di Giovanni Macchia
Uno degli avvenimenti più importanti nella nostra cultura degli ultimi anni è stato la pubblicazione degli scritti postumi di Giacomo Debenedetti. Definire questi scritti lezioni così come Debenedetti le andava preparando per i suoi corsi universitari di Messina e di Roma non sarebbe una giusta definizione. La lezione presuppone un taglio esplicativo e didattico, conforme al suo scopo, che è quello d’insegnare ad un pubblico che, s’immagina, nulla o poco conosca della materia che gli viene presentata. Ma l’aspetto che fa dell’insegnamento un esercizio per dir poco paradossale, essere umili nel proprio potere di esemplificare ogni problema che ti viene incontro e insieme in questa stessa condizione di umiltà affermare la propria autorità su colui che ti ascolta, era anche in tutto ciò che Debenedetti ha scritto in quegli anni, affrontando l’improba fatica di preparare le sue lezioni.
Esistono grandi critici che sono stati professori per tutta la vita, e forse hanno acquistato proprio dal loro mestiere una continuità e una forza nello svolgimento stesso del pensiero. La Storia del De Sanctis fu scritta per preparare un buon manuale di letteratura italiana per gli studenti dei licei. E dobbiamo all’occasione dell’insegnamento dei capolavori che forse non sarebbero stati scritti, primo fra tutti il Port-Royal di Sainte-Beuve, e aggiungerei, sia pure a ragionevole distanza, il suo Chateaubriand e il suo Virgilio. Senza allestire facili paragoni che sarebbero fuor di luogo, i libri di Giacomo Debenedetti, nati dalla sua attività d’insegnante ch’egli sentì come una scoperta e che affrontò con entusiasmo, questi suoi quadernetti di scuola, cui affidava gli argomenti dei suoi corsi, così come sono congegnati nella loro volontà di dissimulare ogni forma di didattismo, per salvare, anche quando si deve insegnare, lo stile, sono vicini ai saggi che nacquero, per Sainte-Beuve, dalla sua attività d’insegnante: a Losanna, a Liegi e al Collège de France, ove le lezioni non furono mai tenute.
Come Sainte-Beuve (accostamento che gli avrebbe fatto piacere), anche Debenedetti redigeva con grande cura le lezioni, le arricchiva di referenze e di note, e dalla cattedra parlava e non leggeva, quasi cercando di tener lontano ciò che aveva scritto. Insegnare diventava per lui evidentemente un atto della più grande libertà: il più diretto di qualsiasi altro atto critico. E non c’è da meravigliarsi se, insegnando, la sua prosa subì un effettivo mutamento. Fu quel che pensava anche Montale. « Mi si dice » notò « ch’egli non leggesse affatto le lezioni che aveva scritto con tanta cura. Le teneva certo sott’occhio ma senza dubbio le arricchiva d’infinite variazioni. Questo spiega il carattere orale di una prosa che in altri tempi era stata più concisa, chiusa in se stessa, lavorata per pochi intenditori » .
Questa esigenza di semplicità, di fluidità nell’impostazione del discorso critico, per appianare e smussare le difficoltà cui si va incontro, invece che irrigidirle per eccesso di concisione, risulta ben evidente da una semplice lettura di queste pagine su Montaigne. Esse furono le prime ch’egli dettò nella sua carriera d’insegnante (insegnante di letteratura francese all’Università di Messina nel 1956), e oggi sono le ultime ad essere pubblicate.
E nessuna meraviglia che sia stato proprio Montaigne a inaugurare questa sua carriera che gli riserbò tante sostanziali soddisfazioni e insieme, dal punto di vista pratico, per la diffidenza di coloro che hanno sempre visto nell’università una specie di piccola roccaforte (in verità assai debole) da difendere dagli assalti dei “dilettanti’”, non poche amarezze. Montaigne, il più “discorsivo” dei filosofi, era proprio l’esempio sommo per quei dilettanti. Era insieme un pensatore e un personaggio. E l’ideale di Debenedetti nei suoi giovani anni, e anche in seguito, credo fosse quello del grande scrittore che affidava la bellezza della sua forza espressiva non alle immagini o alle metafore, ma alle idee. Nel vario incanto che veniva a Benedetto Croce dal ritmo dell’argomentare, dalla forza limpida e incisiva delle asserzioni, egli diceva, nel saggio giovanile dedicato al suo stile, potevano ritrovarsi ragioni propriamente liriche di bellezza. In Michelstaedter, altra passione di quegli anni, riconosceva che, anche sotto il rispetto dello stile, la sua figura si era attuata completamente. « La passione dello scrittore, spiccatasi da un desiderio di dimostrare, si era concentrata tutta in uno sforzo di esattezza visiva che aumentasse l’efficacia della prova. » E i passi più interessanti dal punto di vista dell’arte erano quelli che suggellavano stati di rara psicologia. Su questa strada si pensi all’importanza che rivestì il suo incontro con Proust, la cui avventura intellettuale era passata dalla concretezza di un mondo per sua natura sensuale, e diremmo meglio sensibile, tutto riluttante stupore, a quella di un mondo intelligibile.
Montaigne fu il navigatore solitario di questo mare calmo e insidioso, nella lotta che in lui di continuo si apriva tra il libro e la vita. Sempre alla ricerca del mondo per raggiungere tra l’uno e l’altra un temporaneo equilibrio, il rispetto e quasi l’adorazione del libro non sopraffaceva le variazioni, le contraddizioni e gli umori del tempo e gli stessi avvolgimenti della psicologia. Avendo a che fare dunque con un filosofo che aveva visto nella ragione non una realtà ma quasi l’impeto insostituibile per toccare il fondo della « condizione umana » (espressione che è di Montaigne e che avrà poi molta fortuna), Debenedetti appariva affascinato dal rapporto che nello scrittore si istituiva tra l’idea e l’immagine, tra l’evidenza dell’idea, nella fisionomia nativa da cui prendeva forza il suo apparire, il suo imporsi al nostro consenso, e le metafore, campo aperto alla libertà dell’espressione.
Non vuole che si confondano minimamente l’esercizio del prosatore nel dire ciò che vuol dire, tutto legato cioè al suo contenuto, e il fare del poeta nel giuoco aperto e insostituibile delle immagini. Il prestigio stesso della figura di Montaigne come pensatore lo persuade che siano appunto le idee a condurlo, e non le associazioni delle metafore. Eppure egli sente che il modo da lui seguito nel fare appello alla ragione coniuga la forza delle buone ragioni con una certa « musica della ragionevolezza » che è essa stessa creazione di poesia: è la musica che « si sprigiona dall’armonia delle facoltà intellettuali e mentali, dalla concretezza e umanità degli argomenti che esse via via scoprono, escogitano, attirano per arrivare a manifestarsi ». Ed era questo proprio il contrario della prosa d’arte sul cui concetto e sulla cui invadenza si era fin troppo almanaccato negli anni precedenti a quelli in cui Debenedetti scriveva. Era il tono a fare la canzone. E l’attrattiva quasi autonoma dell’immagine veniva alla fine dominata dalla forza intrinseca della cosa espressa.
Non ci meraviglia dunque che a costeggiare questo variatissimo arcipelago degli Essais, che sembra non debba mai avere fine, egli, in queste lezioni, non abbia chiesto aiuto a letterati, a Gide, a Solmi, a Lugli, che non vengono quasi mai nominati, ma a biografi, eruditi, a professori di filosofia e di pedagogia (tra i quali trovo, con Giacomo Barzellotti, citato più volte, un quasi sconosciuto studioso amico della mia famiglia, nato a Castellana, paese di mia madre, e che mi conobbe bambino, Giacomo Tauro).
Egli ha bisogno di scegliere e riconoscere in quella specie di pozzo senza fondo dove resta così facile perdersi, i punti essenziali che possono essergli utili per decifrare la fisionomia di un autore che, ahimé, parla di tutto: di se stesso, della propria vita, di quel che sa, di quel che pensa, di quel che ha fatto e di quel che non ha fatto, perché non ha voluto e perché non è riuscito a fare, e di chi ha conosciuto, e quali tra l’altro furono i rapporti con la sua famiglia e col confuso e tragico mondo (la Francia delle guerre di religione) in cui gli toccò di vivere. Debenedetti sembra voglia cogliere quell’uomo nel momento in cui sta per divenire un personaggio, una creazione individuale spontanea, per ricondurlo subito dopo alla sua verità, alla sua sincerità, alla sua indulgenza e alla sua fragilità, ben sapendo quanto sia rischioso imporre all’uomo compiti superiori alle proprie forze.
Vorrebbe farlo rimanere lì dove è vissuto, nel tempo che fu suo e nelle idee che lo nutrirono, per non spostarlo altrove, com’è stato fatto più volte negli ultimi tempi, quale un maestro di vita a noi contemporaneo, da cui trarre insegnamenti e consigli; eppure, approfondendo quel suo ritratto di un uomo che vive e soffre della crisi di un’età, altri fantasmi, a noi più vicini, si fanno avanti da un disegno così mobile e fuggevole. E il fantasma che più frequentemente appare e riappare nel suo discorso, quasi a sua insaputa, è quello di Proust.
Nel passato di Montaigne, un passato prossimo borghese e mercantile, dai vicinissimi antenati, Debenedetti scopre uno stato d’animo che oggi si chiamerebbe snobistico, e una tale connotazione fa presto a condurlo a chi dello snobismo scrisse « la profonda, patetica e spesso drammatica epopea »: Proust, lo scrittore che per tanti versi continuava la tradizione introspettiva di autoanalisi inaugurata dagli Essais. Non gli sfugge che tutti e due avevano qualcosa in comune: essere nati, come si dice, di razza mista, padre cattolico e madre di origine ebraica. Ma egli è lettore troppo fine per insistere su questo dato di fatto. Troppo lungo discorso occorrerebbe per dare ad esso un preciso significato psicologico e togliere « ogni sciocco e antipatico riferimento razzistico ». Ciò che gli preme invece è approfondire l’essenza di un rapporto che fu tenace e ingombrante, tanto in Montaigne quanto in Proust: il rapporto con i propri genitori. Il romanzo di Proust parla diffusamente del padre, ma si svolge sotto il regno materno, « teneramente anche se dolorosamente matriarcale, mentre gli Essais glorificano un dolce, comprensivo patriarcato ».
Ma quello che si instaura e si celebra negli Essais fu davvero un patriarcato? Non finì il figlio col vedere nel padre, già ardito, animoso educatore, un pavido e timoroso conformista? Non si può parlare anche per il personaggio Montaigne di una « perdita del padre » ? Ma mentre nel suo saggio Personaggi e destino (1947) Debenedetti rendeva omaggio a Freud nel riaffermare il tema originario e massiccio del conflitto col padre, qui fa atto di contrizione, riconoscendo la volgarizzazione di tali concetti cui è giunto l’uso indiscriminato della psicoanalisi. E tra le pagine più delicate di questo libro sono certo quelle dedicate a trarre dall’ombra, in cui negli Essais è stata lasciata, la figura della madre, silenziosa e anonima. E con un piglio che ben conosciamo egli giunge a un’affermazione. Se gli Essais non parlano della madre, dice, essi parlano delle madri.
E un accento d’inconfessata, implicita tenerezza sembra trascorrere in quelle raccomandazioni di proteggere le madri, di garantirle contro l’avvilimento delle soggezioni economiche. e del bisogno: e d’improvviso, in un accenno, si profila l’immagine della madre vecchia, alla quale vanno tributate cure e attenzioni: anche se qui il Montaigne si limiti, come vuole il giro del suo discorso tutto pratico, a raccomandare quelle attenzioni sotto specie di benessere materiale.
La conoscenza di Proust invece di guidarlo, e sarebbe errato, nella perlustrazione di un mondo labirintico, per trovare il bandolo di una matassa sempre più arruffata, gli concede soltanto di gettare improvvise e, com’egli stesso confessa, involontarie illuminazioni su un mondo che consente infinite chiavi di lettura e di cui la più insistente resta quella di provare, come in una straordinaria pietra di paragone, il fascino della modernità. E su altri tre temi di lontana ascendenza “proustiana”, Debenedetti indugia con grande diletto: il senso del l’autodegradazione, il rapporto tra il libro di lettura e la propria vita intellettuale e privata, e la decisa rinuncia alle pubbliche cariche.
Uno degli atteggiamenti più ostinati di Montaigne, ripetuto più volte e con sempre maggiore convinzione, fu infatti non di mostrarsi in ciò che possedeva ma in ciò che gli mancava o non riusciva ad essere. Questa visione densa e spessa della propria ombra, che copriva senza affaticarla l’enorme luce del suo spirito e che lo situava lontano da tutto quello ch’egli ammirava, fa di Montaigne non un sovrano, intoccabile maestro ma un amichevole compagno di strada.
Agisce in lui come un desiderio di autodenigrazione, su cui io stesso ho avuto modo altrove d’insistere, ma con effetti che sono del tutto all’opposto di quanto vorrebbe far apparire. Egli, ad esempio, proprio quando denunciava la sua mancanza di memoria, giungeva sulla memoria e sull’oblio a vere, autentiche scoperte psicologiche. Proprio quando raggiungeva la coscienza di questi vuoti e s’insinuava in lui la certezza di essere un incapace e non saper scrivere, di non riuscire ad imporre a se stesso quel bisogno di ordine, di armonia necessario a costruire con tutte le regole un’opera d’arte, di cui erano maestri i grandi del Rinascimento, egli componeva un libro del tutto diverso dagli altri, un libro tutto suo, con le sue deficienze, le sue qualità, i suoi limiti.
E non sembra difficile allora a Debenedetti, che non può distrarre mai il pensiero dal suo Proust, controllare quanto siano sempre più stupefacenti le somiglianze, le affinità di Montaigne con l’autore della Recherche. Anche Proust lamentava la scarsità di quelle doti che viceversa giganteggiavano nel suo romanzo. E proprio sul timore di difettare di quelle qualità, nasceva nell’uno e nell’altro uno dei movimenti di fondo, il movimento strutturale che investiva i due libri. Se la Recherche è il libro di uno che si dispera di non saper fare il libro, nel momento stesso in cui l’autore non cessa di costernarsi di non saper scrivere il libro sognato, egli sta compiendo « una delle opere più feconde dell’arte moderna, in un senso intensivo ed estensivo, come risultati e come proporzioni ». E se in Montaigne questo lamentarsi risulta meno patetico, meno decisivo per il divenire della sua opera, pure quel lamento è provocato da una ragione analoga a quella che lo produce in Proust.
Entrambi sono grandi maestri dello scavo interiore; tutti e due producono capolavori che hanno come posta, come supremo e sorprendente risultato, di esteriorizzare, di rendere visibile un immenso fenomeno d’introversione. Ma il grande sogno degli introvertiti è quello di prodursi in una vita attiva, estrovertita. Di qui la delusione dei loro mezzi che li portano a vincere su un terreno diverso da quello sperato: che, proprio con la riuscita raggiunta, smentiscono il loro sogno.
Ma per raggiungere la realtà di un’opera che fosse pure l’opaco, ibrido fantasma dei suoi sogni, due mezzi sono per lo scrittore possibili e anzi necessari. Uno di essi consiste in un’affermazione, l’altro in una rinuncia.
Montaigne e Proust hanno parlato, anche se in modi diversi, del meraviglioso miracolo della lettura, che è comunicazione in seno alla solitudine, la quale concentra ed esalta le forze attive dell’anima. Quando si legge – pensava Proust – noi siamo in presenza del pensiero di un altro e tuttavia siamo soli. Siamo in pieno lavoro della mente. Non facciamo che sviluppare il nostro io, con un senso maggiore di verità che se pensassimo da soli. Si è come sospinti sulla strada, che riconosciamo come nostra, da una forza che non è la nostra.
Che cosa fu l’operazione della lettura per Montaigne se non la storia intima del suo formarsi attraverso quei libri scelti e quasi incontrati spontaneamente, per una specie di affinità elettiva? Dietro gli Essais, dietro la Recherche, v’è un fermentare illimitato di opere, di nomi, di citazioni, come una lente con cui si potesse guardare la vita, più scoperto e quasi esibito nell’uno, più celato e segreto nell’altro, ma tutti e due furono uomini di singolare destino intellettuale, coloro che hanno in sé « come una specie di calamita che attira al momento giusto i libri utili, quelli che possono dire la parola suggestiva: una specie di scelta istintiva come quella che spinge gli animali a brucare le erbe più adatte a nutrirli in certi casi, a medicare le loro ferite ». Senza leggere risulta impossibile creare: è una verità cui ci hanno abituati Montaigne e Proust. E la malattia da curare nell’uno e nell’altro era prima di ogni altra la paresse, quella paresse che a Proust rimproveravano un po’ tutti in famiglia. E i familiari di Montaigne pronosticavano che egli dovesse diventare non un uomo cattivo ma inutile. Prevedevano l’infingardaggine, non la malizia.
E autori di un unico libro, bloccati faticosamente nelle loro torri o nelle loro stanze, mentre fuori infuriava la guerra, guerra di religione o guerre di intere nazioni, autori di libri così lontani l’uno dall’altro e che pure si somigliavano stranamente per una certa loro anarchia nel disegno, dove non si rispettava misura, ordine esterno, rapporto ed equilibrio tra le parti e neanche differenze tra temi principali e quelli secondari, eppure tutti e due disperatamente alla ricerca di una costruzione, era evidente che in essi l’uomo pubblico e l’uomo privato possedevano due facce che non si annullavano l’una nell’altra. Nutrendo una istintiva repugnanza per ciò che chiamiamo le cariche pubbliche o l’avanzamento nel credito del mondo, tutti e due, nella più intima sostanza del loro lavoro, scrivevano un elogio della vita privata, fosse essa limpida e chiara o la più oscura e tenebrosa.
Non bisogna imporre all’uomo compiti superiori alle proprie forze. L’ambizione è una malattia forse scusabile in un’anima forte e piena, diceva Montaigne; e questa rinuncia all’ambizione e a tutte le tentazioni cui aveva voltato le spalle per seguire la strada della moderazione, egli la sentiva qualche volta come la conseguenza di uno che in tal senso aveva fallito. Ma in Proust più dichiaratamente la vita di scrittore fu il frutto di una terribile scelta, accettata come gloria e sacrificio. La letteratura: fu essa la sua sola ambizione, la sua unica amante, quale era la scultura per Michelangelo o la pittura per Delacroix. Egli sapeva certo che un uomo carico di onori suscitava nella posterità più ammirazione di un Flaubert, che fu nessuno. Ma non provò mai alcuna nostalgia per una vita estrovertita, pratica, attiva.
Era inevitabile che il cammino scelto da Debenedetti a brevi tappe per disegnare il ritratto impossibile di un personaggio che fa di tutto per sfuggirci, trovi alla fine il suo momento di riposo. È il momento in cui la mobilità dello sguardo cerca un volto meno « farouche et extravagant », e questo momento corrisponde a uno dei temi più alti e sereni degli Essais, scelta obbligata di tutti gli antologisti: il tema dell’amicizia, e l’amicizia non argomento di un trattato, ma legata alla vita e alla morte di un essere, di un giovane: Étienne de La Boétie. La Boétie resta il grande protagonista degli Essais, anche quando non appare, quale figura al centro di un quadro continuamente deformato, tra tanti altri personaggi che vanno e vengono e appaiono e scompaiono come grottesche. Di fronte a un tema che gli sta tanto a cuore, sembra che a Montaigne non importi contraddire se stesso. E Debenedetti lo avverte da par suo. Di fronte all’amicizia, l’autore degli Essaís sembra sospendere, egli dice assai bene, in una tregua improvvisa quella perpetua sfida che lancia a se stesso e a noi: « Sfida di non poter mai ricostruire interamente un uomo nei suoi tratti essenziali e tra loro coerenti sullo schema, sul disegno di un profilo semplice e unitario ».
Il mondo, alla fine del Cinquecento, procede verso l’esaltazione dell’incostanza, nella poesia, nella morale, nell’amore, tra la filosofia di Epicuro e l’imminente dongiovannismo. Montaigne, quando parla dell’amicizia, va per un’altra strada. E come Sponde di fronte all’amore, in un confronto e una disamina dei sentimenti, egli vede altri sentimenti immersi nella notte, qual è il mondo di Epicuro ridotto in atomi, e la sua amicizia immota, al centro del suo universo affettivo e morale, paradigma e modello perfetto, non scalfito dal contatto con la moltitudine. E se tra gli esempi messi a confronto non poteva sfuggire a Montaigne, innamorato dei suoi classici, quella ch’egli chiama la licenza greca, « giustamente aborrita dai nostri costumi », replica subito che l’improvviso furore ispirato dal figlio di Venere al cuore dell’amante e che aveva per oggetto il fiore di una tenera giovinezza, era fondato su una bellezza esteriore. La sua era fondata sullo spirito. E anche in questo caso è impossibile non pensare a Proust che fin dalla sua adolescenza non conobbe e non apprezzò se non amicizie maschili, e in compagnia di ombre di giovani amici morti, che gli ricordavano l’eleganza pensierosa di un eroe di Van Dyck, egli passeggiava malinconicamente nel giardino delle Tuileries. Ma quel sentimento raggiunse in Proust una tale tragica complessità di gradazioni, nel martirio cui l’amore e non più l’amicizia ci condanna, che la casta e forte e dolente immagine di La Boétie, anch’egli precocemente colto dalla morte, svanisce lentamente nel buio.
Eppure c’è da domandarsi alla fine se la purezza o l’esaltazione di Montaigne per quell’amicizia fu anch’essa non priva di ombre. Quel giovane non era soltanto un giovane amico morto. Non era né Willie né Agostinelli. Era uno scrittore e un uomo d’azione, un pensatore politico e un poeta d’amore, un traduttore dal greco e un polemista feroce e a suo modo anche un filosofo seguace di una morale che a Montaigne costava troppa fatica seguire: lo stoicismo. E non soltanto dunque con un’anima in cui poteva riversarsi il più puro degli intimi affetti, ma con un uomo d’azione e con uno spirito violento e animoso, con un uomo di pensiero, che aveva idee fin troppo ferme e chiare in campo politico e in campo morale, si stabiliva il grande confronto, cioè il disegno del tutto dinamico di quella amicizia.
Bisogna pur dire chiaramente che La Boétie fu certo per Montaigne il suo specchio, il suo modello, ma anche tutto ciò che egli non fu e non poteva essere. Al di là di quel che egli disse o gli fece dire nelle sue ultime ore prima della morte, c’è da chiedersi, pensando a ciò che quell’adolescente aveva scritto, cosa egli sarebbe stato se fosse ancora vissuto, se fosse vissuto quanto Montaigne. Ci si domanda se quel processo che Montaigne conduceva intermittentemente e tenacemente verso se stesso non fosse l’immagine dell’altro, improvvisamente troncata, a suggerirglielo. S’integravano davvero l’uno nell’altro? E nel rapporto con il suo grande amico dette sempre, Montaigne, prova di fedeltà e di coerenza? Non suscitano più di un’incertezza la sua posizione e il giudizio espresso in varie occasioni su tutto ciò che quel forte ingegno era riuscito a produrre? È un interrogativo che Debenedetti non si pone.
Non c’è dubbio che, fermo restando l’attaccamento, il dolce sentimento d’amore verso la memoria dell’amico, a mano a mano che il tempo passava egli si allontanò sempre più dal senso e quasi dal valore della sua opera. Aveva conosciuto La Boétie come autore della Servitude volontaire, scritto a mo’ di saggio, disse, nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni, e aggiungeva che esso da tempo andava per le mani delle persone raccomandandosi per i suoi grandi meriti. Eppure egli s’era ben guardato dal pubblicarlo insieme alle altre opere di La Boétie, che sette anni dopo la morte aveva dato alle stampe. Decide finalmente di pubblicare quel discorso nei suoi Essais, ma mentre sta redigendo il capitolo sull’amicizia, avendo saputo che esso era stato utilizzato insieme con altri scritti sediziosi contro la monarchia dei Valois, improvvisamente recede dal suo proposito. Un po’ impaurito dall’utilizzazione di quel testo per fini pratici, immediati, alquanto facinorosi, ne mette in dubbio il valore. E allora liquida il testo più importante di La Boétie come frutto di un’esercitazione fatta da un ragazzo, su un argomento volgare quale si ritrova tante volte in tanti libri, con nulla insomma di originale.
Anche i ventinove sonetti d’amore, nati secondo il suo primo giudizio da un impulso vivo e ardente, perché anch’essi furono scritti nella verde giovinezza, subirono la stessa sorte. Apparsi nella edizione del 1588 degli Essais, essi, per decisione dell’autore, scomparvero dall’edizione definitiva. Dicono perché tra il 1588 e il 1592 quei sonetti erano stati stampati. Ma dove? In quale pubblicazione? Nessuno fino ad oggi è mai riuscito a rintracciarla.