Ricerca, conversazione, insegnamento

di Alfonso Berardinelli

Ricerca, conversazione, insegnamento. Mi accorgo tardi, purtroppo, che il titolo che scelsi mesi fa per questa mia breve relazione su Debenedetti, è un titolo troppo ambizioso e promettente, troppo generico. Non potendo addentrarmi in una analisi dei diversi volumi di saggistica che Debenedetti ci ha lasciato, cercherò almeno di chiarire il significato del titolo che scelsi un po’ incautamente, o di spiegare in breve le ragioni, le ipotesi, e lo spunto polemico, che stavano dietro quella scelta.

E in estrema sintesi potrei dire subito: qui all’Università di Roma, dal 1963 al 1966, per due anni con continuità, e poi più saltuariamente, seguii i corsi sul romanzo del Novecento tenuti da Debenedetti, assistendo, lezione dopo lezione, anno dopo anno, allo svolgersi della sua ricerca, una ricerca di cui le sue lezioni tracciavano il diligente e avvincente resoconto, in quel linguaggio discorsivo, ma anche ansiosamente divagante, che i suoi lettori conoscono. Lo stile delle sue lezioni era uno stile da conversazione: nessuna nozione veniva offerta come un accumulo stabilmente disponibile e memorizzabile. Monologando ad alta voce, ma con tutto il rispetto delle forme che sentiva (e aveva sempre sentito) di dover avere per chi lo ascoltava, Debenedetti ci faceva assistere alla sua ricerca, alla sua riflessione in atto. Nel suo conversevole monologo di ricerca, nel bilancio retrospettivo della cultura letteraria di un secolo, bilancio che era anche una ricognizione, una diagnosi sul presente, sentivamo il conforto della sua pacatezza e lo stimolo della sua ansia.

Forse il suo insegnamento trasmetteva anzitutto questo: il clima, l’atmosfera di quello stato mentale per cui una particolare ricerca si realizza nel medium di un particolare linguaggio. La moderazione di Debenedetti, le sue formule attenuanti, ironiche, i suoi garbati cerimoniali propiziatori, non soffocavano affatto l’audacia delle sue ipotesi critiche. Esprimevano anzi la cautela di chi sa di avventurarsi in terreni minati, in geografie ancora poco note. Quanto più la sua ricerca si muoveva in assenza di garanzie e di certezze aprioristiche, tanto più la forma del resoconto si dimostrava affabile e pacata.

Cercava quei cruciali momenti della verità in cui un personaggio e uno scrittore tendono a manifestare apertamente o ad occultare con vistoso scrupolo una vocazione e un destino. Ma questa ansia e questo impegno di verità o di rivelazione prendevano forme apparentemente disimpegnate. In accenti moderati ci venivano descritte situazioni estreme. Di fronte agli eccessi e alle deformazioni spesso estremistiche dell’arte moderna, Debene-detti elaborava un linguaggio critico fatto di eleganze ironiche e di divaganti volute discorsive.

Questa breve descrizione richiama solo elementi acquisiti. Si tratta di luoghi comuni su Debenedetti. Posso scegliere quasi a caso una formula-zione fra le tante: « Quando ci si accinga a parlare di Giacomo Debenedetti, la tentazione di fare riferimento all’uomo, alla sua conversazione viva, è molto forte. In quella conversazione, paradossalmente, ci si dimenticava quasi dei suoi libri, del suo lavoro di scrittore; o per meglio dire, il confine tra la parola scritta e la parola parlata appariva labile, indefinibile. Alla maniera stessa che leggendo le sue pagine si poteva credere di sentire la sua voce: che ci concedesse spazio e tempo per replicare, per intervenire, secondo i principi della più cortese e avvincente arte maieutica. Ma questo vuol dire anche, e prima di tutto, che l’uomo privato riusciva a trasferirsi interamente – o al limite massimo – nella sua scrittura; che tra la pagina e l’uomo non c’era diaframma né soluzione di continuità. E quando sulla pagina s’intuiva un mistero, una perplessità di fronte alle cose del mondo, un qualche stremato disagio, quell’incertezza così sollecitante aveva radici nei modi stessi dell’uomo: sentire la vita (e la letteratura) come urla perenne e sconcertante fluidità. Sentirne il movimento, e resistere alla tentazione di definirla » (1)

Debenedetti, quindi, come critico-scrittore che si nasconde dietro i libri per rivelarsi attraverso di essi. Non critico che inventa i libri e gli scrittori di cui parla, soverchiandoli con il proprio esibizionismo (il che può accadere sia a quei critici che abusano del mimetismo stilistico, sia a quei critici che abusano della strumentazione tecnico-analitica). Ciò che Debe-nedetti inventa non sono i libri e gli autori di cui parla, quanto i propri itinerari e le proprie strategie di conoscenza. La sua voce che parla, anche attraverso i suoi scritti, di una ricerca in corso: che cosa poteva dare di meglio il suo insegnamento? Non sembra che Debenedetti abbia mai dovuto fare particolari sforzi calcolati per mediare, come si dice, fra ricerca e didattica. Proprio lui che era già stato per qualche decennio uno dei critici militanti di punta della nostra cultura letteraria, non sembrava affatto sopportare le necessità didattiche come una fatica ingrata che imponga semplificazioni depauperanti e avvilenti. Il suo pubblico era cambiato – tutto il pubblico e la stessa società italiana era cambiata. Ma la sua conversazione continuava. Sfiorava abissi senza precipitarvi, camminava sul filo delle argomentazioni come un acrobata, leggero, sapiente, e dava l’impressione che librarsi in aria con tutta la sua magica perizia fosse quasi normale, fosse il solo modo possibile e concesso di camminare dentro i libri, fra un libro e l’altro, rigirandosi fra le mani mille volte frammenti di teorie e figure di destino.

Certo, come studenti che dovevano, infine, prepararsi a sostenere un esame, eravamo un po’ a mal partito. Riassumere un saggio di Debenedetti è quasi impossibile. Se si va al nocciolo, si perde il meglio: cioè la polpa e il succo. Nella critica di Debenedetti non ci sono frasi o passaggi da saltare, da buttare via. Nei preliminari e nelle parentesi c’è a volte il meglio. Come scrittore, Debenedetti sapeva usare tutto l’insieme del suo pensiero, organizzava sciami di intuizioni, le esaminava sotto gli occhi dei suoi lettori. L’arte di muoversi in mezzo ai propri pensieri, suscitati e movimentati dalla lettura di un libro, è sempre stata la sua arte. Ma come può avvenire che nelle sue pagine non ci sia mai zavorra e materia inerte? Che mai la sua prosa porti i segni della durezza selettiva, del taglio, della condensazione formulare? La sintesi definitoria non lo tentava. La sua critica non è fatta di punti d’arrivo e di punti fermi. È fatta piuttosto di volute e di peripezie. Fragili e tenaci architetture di concetti, polivalenti come metafore, eppure sempre sottoposti alla misura del suo intellettualismo scettico dominato da un profondo senso della misura e del limite.

Stile e buone maniere, affabile e signorile rispetto delle regole. La presenza di un cerimoniale ironico attraverso cui il critico-conversatore mette in atto una serie di pratiche propiziatorie e di esorcismi. Ma che cosa cerca, e che cosa vuole e deve tenere a bada, lo stile critico di Debenedetti? Potrei dire, semplificando, che Debenedetti doveva sentire molto acutamente certi doveri fatali per il critico saggista: i doveri derivanti dalla sua posizione di mediatore tra le forze selvagge nascoste nell’arte, i pericoli e le violente spinte centrifughe, in particolare, dell’arte e della letteratura moderne, e le regole doverose di una socievole razionalità. Non si trattava certo di addomesticare il potenziale oscuro nascosto nella forma artistica, e tanto meno di neutralizzarlo (come troppo spesso avviene nella critica accademico-scientifica e di sistemazione). Ma Debenedetti, non sottovalutando affatto i doni e i rischi dell’arte (indicati da una lunga tradizione di pensiero che va da Platone a Nietzsche), sentiva di dover agire coane un accorto e abile mago, che non deve scatenare forze misteriose superiori alle sue capacità di controllo. Reso ansioso dalle invincibili ambivalenze simboliche dell’opera d’arte, Debenedetti praticava per esorcismo provvisorio un intellettualismo moderatore, benché acuminato: l’intellettualismo ossessivo e in parte cerimoniale di chi sa che non si può convivere senza precipitare nella follia (o nella stupidità) con una ambivalenza e polivalenza onnipervasiva e irrisolta dei segni e delle cose.

Il dilemma del critico, e la debolezza di una scelta troppo decisa in un senso o nell’altro, li troviamo formulati per esempio nella Prefazione 1949 alla prima serie dei suoi Saggi critici (1929)

[...] o sacrificare a una agevole comunicativa, [...] cioè ammorbidirsi in un mestiere, in un servizievole giornalismo dell’intelligenza in corsivo; oppure sacrificare a una dura intelligenza, a costo di rimaner soli, di perdere la carta d’identità. (2)

Non volendo né restare solo, perdendo la carta d’identità di critico, né diminuirsi nel mestiere di un giornalismo servizievole, Debenedetti ha elaborato le più sofisticate formazioni stilistiche e intellettuali di compromesso della nostra letteratura novecentesca. Confrontato con altri due grandi maestri dell’equilibrio e dell’indecisione scettica come Emilio Cecchi ed Eugenio Montale – nei quali lo stile del riserbo e della reticenza non è esente da una certa grettezza e da un pessimismo storico un po’ pettegolo – ecco, in questo confronto, Debenedetti appare dotato di una più aerea, mercuriale e innocente eleganza. Nel suo scetticismo non c’è nessuna oltranza. La sua passione di ricerca non si è mai consolidata in una Weltanschauung negativa, immobilistica. Né il cinismo del mestiere, né i rigori della solitudine erano fatti per lui. Non è certo un caso che i suoi autori, tra i più grandi della letteratura novecentesca, siano stati Proust, Svevo e Saba. Gli autori meno violenti, meno terroristici, meno dottrinari e sofistici della modernità. Maestri nell’arte di non mentire e di dichiarare se stessi, perché sapevano fin troppo bene quanto sia facile mentire, nel momento stesso in cui si è formulato il proposito della verità.

Aggiungerei un’ipotesi, appena un po’ fantasiosa, ma anche, credo, non del tutto infondata.

Due dei più interessanti e inquietanti saggi che Debenedetti scrisse negli ultimi anni della sua attività, riguardano la sorte, la deformazione, l’irrigidimento, la metamorfosi e infine la sparizione del personaggio-uomo nella narrativa contemporanea.

Chiamo personaggio-uomo quell’alter-ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche da te. Allora non c’è più scampo, bisogna lasciare che si intrometta. Ma non ha solo questa virtù di mediatore, che spesso rende “più praticabile la vita”. L’evoluzione della sua specie. porge anche il filo rosso per seguire la storia, non solo della narrativa, ma di tutta la letteratura e forse anche delle altre arti. Attualmente in quella evoluzione deve essere successo un salto qualitativo: ne è prova la decadenza della critica che vorrei definire osmotica, la quale penetrava il personaggio, e ne era penetrata, sia pure col rischio di contrabbandare una vischiosità, un intrico di filamenti organici, una indiscreta e madida abbondanza di flussi; ma alla fine arrivava sia a comprendere quel personaggio che a spiegarlo. Le si è sostituita un’altra critica di tipo soprattutto accerchiante: essa stringe d’assedio il personaggio con strumenti di superlativa ingegneria, corredati di pannelli, manometri, lampadine multicolori, che durante l’impiego ne permettono anche il controllo; quasi sempre, tuttavia, preferisce la bellezza, l’efficienza tecnica dell’assedio al momento dell’espugnazione. (3)

E già due anni prima, nel 1963, il saggio-conferenza Il personaggiouomo nell’arte moderna si apriva con queste parole:

Sono un critico letterario e, sebbene creda fermamente che i criteri più utili per leggere e intendere le opere di letteratura siano quelli che riusciamo a desumere dalla vita, il mio campo di osservazione mi è dato soprattutto dal lavoro dei narratori e dei poeti. Per una testimonianza sull’uomo d’oggi, preleverò dunque alcuni aspetti tipici che appaiono nei personaggi della narrativa moderna. Si sa che homo fictus, come è stato chiamato il personaggio dei romanzi, può avere tanti difetti [...] ma tutto sommato ci fornisce molti e preziosi messaggi concernenti lo stato, il modo di essere, il comportamento, le vicende e il destino di homo sapiens. (4)

Ed ecco che, invece, al critico, con la deformazione e disintegrazione del personaggio romanzesco, cominciava a venire meno il suo terreno d’analisi: l’oggetto, o meglio il soggetto, delle sue interpretazioni. Il personaggio, questo alter-ego del lettore, che nel romanzo aveva trovato il genere letterario più adatto a manifestarsi negli accidenti aleatori e necessari di una storia, si ritirava sempre più nell’ombra. Si volatizzava in una nube non più antropomorfica di particelle percettive.

Lo spunto conclusivo che però vorrei ricavare da queste riflessioni e preoccupazioni quasi testamentarie di Debenedetti riguarda non la letteratura, quanto piuttosto la critica. Non credo che si tratti di un’ipotesi troppo peregrina e azzardata. Lo stesso Debenedetti, nei due brani citati che aprono i due saggi sul personaggio-uomo, evoca tangenzialmente, quasi di passaggio, la figura del critico. Nel testo del ’63 questa evocazione è in assoluto primo piano, coincide con una vera e propria dichiarazione di identità di chi parla («Sono un critico letterario») e con la definizione sintetica e primaria di quella attività che è appunto la critica (« sebbene creda fermamente che i criteri più utili per leggere e intendere le opere di letteratura siano quelli che riusciamo a desumere dalla vita, il mio campo di osservazione mi è dato soprattutto dal lavoro dei narratori e dei poeti »). Definizione in cui ritroviamo quello che potrebbe essere considerato il principio fondamentale di ogni critica saggistica, cioè il rapporto stretto di interazione interpretativa fra i libri e la vita, fra esperienza di letteratura ed esperienza vissuta. Volendo estendere o riformulare questo principio, si potrebbe dire che la letteratura non è interpretabile in base a criteri esclusivamente intrinseci, cioè solo letterari. A questa riaffermazione di principio, se ne aggiunge subito dopo un’altra, complementare: il terreno di osservazione e di conoscenza specifico, per quel particolare tipo di saggista che è il critico letterario, sono i libri, le opere dei narratori e dei poeti. È dalle immagini dell’uomo, dalle figure umane elaborate dagli autori, che il critico ricava le sue nozioni e informazioni sulle condizioni dell’umanità contemporanea. In questo caso, dato che al centro dell’atten-zione c’è il personaggio, possiamo dire che le preoccupazioni e le curiosità conoscitive di Debenedetti si rivolgevano anzitutto al destino dell’individuo.

È l’esistenza, la presenza impegnativa di un personaggio-uomo, di una figura umana pienamente dotata di attributi dinamici, a richiedere quel tipo di critico. Anche lui, potremmo dire, personaggio-uomo al, di qua della pagina, che ricerca un rapporto osmotico col personaggio: un rapporto di scambio organico, di nutrimento reciproco. Quanto più una letteratura perde i suoi caratteri antropomorfici, quanto più essa si fa indifferente ai destini e ai personaggi, quanto più si risolve in una serie di procedimenti astratti, fungibili e ripetibili, tánto più la critica osmotica, e il critico stesso come personaggio-uomo, tende a deformarsi, a disintegrarsi e a sparire. Fra due entità astratte e in via di disgregazione, fra due individui alienati e dominati dalla preminenza schiacciante delle Strutture (dentro i libri e nella società), non è possibile né osmosi né conversazione. Lo scambio comunicativo si disgrega a sua volta, e così la trasmissione di qualsiasi esperienza, diretta o acquisita tramite i libri. È per questo che oggi forse abbiamo la Ricerca (tecnicizzata, burocratizzata, istituzionalmente finanziata) e forse abbiamola Didattica della letteratura. Quello che manca, è la Conversazione. Manca ormai quella microsocietà non corporativa di conoscitori e di amatori, la ristretta ed elettiva cerchia di corrispondenti e di amici, che rendeva possibile e faceva vivere il discorso critico di Debenedetti. Fra ricerca e insegnamento è sempre più difficile trovare la critica, o almeno quel tipo di critica letteraria che si è sviluppata nel medium discorsivo della conversazione nella società borghese, fino alle soglie della società di massa e della attuale non-società.

Per questo, dopo la commemorazione provvisoria del personaggio fatta da Debenedetti, e sulle sue orme, sarei tentato di fare una commemorazione, non so quanto provvisoria, del critico-uomo, del critico non burocratico né tecnocratico, del critico non solo specialista e non solo servizievole. Del critico che non sia solo una “particella” sempre più elementare dentro strutture e macro-strutture sempre più “complesse”.

Se non può essere ripresa, continuata, imitata, la critica di Giacomo Debenedetti può essere però, a differenza della gran parte della critica, letta e riletta. Già questo è un sollievo.

 


NOTE

1 L. Baldacci, Debenedetti e la critica osmotica, in Giacomo Debenedetti a c. di C. Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 142.
2 G. Debenedetti, Prefazione 1949, in Saggi critici. Prima serie, Milano, Mondadori, 1952; ora Venezia, Marsilio, 1989, p. 6.
3 G. Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, in Il personaggio-uomo, Milano, Mondadori, 1970; ora in Personaggi e destino, a c. di F. Brioschi, Milano, Il Saggiatore Studio, 1977, p. 158.
4 G. Debenedetti, Il personaggio-uomo nell’arte moderna, in Il personaggio-uomo, cit., ora in Personaggi e destino, cit., p. 197.