulteriori notizie bibliografiche.
14. A Menzio Giacomo Debenedetti dedica la nota Francesco Menzio pittore nel catalogo Exposition d’artistes contemporains italiens au Musée Rath di Ginevra (la mostra, del 1927, è successivamente riproposta a Zurigo). Il testo della presentazione debenedettiana è stato ripubblicato in Archivi dei sei pittori di Torino, a cura di Anna Bovero, Roma, De Luca, 1965. pp. 57-61. A una « conferenza sulla pittura di Casorati » (Discorso su Casorati) apparsa, in una redazione non integrale, con il titolo Casorati e la critica d’arte su “L’Italia letteraria” del 13 gennaio 1933, si riferiscono tre lettere di Debenedetti a Alberto Carocci: la prima anteriore al 12 dicembre 1932, la seconda del 4 marzo 1933. la terza del 6 marzo 1934 (Lettere a Solaria, cit., pp. 392-393, 417 e 488).
15. È nota da tempo la partecipazione di Giacomo Debenedetti ai convegni organizzati in occasione del Maggio musicale del 1937 e del 1938. Il 15 maggio 1937, a Palazzo Vecchio, nel corso dell’ottava seduta delle « tornate fiorentine » del secondo Congresso internazionale di musica, dedicata al tema La musica e il cinematografo, Debenedetti presenta una relazione dal titolo In sala o sullo schermo ? subito pubblicata, sotto il titolo complessivo La musica e il cinematografo, nella rivista “Cinema”, II, vol. I, 22, 25 maggio 1937, pp. 405-406 (a p. 405 è una nota redazionale non firmata; a pp. 406-407 la relazione, dal titolo Wagner, Verdi ed il film, tenuta da Darius Milhaud, sempre il 15 settembre, nella nona seduta che ha luogo presso il Teatro Sperimentale del G.U.F.; a p. 407 una cronaca, siglata « L. Co. », dal titolo Musica e film al Congresso di Firenze). La relazione di Debenedetti è riproposta negli Atti del secondo Congresso internazionale di musica, Firenze-Cremona, 11-20 maggio 1937, Firenze, Le Monnier, 1940, pp. 245-250 (a pp. 250-251 e 251 due brevi riassunti in francese e in tedesco; nella medesima sede, a pp. 257-260 la relazione di Milhaud, a pp. 260 e 260-261 i riassunti in francese e in tedesco), e, con il titolo La musica e il cinematografo che Lino Micciché ha un po’ arbitrariamente mutuato dal fascicolo di “Cinema”, in Giacomo Debenedetti, Al cinema, cit., pp. 97-103. Il 3 maggio 1938, ancora in Palazzo Vecchio, nella quarta seduta del terzo Congresso internazionale di musica che ha per oggetto Il gusto moderno e la musica del passato, Debenedetti svolge la relazione dal titolo «L’Oratorio di Via Belsiana»: la si veda negli Atti del terzo Congresso internazionale di musica, Firenze, 30 aprile-4 maggio 1938, Firenze, Le Monnier, 1940, pp. 102-106 (riassunti in francese e in tedesco, pp. 106 e 107). Si aggiunga che la citata lettera di Debenedetti a Carocci del 21 luglio 1935 consente di chiarire ulteriormente i suoi rapporti con il Maggio musicale fiorentino. Scrive Debenedetti: « posso contare che Bonsanti abbia consegnato a Mariani la mia comunicazione sul “Sonoro”? Bisogna che pervenga entro il mese; altrimenti faccio brutta figura col Comitato del “Maggio” » (Lettere a Solaria, cit., p. 586). La relazione, che non sembra aver visto la luce secondo le modalità che la lettera a Carocci lascerebbe ipotizzare, è certamente da identificare con il « manoscritto intitolato Il sonoro ideale » che Micciché ha segnalato (e giustamente datato 1935) a p. 310 della Nota citata che accompagna le pagine debenedettiane comprese nella silloge Al cinema; nella raccolta in questione Micciché ha tuttavia preferito includere il saggio La vittoria di Topolino (pp. 43-59), che de Il sonoro ideale « costituisce una [...] più ampia versione ». Sul testo letto da Debenedetti a Palazzo Vecchio il 29 maggio 1935 nella seconda giornata del convegno La musica nel film è da vedere, su “La Nazione” del 30 maggio, il resoconto siglato « v. », dal titolo I lavori del convegno della «Musica nel film», in cui l’estensore così registra la relazione di Debenedetti, erroneamente designato come « Vittorio »: « ha svolto in sintesi la storia del film sonoro, rilevando come la sonorizzazione più raffinata tenda all’onomatopea ambientale, alla virtù, cioè, di rendere, sia pure in forma musicalmente idealizzata, l’ambiente in cui si muovono i personaggi » .
16. Antonio Debenedetti, La fine di un addio, Novara, Editoriale Nuova, 1984, pp. 78-79.
17. Antonio Debenedetti, La fine di un addio, cit., p. 142.
18. Si vedano, almeno, la lettera di Debenedetti a Saba del 22 marzo 1946 (Arrigo Stara, Giacomo Debenedetti: lettere a Umberto Saba 1946-1954, in “La Rassegna della letteratura italiana”, LXXXIX, 2-3, maggio-dicembre 1985. p. 382) e la lunga risposta di Saba del 27 aprile (Lettere di Umberto Saba, cit., pp. 23-27). Il « fallimento » delle « terapie psichiche » e delle « applicazioni » delle « teorie di Freud » da parte degli analisti, « piccoli ratés nevrastenici », è desolatamente registrato da Debenedetti nella lettera a Saba del 1° luglio 1947 (Arrigo Stara, Giacomo Debenedetti, cit., p. 383), alla quale il destinatario replica con grande umanità e acutezza il 4 luglio (Umberto Saba, La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1957, a cura di Aldo Marcovecchio. Presentazione di Giovanni Giudici, Milano, Mondadori, 1983, pp. 180-183).
19. La sola manifestazione di dissenso dalla linea del Partito Comunista resta circoscritta, per Debenedetti, a un episodio, pur importante, di politica “culturale”. L’indisponibilità a condividere gli orientamenti di fondo della letteratura di ispirazione neoveristica, ripetutamente asserita nella collaborazione a “l’Unità” di Roma negli anni 1946-1947, sarà alla base del distacco di Debenedetti dal quotidiano del partito. Anche se ancora il 6 marzo 1948 “l’Unità” romana ospiterà un articolo di Debenedetti su La Bellonci e i Gonzaga, la frattura si consuma con la lettera di dimissioni inviata da Debenedetti all’amministratore del giornale, Amerigo Terenzi, il 14 settembre 1947 (Nello Ajello, Intellettuali e PCI 1944-1958, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 496 nota 71). Sugli articoli debenedettiani de “l’Unità”, inadeguatamente analizzati finora da Francesco Mattesini (Giacomo Debenedetti: Campionario ’47, in “Vita e Pensiero”, LI, 4, aprile 1968, pp. 364-375: introduzione, pp. 364-371; piccola antologia, pp. 372-375 (Occasioni di lettura, Milano, “Vita e Pensiero”, 1968, pp. 57-75: 57-69, 69-75) e da Stefania Cuffaro (Giacomo Debenedetti critico militante: gli articoli su “l’Unità” (1946-1948), in “Galleria” XXXII, 5-6, settembre-dicembre 1982, pp. 171-178), è da vedere la relazione di Ottavio Cecchi accolta nel presente volume.
20. Giacomo Debenedetti, Commemorazione provvisorioa del personaggio-uomo, in “Paragone”, XVI, 190/10, dicembre 1965, p. 3 (Avanguardia e neo-avanguardia, Milano, Sugar, 1966, p. 103; Giacomo Debenedetti, Saggi 1922-1966, cit., p. 65). Sulla complessa vicenda editoriale del saggio si veda, in quest’ultima sede, la mia nota a pp. 397-398.