Le “Cronache letterarie” su “l’Unità”

di Ottavio Cecchi

Personaggi destino romanzo

Tra il 1946 e il 1948, Giacomo Debenedetti tenne sull’ “Unità” una rubrica saltuariamente intitolata Cronache letterarie. Se oggi si scorrono alcuni di quegli articoli, si trova materia di riflessione, primo, sul laboratorio del saggio Personaggi e destino che è del 1947, secondo, su una ricerca intorno al romanzo, come confronto tra personaggio e destino, in evidente disaccordo con l’ideologia, allora corrente e trionfante, del neorealismo. Converrà cominciare da un articolo su Antonio Gramsci.

    1.     Per molto tempo siamo andati alla ricerca del metodo critico di Debenedetti e, alla fine, abbiamo scoperto che non un metodo era quello a cui egli si affidava, ma un proustiano “interrogatorio di gelosia”. Oggi rileggiamo con particolare attenzione lo scritto del 1° giugno 1947 (una recensione scritta in occasione dell’uscita delle Lettere dal carcere) intitolato Gramsci uomo classico. Qui è Debenedetti che cerca il metodo di Gramsci e lo trova nelle Lettere. È il “metodo umano’”. Vediamo che cosa vuol dire.
Debenedetti trova il metodo umano di Gramsci, cercando le ragioni della predilezione di Grarnsci stesso per la filologia. La filologia, ci dice Debenedetti, è

soprattutto un metodo, fondato principalmente su due regole. Primo: non abbandonare la ricerca finché non si siano raggiunti tutti i dati possibili: monumenti, notizie, documenti. Secondo: nel decidersi alle conclusioni, non prescindere mai da nessuno di quei dati. Nel vero filologo questo abito intintale si converte in un abito morale: il bisogno di procurarsi tutti gli elementi diventa uno scrupolo, duello di dare ascolto a tutti, un dovere.

E così conclude:

Il metodo umano che Gramsci ci propone. non è altro che il metodo della filologia, allargato su tutta la estensione del vivere. Cioè: tener conto di tutti i fattori che compongono l’uomo; non sentirsi mai il diritto, o l’arroganza, di trascurarne alcuno.

Ma non è questo l’interrogatorio di gelosia al quale Debenedetti ha sottoposto i suoi autori, da Proust a Montaigne, a Pirandello, a Moravia, a Joyce, a Saba, a Svevo?…

Ma in quel breve scritto, in quella recensione di due colonne c’è un’intuizione controcorrente se si tiene conto delle certezze e dei profetismi neorealisti di allora: egli ci dice all’improvviso che è il tempo l’elemento in cui si avventura (ricordate il sommozzatore della radiorecita sul proustiano Jean Santeuil?) la letteratura del nostro secolo; ci dice che in Gramsci, rinchiuso nel breve spazio di una cella, il tempo diviene la dimensione in cui egli può muoversi. È la sola direzione « lungo la quale l’uomo procede alla scoperta e all’analisi di se stesso ». Da attento filologo, scopre la parola che più spesso ricorre nelle Lettere: è molecola, la sensazione molecolare: « Per arrivare a percepire le cose nel loro tutto complesso [Gramsci] ha sempre avuto bisogno della sensazione molecolare ». La segregazione abolisce l’accidentale e il transitorio e conduce il prigioniero « a determinare i motivi essenziali e permanenti della vita ». Questo per quanto concerne la prima regola del metodo: possesso completo di tutte le molecole. Rimane la seconda regola: non prescindere da nessuna delle molecole. « Il pericolo è che qualcuna di esse tenti prevalere, instaurare. una sconsigliata egemonia in frode di tutte le altre, a scapito del tutto complesso. »

Quest’uomo classico che cerca in sé e riconosce tutte le componenti dell’uomo, impegnandole in una collaborazione organica, quest’uomo che rifiuta « la retorica delle false “rotture”, delle rivoluzioni e ribellioni cervellotiche » richiama ancora una volta l’interrogatorio di gelosia, il tutto complesso, le due regole della filologia (che diventano regole morali e politiche: il vecchio massimalismo ne esce sconfitto) alle quali si attenne anche Debenedetti.
    2.     Questa lettura di Gramsci si discostava molto (per non dire che non aveva niente a che fare) dalle interpretazioni storicistiche. Molto lontana dallo storicismo e – per quanto attiene alla letteratura e alle arti, cinema non escluso – dal neorealismo, era la lettura debenedettiana delle opere che, in quegli anni, uscivano sotto le insegne del neorealismo. In un articolo sul romanzo Pane duro di Silvio Micheli, romanzo insignito del Premio Viareggio, con quell’ironia e quella grazia con le quali egli riusciva a mantenersi ugualtnente lontano dai cori delle lodi e dal loro risvolti uguali e contrari, i falsi controcanti delle stroncature, ci diceva come e perché quel romanzo, eletto a simbolo e indicato a esempio, non fosse un romanzo. E scriveva, in una ventina di righe, una piccola teoria del romanzo.

La parola chiave è sincerità. Micheli è sincero, ma la sua sincerità non è quella buona per fare un romanzo. C’è un’altra sincerità, diciamo noi andando un po’ per le spicce, che coincide con l’insincerità. Nel romanzo di Micheli – soggiungiamo: nei romanzi del neorealismo; e di nuovo e volentieri allargheremmo il discorso fino a comprendervi il cinema di allora – non si muove un Giobbe che senta il bisogno di chiamare in causa Dio, non solo quello che è nei cieli

ma anche quello oscuro dentro di noi, che getta il suo buio sui nostri atti, facendoli nascere inesplicabilmente ostili a noi stessi. Che ci fa apparire i disastri e gli sbandamenti del nostro destino come altrettanti rimorsi. In quest’ordine di idee, la vocazione della sincerità diventerebbe più difficile da assecondare. Qualcosa rimarrebbe fuori, che di sé non lascia trapelare altro che il sospetto.

Ed eccoci, dopo questo preambolo, alla piccola teoria (o eresia, dati i tempi):

Molti scrittori, e proprio tra i massimi, hanno seguito il filo di questo sospetto: E sono arrivati ai confini della regione, che Micheli percorre lungo gli orli esterni, e hanno applicato l’orecchio alla muraglia. Voci ne giungevano, che sembravano pervenire da presenze, da eventi capaci, per un attimo, di appurare il significato dell’esistenza, di rendere accessibile il rapporto tra i sentimenti, tra gli atti degli uomini e il loro destino. Ma quelle voci, non appena si cercasse di captarle, ma quelle presenze, non appena si tentasse di dargli corpo, rifiutavano di varcare la muraglia, se non sotto travestimento: come naturalizzate, come mimetizzate con le apparenze consuete di qua dai confini. Serbavano la loro forza di rivelazione, a patto di poterla nascondere dentro personaggi fatti a nostra immagine e somiglianza (per es. Orfeo, Edipo, Don Giovanni, Julien Sorel, i Karamazov ecc.). La sincerità degli artisti, in questo caso, consiste nel rispettare i travestimenti. È una sincerità indiretta e, per così dire, di secondo grado, obbligata a farsi complice di una dissimulazione. È la sincerità degli autentici romanzieri. La sincerità di un Micheli è invece di pruno grado, a due sole dimensioni, ignora quella terza che si affonda oltre la muraglia. Gli permette di commuoverci, coinvolgerci in ciò che racconta, farcelo credere: ma è proprio lei che gli ha impedito, stavolta, di scrivere quello che si chiana un romanzo.

L’oscuro Dio che è dentro di noi mancava in quei romanzi: mancava un Giobbe che lo chiamasse in causa, mancavano i “travestimenti”. Mancava, in poche parole, la grande cultura europea del secolo.

    3.     Nelle. cronache letterarie debenedettiane sull’ “Unità”, è facile rintracciare una marcata vena ironica. Passando in rassegna i romanzi di quegli anni, Debenedetti riusciva a dirci, per le vie traverse dell’ironia, che quei romanzi non erano certo l’ideale che egli perseguiva. Ma ugualmente li interrogava, perché quello offriva la piazza e quello doveva essere preso in considerazione.

Nel ’47, quando uscì Il cielo è rosso di Giuseppe Berto, dopo aver tergiversato sul tenero e sul ruvido (« Ma quanto tenero ancora, quanto miele e zucchero e saccarina ancora si continua a contrabbandare attraverso le rocciose frontiere del Ruvido » ), diceva apertamente al lettore quale fosse per lui il « compito di ogni romanzo » : « istituire quel confronto tra le creature e la misteriosa, inderogabile piega dei loro destini ». Non assolveva questo compito il libro di Berto, che offriva invece « materia predigerita dal cinema » . E il discorso andava subito al cuore del problema.

Debenedetti, parlando di Berto, sconfinava vistosamente. Varrebbe la pena di soffermarsi sul confronto col cinema che risultava dall’analisi della frase manzoniana la sventurata rispose, condotta parallelamente a un incresparsi delle labbra di un personaggio femminile di Berto. Dice: « La sventurata rispose è un destino condensato e travolto in un atto; il labbro di Carla è un gesto ritagliato nella trasparenza della celluloide. Quello è uno scorcio, questa è una scorciatoia » . Né quel compito di istituire un confronto tra le creature e la piega dei loro destini pareva assolto in un libro ampiamente celebrato e sottoposto invece a interrogatorio da Debenedetti: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. E vedremo poi perché prendiamo subito in esame la recensione a Flaiano e poi quella a Pietà contro pietà di Guido Piovene. La recensione a Flaiano è articolata come un dibattito tra l’autore, uno psicologo e il critico. L’interrogatorio dà ancora una volta esito negativo. Bravo Flaiano, esclama lo psicologo. Ma il critico interviene: romanziere Flaiano? Più che romanziere è un intelligente cicerone di un giro in un labirinto di cui egli conosce bene l’entrata, il percorso e l’uscita. Flaiano è « uomo singolarmente spiritoso » ma, soggiungeva il critico, « abbiamo il sospetto che sia slittato sul giuoco di parole tra enigmatica naturale ed enigmistica ».

A un primo sguardo, pare che lo convinca Pietà contro pietà di Piovene (1946), perché quel confronto tra le creature e il loro misterioso destino può sembrare che finalmente si istituisca. Ma non è così. La recensione è preziosa perché ci dice che cosa fosse, per Debenedetti, quel confronto.

Direi che assistiamo a uno sdoppiamento tra il piano della esistenza e quello del destino: inteso il primo come la scena su cui crediamo poterci manovrare quali marionette di cui teniamo noi medesimi i fili; il secondo come il centro dove i nodi si serrano e la commedia, volente o nolente, prende il suo senso finale.

Riconnettere i due piani: ecco che cosa deve fare il romanziere; ed è quello che ci interessa sapere, perché illumina tutto il discorso critico di Debenedetti sul romanzo.

    4.     In un articolo sul Diario 1940-44 di Sibilla Aleramo si legge:

C’è modo e modo, per uno scrittore, di essere autentico, cioè di garantire la pagina con la vita. Per certuni l’autenticità si produce come una specie di secrezione fisica: la sorte li travolge nel suo movimento, e loro sudano parole. Sono spesso anime belle; ma purtroppo le secrezioni finiscono in cattivi odori. Altri invece fanno letteratura del loro destino, ma per guardarlo in faccia, prendersene la responsabilità. Sibilla appartiene a questa seconda specie. È una solerte, intrepida, vigilante operaia del proprio destino.

Garantire dunque la pagina con la vita: è questo il legame tra lo scrittore, il suo personaggio e il destino.

II tema insiste, torna e ritorna. Quando esce il libro di Maria Bellonci, I segreti dei Gonzaga, che è del 1947, Debenedetti nota che. i personaggi si propongono alla Bellonci (la frase è della scrittrice, ma Debenedetti la prende di peso dalla pagina) come « lievitazione di storie e di destini ». Quale debba essere il lavoro del drammaturgo e del romanziere è detto esplicitamente in quell’articolo: « indicare le figure permanenti del destino sotto l’arabesco delle storie individuali, varie quanto sono vari gli uomini ». Drammaturgo e romanziere corrono i loro rischi: « Rischiano, coi loro personaggi, l’ignoto del domani, se non altro perché lo inventano, e dunque corrono il pericolo di sbagliarlo ».

    5.     Domenica 13 aprile 1947. Debenedetti si sofferma sul romanzo Il pianto del figlio di Lais di Riccardo Bacchelli. Si meraviglia un poco del fatto che Bacchelli sia andato a cercare nel secondo libro di Samuele la materia e i personaggi del suo libro. Poi elogia lo scrittore, così dotato, così bravo. E all’improvviso scrive: « Come succede poi che con tanta profusione d’ingegno e così largo spiegamento di mezzi, non riesca mai nella pienezza di risultati che si meriterebbe? ». La risposta è altrettanto improvvisa e secca. È un’altra domanda: « Che cosa non ha capito Bacelielli mettendo il suo romanzo sul conto della Bibbia? ».

Non ha capito che « le antiche favole e leggende sono eccellenti medicine dell’anima » perché offrono « già trasparenti, già pronte ad accogliere le infermità del cuore – le grandi immagini del destino ». Quel che segue illumina ulteriormente il discorso sui personaggi e il loro destino. Dice che Bacchelli note giunge « al nudo fondo dell’essere », dove le favole risorgono « con la loro ingenua e sapiente forza rivelatrice, quali nacquero la prima volta nell’uomo ancora sprovvisto di sussidi mentali. ragioni, scienze, culture, opinioni capaci di addomesticare i suoi smarrimenti ». Orfeo, dice, scende solo per i baratri dell’inferno a cercarvi Euridice, « questa figura della sua sorte ». Bacchelli invece si porta dietro civiltà, costumi, tradizioni: insomma, non è mai solo. L’ironia è. graffiante: Bacchelli così provvisto di mezzi e compagnie, non può capire la solitudine di Orfeo, né che cosa rappresenti per lui Euridice, figura del suo destino.

    6.     Quando esce La Romana di Moravia (1947) Debenedetti trova finalmente un romanziere che tenta di inscenare il confronto tra personaggi e destino. La madre che « inventa la finzione di ignorare » la figlia, avviata anche per opera sua alla prostituzione, è un personaggio che piace a Debenedetti perché promette quel confronto. È attraverso la madre (che qui non è, come in Bilenchi, e lo vedremo, il tramite tra il bambino e la terra) che si scatenano tutti e sette i peccati.

Il critico li enumera dando a ciascuno il nome di un personaggio della Romana. Di Moravia, Debenedetti parlerà ampiamente nel suo Romanzo del Novecento. Nell’articolo del ’47, la ricerca di quel confronto va già in profondo, trova un intreccio diabolico – e il diavolo è evocato più volte che il critico definisce come un « viluppo di destini stretto intorno alla povera, onesta prostituta ». Pare troppo? È la domanda che Debenedetti rivolge a se stesso.

Leggiamo:

Lo parrà un po’ meno se ci si persuade che Moravia, fallitoli l’intento di riconciliarsi con l’amore [l'articolo, notiamo, comincia così: « Il grande accusato, nei romanzi e nei racconti di Moravia, è stato sempre l'amore»], è stato preso da un bisogno di ritorsione, quasi da un furore, che nei suoi effetti, nell’esemplare condanna della nefasta passione, può far pensare a quello degli asceti. Riportato alla sua più elementare struttura, al puro diagramma delle forze in gioco, La Romana sembra replicare in costume moderno una Sacra Rappresentazione quale, per ipotesi, avrebbe potuto idearla un monaco medioevale.

L’accostamento serve a Debenedetti per parlarci dei limiti contro cui il libro ha urtato. Il discorso sul rapporto tra personaggi e destino è imminente. Seguiamo Debenedetti:

Per il monaco del Medioevo, anche il male della vita entrava in un disegno provvidenziale. Quel monaco sapeva perché sulla terra alligni il peccato. Ne provava lui pure disgusto e paura, si desolava delle sue gioie infami: ma questo stesso sbigottire e desolarsi gli confermavano la promessa della redenzione, indicavano vie di salute. Tra gli atti dei personaggi e il senso finale del loro destino, regnava un rapporto evidente, addirittura logico nella sua conformità con gli scopi della Creazione. Le inquiete intelligenze moderne sono al punto di ridomandarsi daccapo se esista un simile rapporto, e quale sia.

La crisi di questo rapporto era anche la crisi d’insufficienza del romanzo. Scriveva Debenedetti:

I nostri romanzieri conoscono per esperienza diretta i loro personaggi: ma ne ignorano la vicenda e possono anche appiccicarla arbitrariamente, visto che del destino umano non posseggono se non interpretazioni provvisorie, e non sanno se la vita ci sia amica o nemica. Deplorevole condizione di squallore.

Seguiva un giudizio sul romanzo di Moravia: romanzo « scritto da un maestro », dice, che non viene tuttavia a capo dei problemi che assillano lo scrittore. E forse si può cogliere una reticenza, in questo giudizio, o un improvviso cedimento a un certo clima culturale di allora, che non ammetteva crisi di sorta. In verità, ciò che non piaceva a Debenedetti, nel libro di Moravia, era l’incompiuto confronto tra i personaggi e quel « viluppo di destini » .

L’interrogatorio del testo, eseguito con lo scrupolo del filologo (si ricordi il “metodo umano” che Debenedetti attribuì a Gramsci, quel metodo filologico che prescrive di non abbandonare mai la ricerca finché non si siano raggiunti tutti i dati possibili e di non prescindere da nessuno di questi dati), non esita a spingere in scena quel monaco e, subito dopo, gli intellettuali della vigilia pre-cristiana, i quali « ricorrevano alle pratiche della iniziazione, che erano la via per giungere oltre il velo, nella cella del dio » per « penetrare l’enigma del destino ». Quel monaco e quegli intellettuali diventavano personaggi del critico: e il critico li poneva subito a confronto con il destino. Poi torna a Moravia e dice:

Quello che allora l’iniziando si assumeva per sé solo sembra oggi divenuto il compito degli artisti, con la differenza che essi debbono percorrere a nome di tutti, sotto l’assillo degli interrogativi comuni, la via difficoltosa. La più grave prova dell’iniziazione era la “piccola morte”, specie di estinzione transitoria del corpo, dell’anima, dello spirito, di là dalla quale si conseguiva la seconda nascita, liberi ormai dalle tristezze della carne, puri, trasparenti al significato della vita.

Quello che non convinceva Debenedetti, nel romanzo di Moravia, era un rifiuto: « Direi che Moravia si rifiuta, e insieme sottrae il suo romanzo, proprio alla “piccola morte” ». Ossia: non basta la destrezza narrativa, non basta ammazzare i personaggi. Il romanziere giunge solo in apparenza oltre il velo. In verità non accede alla cella del dio, non tenta l’enigma del destino.

    7.     Una legittima e possibile ricerca di fantastico e di mitico Debenedetti la tentò in Vittorini. In un tempo di realismo normativo (ci sia consentita questa definizione: che altro si cercò di trasmettere, se non norme, regole, e modelli di futuro, con i realismi di quel tempo?) il fantastico e il mitico erano se mai da esorcizzare, ad ogni modo da respingere. La ricerca avviene in un articolo intitolato Vittorini e l’isola, uscito l’8 giugno del 1947. Debenedetti vi interrogava La mia guerra di Vittorini, dove Gorizia appare « circondata dai marosi della guerra » . Dunque, Gorizia come un’isola. Da questa isola, Debenedetti, sviluppando l’interrogatorio del testo, risaliva al « luogo naturale di ogni racconto o romanzo d’avventura: l’isola » . L’esempio classico era da cercare nell’Odissea e l’esempio moderno nel Robinson: « … queste isole – precisava il critico – sono soggette ad alcune condizioni: debbono, per esempio, risultare compatibili col nostro mappamondo, come le conosciamo o supponiamo, non mai essere inventate a scorno della geografia; ma poi subito, ad avventura consumata, rendersi irreperibili ».

Dov’è il fantastico? Il fantastico non consiste nell’inventare un luogo e una peripezia, ma nel decretare e riconoscere l’irreperibilità di quel luogo e l’irredimibilità di quell’avventura. Il « senso delle cose senza ritorno » era nel profondo dell’opera vittoriniana, che tendeva all’isola, a creare un’isola. Questo senso delle cose senza ritorno e questo discorso sull’isola non potevano essere graditi, o capiti, dai teorici del realismo. A quei teorici mancavano i necessari strumenti di bordo per navigare alla volta delle isole: che erano gli dèi, ed ecco il mito, le tempeste e i colpi di mare, come nell’Odissea, e il naufragio come nel Robinson. Vittorini tendeva all’isola, ci diceva Debenedetti trasfigurando Vittorini stesso, e quest’isola combaciava solo in parte col nostro mappamondo, in particolare con la Sicilia: a fare della Sicilia un’isola fantastica era il suono di un “piffero interno”. In Vittorini si incontravano « due sorti del personaggio destinato all’avventura: il naufragio e la deriva. Del naufragio egli ha il disperato dibattersi (gli “astratti furori” per “il genere umano perduto”), dell’uomo alla deriva ha l’attonita inerzia (“la quiete nella non speranza”) ». E un’isola appariva a Debenedetti anche la Milano di Uomini e no.

Una domanda, a questo punto, s’imponeva, perché non bastava avere cercato il fantastico sul mappamondo e nelle immagini suggerite dal suono del piffero interno, e la domanda era questa: come si vedono, dove sono le isole? La parola-chiave era primordio. « Il primordio individuale di ciascuno ripete il primordio collettivo della specie umana ». « [...] Le isole sono isole di primordio. I romanzi di Vittorini sono l’avventura di alcune immagini originarie su isole di primordio. »

Era, a quei tempi, come bestemmiare. Ma Debenedetti pronunziava la sua bestemmia fino in fondo, offrendo un’eretica definizione di romanzo (a questo tendevano le sue ricerche sugli autori “interrogati” in quegli anni) : « Il romanzo, da quando è nato, è favola delle grandi immagini psicologiche, interrogazione del destino come si presenta agli uomini del tempo » .

Il confronto tra il personaggio e il viluppo di destini era sotto lo sguardo del critico.

Domenica 1° dicembre 1946. In un articolo su Vitaliano Brancati, Brancati e la diffidenza, aveva scritto che il comico in Brancati « scaturisce da una rinunzia ad essere personaggi, cioè figure di un destino, per diventare caricature, cioè manichini di un gesto ».

    8.     Le isole, il primordio, la madre. C’è un saggio di Giacomo Debenedetti del luglio 1946, intitolato Il laboratorio di Bilenchi, nel quale si legge che « tra i motivi di Bilenchi, uno dei più insistiti è quello del bambino che si mette in comunione con la terra per il tramite della madre » . Era appena uscita la seconda edizione di Mio cugino Andrea e Debenedetti, scrivendo di questo racconto, svolgeva un discorso che ancora illumina l’opera bilenchiana. La terra e la madre, le due nutrici. (La madre che, per prima, trasforma e offre al figlio i frutti della terra tornerà dell’articolo sul romanzo L’età breve di Corrado Alvaro.) Il motivo bilenchiano, « dai racconti passa nei primi capitoli del Conservatorio, che lo sviluppano fin quasi a renderlo momentaneamente esausto: il protagonista Sergio si sente più o meno disposto a riceverne equilibrio o benessere o turbamento, a seconda che la madre, quando lo accompagna sulle colline o al fiume, gli si dimostra più o meno amica ».

La madre è la donna giovane e bella che traversa i libri di Bilenchi, i racconti, i romanzi. Il bisogno che il bambino ha della madre, insisteva Debenedetti, rasenta la trasgressione per innocenza. In Anna e Bruno, Bruno si innamora di Anna. Ma in Bruno, l’amore non sa neppure di chiamarsi così, di essere un’aberrazione. L’amore del bambino o del ragazzo di Bilenchi, la sua innocenza animale, « un’innocenza quasi da primordio », è una « pretesa a un diritto esclusivo sui benefici che la madre può offrire ».

Nel racconto Mio cugino Andrea, il vero ruolo di protagonista è sostenuto infatti dalla madre. La giovane donna non è presente dal principio alla fine, anzi, compare in piena luce all’inizio e alla conclusione, ma all’inizio è lontana dal figlio mentre alla fine è vicina: è complice. Inseguendo il cugino Andrea, il ragazzo non fa altro che inseguire, per riconquistarla al suo amore, la madre che non gioca con lui ma con Andrea. È con Andrea la schermaglia: « … e si vendicava dandogli scapaccioni, facendogli paura nelle stanze buie o su per le scale, e con altri innumerevoli dispetti. Ne nascevano dei battibecchi, delle lotte faticose da cui Andrea usciva sempre vincitore e la mamma imbronciata come una bambina ». Il buffo Andrea avrà la peggio, il ragazzo riconquisterà la madre; e il segno della vittoria è quel sussurro finale. Andrea lo chiama dal fondo delle scale, ma il ragazzo dice “piano” alla madre di rispondere che non è in casa. È indispensabile che la madre gli sia amica, perché se gli è nemica tutto il mondo gli è avverso e l’equilibrio e il benessere si mutano in turbamento, in timore, persino in paura.

Il ragazzo ha bisogno della madre perché ha paura di crescere. Ha quattro anni più di Andrea, che ne ha dodici. Quindi ha sedici anni, sta per entrare nel mondo adulto. Senza l’amicizia della madre non compirà il passo che lo liberi dalla sua innocenza di bambino, un’innocenza che lo fa sentire bambino come Andrea, perché è geloso della madre e perché il mondo degli adulti non gli piace. Non gli piace negli altri e non gli piace in Andrea che, a dodici anni, è già uomo, troppo uomo, è già abile, furbo, commediante, non solo buffo: « degli uomini aveva la risoluta malvagità ». Qui è il momento della svolta, l’amicizia cede al timore: « Ebbi timore di lui e salii in casa correndo ».

Il rifiuto, inutile, di crescere segna un percorso di questo racconto. II ritrovamento delle due nutrici, la madre e la terra, la riconquista della madre come amica e tramite, daranno forse coraggio all’adolescente, o forse no. Ma è proprio a questa soglia che il racconto finisce. Intanto l’itinerario dell’adolescente bambino, l’amicizia, l’affetto per Andrea e poi la caduta di questi sentimenti hanno portato il lettore nel cuore vivo della narrativa di Bilenchi: il bisogno dell’amicizia della madre, e Debenedetti aveva visto giusto, la fedeltà all’amicizia, che ritroveremo molto più tardi in Amici, la malvagità del mondo adulto., che troviamo anche in Mio cugino Andrea. Quell’autobiografia della provincia toscana di cui ha parlato Gianfranco Contini è scritta anche in questo racconto. Andrea è un furbo procacciatore di denaro: e il denaro conta molto, ha sempre contato molto nella provincia toscana. È il denaro che fa troppo uomo, troppo adulto, il bambino Andrea, è. il denaro che lo guasta e lo allontana dal cugino.

I due itinerari, quello del bambino troppo uomo e duello dell’adolescente bambino, sono tracciati in Mio cugino Andrea con asciutta precisione. Bilenchi non ha bisogno di fare psicologia. Racconta, come Kafka, il percorso, sono parole sue, misterioso e disperato della vita: si confronta con il destino, inteso come « centro – dice Debenedetti – dove i nodi si serrano e la commedia, volente o nolente, prende il suo senso finale » .

    9.     Gli articoli ruotano, tutti, intorno alla ricerca di un confronto tra il personaggio e il suo destino. Il saggio Personaggi e destino è del 1947. Come leggerlo oggi? Debenedetti, cercando quel confronto e, nel tempo stesso, una definizione di destino, ci diceva intanto che rispetto alla vecchia epica (la narrativa, il teatro) c’era di nuovo che i fatti aggredivano il personaggio in maniera inattesa. « Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l’uomo e il suo destino. »

La ricerca condotta in quegli articoli pare acquietarsi in una convinzione: quel rapporto non c’è perché non ci può essere. In Proust, in Pirandello e in Joyce i personaggi avevano consumato la loro rivolta. li padre era morto – ma il saggio del ’4? si chiudeva con un augurio di resurrezione – e solo Franz Kafka si era adattato all’orfanezza. Anzi, « della propria orfanezza e della propria solitudine » aveva fatto « la sua nuova condizione umana » : « e non va – concludeva Debenedetti – a raccontarla all’ombra del padre ». Paradossalmente: da questo rifiuto di raccontare, nasceva, con Kafka, un diverso modo di raccontare. Ma qui si aprirebbe un altro discorso.