Le epifanie di Debenedetti

di Angelo Guglielmi

Nel dire che Debenedetti è il più grande critico letterario italiano del secolo (del secolo e in quanto è vissuto in questo secolo e in quanto ha soffermato la sua attenzione di studioso soprattutto sulla letteratura di questo secolo – a differenza di Contini che, pur essendo altrettanto prestigioso, ha studiato soprattutto la letteratura dei secoli passati) io dico non soltanto una cosa sulla quale oramai tutti concordano, ma dico anche una cosa che so solo io. Cioè, la consapevolezza della sua inarrivabile grandezza è maturata in me in circostanze del tutto particolari che forse mette conto di riferire.

Come voi sapete, negli anni Sessanta noi (alcuni miei amici – come Barilli, Giuliani, Pagliarani, Sanguineti, Balestrini, Eco – ed io) abbiamo lavorato intorno a un nuovo modo di fare letteratura o, se volete, intorno a un nuovo modo di leggere la letteratura contemporanea, utilizzando metodi, idee e consapevolezze che, pur diffusi e in uso all’estero – nell’Europa più moderna e colta – ci parevano ed erano ignorate in Italia. La morte del naturalismo, la crisi del personaggio-uomo, il romanzo della probabilità, le epifanie joyciane e le intermittenze proustiane, l’esaurimento della narrazione come intreccio, il privilegio accordato agli aspetti linguistico-strutturali, la scrittura automatica, il dissoccultamento della realtà, la nuova fisica che privilegiava l’aleatorietà contro la necessità, il tramonto dell’antropocentrismo, Husserl e la fenomenologia e poi ancora Benjamin e la critica delle ideologie, Barthes e il grado zero, Lévi-Strauss, Foucault, Propp e la fiaba, Sklovskij e la teoria della prosa ecc. ecc., tutti questi temi tornavano con insistenza e ripetutamente nel nostro discorso consentendoci di ribaltare i giudizi allora correnti, di ricostruire la gerarchia dei valori, di portare in primo piano autori fino allora trascurati, di ritenere percorribili (e praticare) nuove possibilità espressive, di valorizzare direzioni di pensiero guardate con sufficienza e sospetto. E andavamo orgogliosi di questo nostro sforzo, consci dei benefici effetti che stava producendo nella situazione culturale del nostro paese e convinti di essere stati i primi (e dunque di portarne il merito) a introdurre nel dibattito culturale italiano i tempi e i problemi della modernità.

Poi qualche anno dopo – anzi molti anni dopo – mi capitò tra le mani e lessi Il romanzo del Novecento di Giacomo Debenedetti, che fino allora di fatto conoscevo solo di nome. Molti anni dopo giacché negli anni Sessanta per me prendere in mano e leggere un autore italiano – che non fosse Pirandello, Svevo o Gadda – sembrava un peccato di leggerezza. E la leggerezza non era tra le nostre virtù.

Dunque lessi Il romanzo del Novecento e rimasi fulminato. Tutto ciò che io avevo scritto e pensato, tutto ciò che mi pareva di avere scoperto, tutte le intuizioni e illuminazioni che mi avevano allietato, tutto era stato pensato, detto, scoperto e intuito, tutto e molto altro ancora – e con tanta più completezza, consapevolezza e dottrina – molti anni prima da Giacomo Debenedetti. E fu una sorpresa che mi produsse gioia e insieme furore. Furore contro la cultura italiana, cioè i suoi protagonisti che avevano steso un così impenetrabile cordone di sanità intorno a Giacomo Debenedetti da impedire che il suo pensiero innovatore filtrasse e illuminasse le tristi, provinciali, ottocentesche, polverose stanze in cui i letterati italiani trascorrevano le loro mediocri giornate e si diffondessero le nuove parole con cui costruire una più moderna cultura, finalmente europea. Gioia per il sex-appeal straordinario che la scrittura di Debenedetti possedeva e che mi seduceva come quella di un romanzo di avventure; per la conferma che trovavo a certi miei pensieri e convincimenti che finalmente vedevo espressi con una chiarezza e una ricchezza di articolazioni di cui non ero stato evidentemente capace; per la capacità che Debenedetti aveva di proporre il nuovo senza sacrificare il vecchio, evitando tutte le ingiustizie in cui in genere cadono i profeti del nuovo. E poi, più egoisticamente, ero contento di avere letto soltanto tardi, con anni di ritardo, i libri di Giacomo Debenedetti, di essere arrivato in ritardo a contatto con il suo pensiero giacché se di esso avessi avuto conoscenza per tempo non avrei mai cominciato a scrivere e perché allora, per il giovane critico non professio-nista che io ero, l’unica ragione che mi spingeva a scrivere era la consapevolezza di riuscire a dire cose non ancora dette e perché comunque mi sarebbe parso inutile dire, male, dopo, ciò che era già detto, e così bene, prima.

Ma che cosa Debenedetti diceva così bene, spingendo lo studio della letteratura contemporanea – lui che pure da giovane aveva amato Croce e avrebbe continuato a rispettare anche in età matura – verso una direzione di ricerca così innovativa e originale? È inutile dirvi, giacché già lo sapete, che Il romanzo del Novecento raccoglie le lezioni che Debenedetti tenne all’Università di Roma, da semplice incaricato, nell’arco di tempo compre-so tra gli anni Sessanta e Sessantasei. Le lezioni che avevano appunto per tema il romanzo del Novecento, consistevano (e consistono) in una ricerca sulla data di nascita del romanzo nuovo, le sue ragioni di essere, le sue caratteristiche, i suoi rapporti con altre espressioni artistiche e, più in generale, con il complesso della cultura del tempo.

Diciamo subito che la grande intuizione di Giacomo Debenedetti è di presentare il romanzo nuovo – la cui data di nascita si situa nel secondo decennio del secolo – come il romanzo della costruzione di un nuovo più drammatico rapporto con la realtà.

Il romanzo nuovo – che è il romanzo della probabilità contro il romanzo della necessità – con il suo aspetto stravagante, in rotta con quello dell’apparenza quotidiana, era visto con sospetto, mal sopportato, addirittura rifiutato. All’origine del rifiuto vi è appunto la novità con cui si presentava rispetto al romanzo ottocentesco e cioè: l’assenza della trama o, se presente, la sua incongruità; le continue digressioni; la rottura del tempo cronologico; lo spaesamento dei personaggi; l’aleatorietà delle azioni; l’indifferenza per i significati finali. Ciascuna di queste caratteristiche collaborava a impedire una lettura piana del romanzo nuovo, gettando nello sconcerto il lettore abituato a farsi guidare dalla logica del buon senso nell’organizzazione della sua vita quotidiana. Debenedetti non ha nessun moto di fastidio verso questo lettore, che non giudica e di cui comprende le pretese. La sua genialità, la genialità di Debenedetti è di riuscire a spiegare a questo lettore, con una dovizia di argomentazioni sottili e sorprendenti e insieme lineari e convincenti, che l’incomprensibilità del romanzo nuovo non ha nulla di incomprensibile, che le motivazioni del suo aspetto arbitrario sono tutte presenti e certamente descrivibili, solo che si allarghi la riflessione dal romanzo nuovo al contesto più ampio in cui quel romanzo s’inserisce, alla varietà delle elaborazioni e scoperte della cultura del tempo e, soprattutto, alle condizioni di vita e ai modi di esistere dell’uomo moderno. Questa riflessione, a più ampio spettro, consente di accertare, afferma Debenedetti, la presenza, nel mondo dei primi decenni del secolo (né oggi la situazione è molto diversa), di un forte ed esteso disagio esistenziale; disagio, scrive Debenedetti, alla cui diffusione collaboravano varie cause e cioè: « la vulnerabilità di una borghesia già oscuramente preoccupata perché sente avvicinarsi la crisi del predominio borghese »; « lo straordinario sviluppo della tecnica, che sostituisce a tappe forzate la macchina al lavoro umano, intervenendo nella gerarchia dei ruoli e incidendo sull’aspetto del paesaggio »; e, più ancora, e conseguentemente, la pena dell’uomo « che ha perso la sicurezza di poter vivere in armonia con se stesso, e insieme la fiducia nella stabilità sociale ». Le garanzie che la realtà aveva fino allora offerte, i valori che da sempre esprimeva, sui quali l’uomo aveva appoggiato la costruzione. della sua vita e nei quali aveva trovato una risposta sufficiente alle esigenze della sua interiorità, perdono ogni potere di seduzione.

L’immagine esterna della realtà, la sua figuratività è diventata un vestito ingombrante, che nasconde più che svelare, e comunica la voglia di strapparlo, di lacerarlo per vedere cosa c’è sotto. La realtà si trasforma in ciò che essa nasconde, ed è lì che bisogna andarla a trovare. Nell’invisibile della fisica degli atomi, nell’oltre pirandelliano, nell’inconscio di Freud.

È in questa prospettiva, in queste nuove coordinate della sensibilità e del pensiero che, nasce il romanzo nuovo. All’origine di esso (e suoi padri indiscussi) sono Proust e Joyce, i due grandi narratori che, al contrario di quanto avviene nel romanzo naturalista, non raccontano « più le cose, ma le loro epifanie, la vita seconda che si svela nelle epifanie». Che cosa sono le epifanie joyciane o, per altro (analogo) verso, le intermittenze proustiane è generalmente noto: ci limitiamo a ricordare che con il termine di epifania (o con quello di intermittenza) s’intende indicare quel processo di riconoscimento attraverso il quale o al termine del quale le cose « esplodono verso », si rivelano, raggiungono, come scrive Debenedetti, « un potere manifestato ». E per dare un’idea palpabile, evidente di questo processo Debenedetti non esita a richiamare alla nostra memoria quel brano fin troppo noto della Recherche, in cui Proust racconta che, già adulto, rincasando un giorno d’inverno, infreddolito, aveva acconsentito di riscal-darsi con una tazza di tè che, intanto la madre premurosa gli aveva preparato. Aveva appena portato alla bocca un cucchiaino di tè che si sentì trasalire, avvertendo dentro il sorgere di qualcosa di straordinario. Venne invaso da un piacere delizioso della cui causa peraltro non aveva nozione. Poi improvvisamente una luce si fece in lui: nel tè che stava bevendo riconobbe « il sapore del pezzetto di maddalena inzuppato nel tiglio che gli dava la zia » nella cui casa, da piccolo, era stato tante volte ospite. E insieme a quel sapore subito prese corpo anche la vecchia grigia casa in cui la zia abitava, la cittadina e la piazza dove veniva mandato prima di colazione… ecc.

E come in quel giuoco in cui i giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fino allora indistinti che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano., si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, [...] e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto questo che viene prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

Dunque nella narrativa di Joyce e di Proust gli oggetti della realtà non sono che semplici pezzetti di carta, indistinti e qualunque che, solo al termine di un complesso trattamento di riconoscimento, svelano il loro senso (la loro essenza). Cose e oggetti, scrive Debenedetti, terminano di essere, come nella narrativa precedente, « propulsori o testimoni o fautori nella meccanica dell’azione » e diventano statici, si bloccano in una fissità per così dire dinamica: « hanno ghermito un aspetto del tempo eterno, irrelativo, fuori di ogni misurazione, perché sempre uguale a se stesso, e hanno perduto il tempo della clessidra e dell’orologio, che era quello specifico della narrativa tradizionale ».

Dall’analisi dei meccanismi narrativi di Joyce e di Proust – che noi abbiamo qui frettolosamente riassunto – Debenedetti ricava e inette a fuoco almeno due degli aspetti che più caratterizzano il romanzo nuovo e cioè: la scomparsa della trama – come sviluppo coerente dei fatti sbriciolata in una serie di epifanie e di momenti privilegiati in quanto dotati di poteri manifestanti rispetto ai quali l’azione narrativa si riduce ad essere « in certo senso quel flusso che si stabilisce tra l’apparire e l’essere » ; la sostituzione del tempo della clessidra o dell’orologio con la durata, per essa intendendo l’intensità della rivelazione o, se volete, la densità della manifestazione. Ma dove Debenedetti mostra tutta la sua (inarrivabile) bravura di analista, di lettore della modernità è nell’individuazione della terza caratteristica che inarca il romanzo nuovo (e più in genere l’arte contemporanea) consistente nell’aspetto deformato che assumono in esso i personaggi e gli altri oggetti della realtà.

La chiave per comprendere queste deformazioni e superare lo sconcerto che prova il lettore o lo spettatore quando, leggendo il Si gira di Pirandello o visitando una mostra di pittori espressionisti, entra in contatto con personaggi e figure dai profili alterati, oggetti dai contorni spezzati che tradiscono ogni regola di armonia e di compostezza naturale è da cercare e sta, ci dice il Debenedetti, in quella sentenza di Kafka che recita: « La nostra arte è un essere abbacinati dalla verità. Solo la smorfia che si ritrae sul volto è vera, e nient’altro che questo » . E perché garanzia della verità è la smorfia, l’alterazione dei volti quando per tanti secoli era stata l’armonia, la bellezza, l’equilibrio, la purezza delle figure e dei profili? Perché intanto, risponde Debenedetti, è nato Freud e prima di lui Dostoevskij; e Freud ha scoperto che quella bellezza, quella purezza rappresentava, aveva finito per rappresentare, come l’esterno di un carcere in cui, in una cella sotterranea, era tenuta chiusa e nascosta « una palpitante, sofferente prigioniera, come un’anima che aneli di farci giungere, almeno attraverso le sbarre, il suo gemito di condannata, il messaggio della sua pena ignorata». Il romanzo moderno rompe quella bellezza e libera la prigioniera, la quale, prorompendo in superficie, insieme alla sua oscura vitalità comunica (anzi grida) la sua diversità, che nessuna regola o ragione può contenere e risolvere. La prigioniera in libera uscita sente come un impaccio, un ostacolo insopportabile i connotati oggettivi, riconoscibili del mondo visibile e li abolisce o comunque li forza, li violenta per aprirsi un varco di espressione. È così che gli oggetti e i personaggi si aprono come scorze e attraverso le fessure (le ferite) si fa visibile l’oltre, l’inconscio, l’es, l’invisibile.

E torniamo all’oltre di Pirandello che, per quello che riguarda la narrativa italiana contemporanea, viene indicato come il grande eversore, il distruttore dell’approccio naturalistico, il nauta del profondo nel quale si avventura arditamente in quanto non dubita che un mondo sconosciuto esiste dietro i segni del mondo visibile. A dire il vero Debenedetti prima che a Pirandello fa risalire a Tozzi il merito (anzi non il merito – una parola così facilmente valutativa Debenedetti non l’avrebbe mai usata) dunque non il merito, l’origine del romanzo nuovo italiano. Ma di Tozzi non è l’osannato Le tre croci che prende in considerazione ma il minore Con gli occhi chiusi, una sorta di autobiografia pubblicata postuma in una versione sfrondata di tutte le parti che al curatore (che poi era Borgese) erano sembrate inutili per lo sviluppo coerente del racconto. Ma è proprio in queste parti tergiversanti, inessenziali, marginali e inutili che Debenedetti vede i segni della novità, scopre la conversione da un approccio narrativo di tipo naturalistico a un attacco, come Debenedetti stesso scrive, essenzialmente espressionistico. « L’originalità di Con gli occhi chiusi è di presentarsi come un resoconto del mondo quale esso appare a chi non possiede i criteri razionali e generalmente accettati per vederlo nei suoi motivi e concatenamenti naturalistici. Cosicché la sua oggettività, appunto perché irrefutabile e innegabile, si presenta spaventosa, perché l’uomo che la constata non ha imparato a regolarsi di fronte a quegli oggetti. »

Ma se è Tozzi all’origine del romanzo nuovo, Debenedetti non si nasconde che chi lo vive e lo interpreta con tutta consapevolezza è Luigi Pirandello. Infatti, precisa poi Debenedetti, mentre in Tozzi « c’è il dolore, la pena di non poter più guardare naturalisticamente il mondo », in Pirandello non vi è più alcuna nostalgia, ma soltanto odio e furore per un mondo che dietro la sua apparente armonia e professato razionalismo nasconde il seppellimento della verità, la censura delle emozioni più autentiche, la neutralizzazione dell’energia vitale, se pur incolta e oscura, dell’uomo.

E insieme a Pirandello è ovviamente in Svevo che Debenedetti indica l’altro grande interprete italiano del romanzo nuovo, in Svevo che con La coscienza di Zeno apre la narrativa del nostro paese all’incompletezza e alla frammentarietà del reale, ai disguidi sentimentali, agli scompensi e alle difformità del mondo che hanno già trovato posto o stanno per trovare posto nelle opere dei due anzi dei tre (Joyce e Proust e con loro Kafka) grandi capostipiti del romanzo moderno europeo.

Ma non è tanto la pertinenza dei giudizi, la sicurezza di valutazione, la capacità di dare a ognuno ciò che si merita che più ci stupisce e ammiriamo in Debenedetti. Le sue analisi così penetranti, i suoi scavi così profondi, le sue ricerche a raggio così ampio non sono tanto ragguardevoli perché fanno giustizia (rendono giustizia) a Tozzi, Pirandello, Svevo o a chiunque altro si faccia oggetto della sua attenzione. Sì, anche; ma non è questo il tratto più significativo, tanto che non ci stancano – pur se in altro contesto non sopporteremmo – nemmeno le centinaia e centinaia di pagine riservate a Federigo Tozzi. Le sue analisi più che a Tozzi, Pirandello o Svevo fanno giustizia alla storia della letteratura, anzi alla storia della modernità, anzi alla storia tout court. Portano in chiaro il processo di rivoluzione antropologica di cui l’Europa è stata teatro tra l’Ottocento e il Novecento.

La fine del naturalismo non conclude soltanto un modo di fare letteratura per aprirne un altro, ma segna anche la nascita di un nuovo modo di essere uomo, una nuova fase dell’esistenza che, per ognuno degli aspetti in cui si manifesta, lascia affiorare e fa valere tutto ciò che fino allora aveva tenuto nascosto, scoprendo l’invisibile contro l’apparente, l’infinitesimale contro il macroscopico, l’impercettibile contro il sensibile, l’inconscio contro il conscio. Per la prima volta nella storia l’uomo scopre, conosce e frequenta l’altra parte di sé che, fino allora, come l’altra faccia della luna, era stata solo immaginata e magari aveva servito da nutrimento alle fantasie della paura e dell’inferno. Debenedetti attraverso l’analisi del romanzo del Novecento racconta il destino di questo uomo nuovo, tanto più potente e padrone di sé quanto più infelice, tanto più capace quanto più solo, tanto più consapevole quanto più smarrito; racconta le eccitanti ma anche frustranti avventure di questo uomo nuovo, che nel momento in cui si accorge di non avere più limiti e avanza travolgendo ogni ostacolo scopre di avere il limite (la malattia, l’orrore) della sua inutilità. Malattia inguaribile, che sopravvive alle sue vittime. Condanna irrimediabile per l’umanità. Certo irrimediabile; a meno che, ci ricorda Debenedetti, non si voglia (o tanto più se si voglia?) dar credito, in un moto di disperazione senza ritorno, alle parole con cui Svevo chiude La coscienza di Zeno: « Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un “esplosivo” incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. E un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie » . Parole davvero inquietanti queste che marcano il finale del maggior romanzo di Svevo, e tanto più inquietanti in quanto sono state pensate e scritte negli ultimi anni della prima guerra mondiale quando la scoperta della fissione dell’atomo era ancora lontana. Ma tant’è! Anche di questo sono capaci i grandi scrittori. E a questa categoria appartiene anche il Nostro.

Debenedetti interroga la letteratura come il filosofo interroga il pensiero e lo scienziato la realtà. Con felice illuminazione Pasolini affermava che Debenedetti « interroga la letteratura e i suoi testi facendone un simulacro della realtà ». Sicché non vi è differenza, tra lui, il filosofo e lo scienziato. Ancora Pasolini diceva che egli (Debenedetti) è complice degli autori che legge e commenta. Insieme scoprono il mondo. E per accedere alla scoperta, che sempre si dà e sempre si sottrae, Debenedetti utilizza tutti gli strumenti (le letture) possibili, senza privilegiarne alcuno. Così non esita ad affiancare all’indagine testuale quella psicanalitica, quella linguistica, quella strutturale, quella stilistica, quella filosofica; e Pasolini può dire, ancora felicemente, che Debenedetti ha il metodo di non avere nessun metodo. Voleva dire che Debenedetti non ha voluto correre il rischio di essere facilmente compreso e, interessato a cogliere il massimo della conoscenza, ha sfidato, come sanno fare solo i grandi uomini, i danni dell’ingratitudine e le offese della irriconoscenza.