di Mario Lavagetto
Il vero aneddoto è già di per se stesso poetico
Novalis
Giacomo Debenedetti amava gli aneddoti e se ne serviva con l’intelligenza e la libertà di un grande lettore di Montaigne. Uno gli era particolarmente caro e lo interrogò in due diverse occasioni: lo aveva raccontato, nel 1923, Reynaldo Hahn sul numero speciale della “Nouvelle Revue Francaise” dedicato a Marcel Proust.
Un giorno Proust passeggiava con Hahn per il giardino di una villa [chateau]. Il viale lungo cui camminavano era costeggiato da una siepe di rose del Bengala. Proust si fermò un momento a guardare la siepe, indi riprese il cammino. Poco dopo, come punto da un rimorso [sottolineatura mia] si fermò e « con la dolcezza infantile e un poco triste che egli sempre serbò nel tono e nella voce », disse al compagno: « Vi dispiace se rimango un po’ indietro? Vorrei rivedere il roseto ». Hahn ebbe il tempo di fare parecchi giri e sempre, volgendosi, ritrovava Proust fermo davanti alle rose. « Con capochino e volto grave, socchiudeva gli occhi, tenendo i sopraccigli lievemente aggrottati come in uno sforzo di appassionata attenzione, mentre con la mano sinistra introduceva ostinatamente tra le labbra l’estremità dei suoi baffetti neri che veniva mordicchiando. » (1)
Debenedetti riprende l’aneddoto una prima volta nella Commemorazione di Proust, che è del 1928, e torna a raccontarlo, con parole quasi identiche, 25 anni dopo, nelle lezioni sul romanzo del 1962-63.
La “storia”, poiché di una storia si tratta, comincia nel 1925, quando appena ventiquattrenne Debenedetti, scrive il primo dei suoi saggi proustiani. Dell’aneddoto non si serve, ma sicuramente lo ha già letto: lo prova una serie di prelievi clandestini dall’ Hommage a Marcel Proust, (2) che non viene mai citato in modo esplicito.
Al posto di quell’aneddoto, nel saggio Proust 1925 si trova (più correttamente, direbbero alcuni) uno degli episodi di cui quell’aneddoto (se e vero) costituirebbe
« null’altro che una anticipazione nella vita ».
Debenedetti parla dei
« biancospini fioriti di Balbec »,
che
« non si contentano di costeggiare decorativamente la strada lungo la quale il giovane protagonista passeggia »,
e
« si mettono a dialogare con lui, a interrogarlo e a rispondergli, a to invitano a ritornare her la fioritura dell’anno prossimo ».
Non ci sarebbe ragione di insistere sulla omissions o la dimenticanza o l’intenzionale non-uso dell’aneddoto da cui sono partito, se non fosse possibile dire che, in ogni caso, nello scritto del 1925 quell’aneddoto non avrebbe potuto figurare: avrebbe contraddetto un assunto teorico (estetico si sarebbe detto allora) pronunciato in modo perentorio e ripetuto sommessamente da Debenedetti. Tra le critiche mosse a Proust, leggiamo, c’è quella di avere violato una delle norme fondamentali del romanzo, che impedisce di scorgervi
« se non viziosamente – a titolo di indiscrezione o di pettegolezzo – eventuali documenti della vita dell’autore ».
Accusa ingiustificata, se mai ce ne furono, dal momento che Proust, dice Debenedetti, non ha scrìtto il romanzo della memoria. Ma per infondata che sia l’imputazione la norma è giusta: cercare in un’opera documenti e tracce della biografia non può che obbedire a indiscrezione e pettegolezzo. Se un critico, lasciamo che lo dica Croce, sa il fatto suo, deve prima di tutto
« scartare le notizie e i documenti che riguardano unicamente la vita privata del poeta »
e si guarderà bone da qualsiasi possibile contaminazione della ”personalità poetica” con “la personalità pratica”. (3)
Molti anni più tardi Debenedetti scrisse un saggio splendido, e a cui farò ancora ricorso, intitolato Probabile autobiografia di una generazione, dove spiega come un giovane critico, che si fosse formato negli anni Venti, non potesse esimersi dalla necessità di passare alla cassa e di presentare il conto a Croce, perché confermasse il pagamento e la regolarità delle operazioni. II problema era ancora più difficile quando si metteva mano a uno di quegli autori che Croce avrebbe liquidato in poche righe, abbattendo su di lui la scure della sua olimpica e imperturbabile competenza: Proust, ai suoi occhi, fu un epigono, “più complicato e meno geniale”, di Maupassant.
Beato lui, forse. Meno beati, certamente, gli apprendisti: quelli che dovevano dimostrare, testi alla mano, di sapere il fatto loro. Nel 1928 il pagamento di Debenedetti è altrettanto puntuale, forse anche più trasparente, ma effettuato su un modulo diverso. Arrivato a parlare della “amoralità”, che alcuni lettori avevano imputato al romanzo di Proust, Debenedetti perora di fronte al suo pubblico l’assoluzione con una formula perfettamente (crocianamente) ortodossa, anche se offerta tra le tacite virgolette di un condizionale.
« Si potrebbe anche rispondere molto semplicemente, a queste critiche, che l’opera è di poesia: e che la poesia, quand’è poesia, è sempre morale, sempre costruttiva. »
Ma questa volta la biografia viene utilizzata a man bassa: è come se Debenedetti si facesse rilasciare l’autorizzazione dalla “forma-conferenza” per delineare un “ritratto in piedi” dell’autore commemorato dopo una descrizione a grandi linee di una vita “divenuta ormai leggendaria”. Debenedetti espone – verificandola sui testi – la sua tesi centrale: il protagonista della Recherche
« non è che il teatro di una serie incessante di intermittenze del cuore: le quali, susseguendosi, creano tutto il tessuto del romanzo. Egli è passività continua, passività allo stato puro »
così come la Recherche che, a dispetto del nome è
« un fenomeno puramente passivo e involontario ».
Per una conferma non c’è che da tornare circolarmente alla biografia, e Debenedetti lo fa come se concedesse ancora una volta qualcosa al proprio pubblico. Comincia proprio cosi l’episodio delle rose del Bengala. Lo racconta con le parole che ho citato e commenta:
Evidentemente in questo aneddoto si potrebbe scorgere null’altro che un’anticipazione, nella vita, dei molti episodi consimili che si producono nel romanzo, uno di quegli incontri avventurati, in cui il capriccioso vento della felicità poetica sparge il seme di tutte le églantines, e degli alberi fruttiferi in fiore e dei biancospini bianchi e rosa, “arbusti cattolici e deliziosi”, che sbocceranno come una commovente decorazione floreale lungo le pagine della Recherche. Ma l’atteggiamento di Proust. fermo con attenzione appassionata davanti le rose del Bengala, non ci deve trarre in inganno. Qui non è un Proust, che si stacchi dal compagno e dai rapporti della vita quotidiana, per concentrarsi e cercare l’essenza di quelle rose: anzi, all’opposto, è uno che si espone a farsi cercare dall’essenza delle rose. O meglio – perché fu in questo “farsi cercare” è contenuta una idea ancora troppo pronunciata di attività – è un Proust che si abbandona a lasciarsi tentare e sedurre dall’essenza di quelle rose.
A prima vista sembra che Debenedetti ci metta paradossalmente in guardia contro la possibilità di interpretare la biografia alla luce dell’opera letteraria: contro il rischio di non scorgere in questo aneddoto niente altro che un’anticipazione di uno degli episodi consimili che si trovano nella Recherche. La lettera, lo vedremo più avanti, può solo parzialmente essere citata a conferma. Debenedetti la scavalca per raggiungere Proust fermo di fronte alle rose del Bengala e intento non a cercare l’essenza delle rose, ma a lasciarsene tentare e sedurre: così trova la soluzione del rapporto tra l’autore e il personaggio che racconta e dice io: Marcel (4) vivrà continuamente in quello stato di non resistenza e di attesa (5) che Proust, dice Debenedetti, si è dovuto conquistare
« con una faticosa e quasi dolente cerimoniosità ».
Torniamo per un attimo sui nostri passi e serviamoci di una sorta di fermo-immagine per insistere su un particolare dell’aneddoto riraccontato da Debenedetti: Proust, dice,
« come punto da un rimorso, si fermò ».
Il rimorso nel racconto di Hahn non c’è. Debenedetti si serve liberamente della sua intuizione – della capacità, avrebbe detto un filosofo a lui caro, di « vedere dall’interno gli stati altrui » – per preparare l’aneddoto alla sua decifrazione. Il talento narrativo di cui Debenedetti dispone, e che spesso gli è stato riconosciuto-rimproverato, serve nella circostanza come una soma di preparazione preliminare all’esperimento di lettura.
Ce n’è abbastanza perché qualcuno denunci la sopraffazione del testo da parte della biografia e si dissoci da questa investigazione condotta, sembrerebbe,
« con la disposizione d’animo di un delegato di pubblica sicurezza o di un giudice inquisitore ».
E non importa se, nel dissociarsi, ci si crederà sulle tracce di Roland Barthes e del suo rifiuto
« di ogni irragionevole domanda rivolta dal critico all’autore, alla sua vita e alle sue intenzioni »,
e non su quelle di Croce, a cui ho ancora una volta ceduto la parola – che sta parlando e che è seguito, ancora oggi, da uno stuolo di discepoli, spesso reticenti e talvolta inconsapevoli.
Nel ’28 ci voleva, in ogni caso, un non indifferente coraggio intellettuale, e non c’è da stupirsi se, a tratti, il procedere di Debenedetti fa pensare a
« una faticosa e quasi dolente cerimoniosità »,
non motto diversa da quella di cui Proust si serve per liberarsi di Hahn: Croce era senza dubbio un più ingombrante compagno di strada se qualcuno,
« come punto da un rimorso »,
voleva staccarsi da lui a tornare sui propri passi.
Di quella cerimoniosità non c’è più traccia, quando Debenedetti, come ho anticipato, torna a raccontare l’aneddoto ai suoi studenti. Questa volta cita senza reticenze la propria fonte e rinuncia a quella specie di dandysmo critico, a cui – soprattutto nei suoi saggi giovanili – ha talvolta, con eleganza, sacrificato.
L’immagine di Proust, fermo davanti alle rose del Bengala, e in attesa di intermittenze, viene ora messa in puntigliosa sintonia con quella di Joyce davanti all’orologio della Dogana. Ma Debenedetti riprende anche, alla lettera e senza virgolette, la sua conferenza del ’28 e si concede il piacere di confermarla giocando una nuova carta: il rovesciamento delta situazione del poeta, rilevabile nell’opera di Joyce e di Proust, corrisponde – dice – a
« un parallelo rovesciamento delta concezione filosofica delta conoscenza »,
che risulta assai chiaro dalla breve e bellissima nota di Jean-Paul Sartre (del 1939) su Un ‘idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità.
Sartre dice in sostanza:
tutta la filosofia è stata finora una filosofia alimentare, e spiega: « “La mangiava con gli occhi”: questa frase, a molti altri indizi, rivelano a sufficienza l’illusione, comune al realismo e all’idealismo, secondo la quale conoscere è mangiare… tutti abbiamo creduto che lo Spirito-Ragno attirasse le cose nella sua tela, le ricoprisse di una bava bianca e lentamente le deglutisse… ». Si tratta cioè di digerire, assimilare gli oggetti trasformandoli in “contenuti di coscienza”.
E Sartre continua:
Contro la filosofia digestiva… Husserl insiste nell’affermare che non è possibile dissolvere gli oggetti nella coscienza. Voi vedete quell’albero; ma lo vedete nel luogo stesso in cui si trova, sul bordo della strada, in mezzo alla polvere, solo e contorto sotto il caldo… Esso non potrà entrare nella vostra coscienza perché non è della sua stessa natura… Conoscere è “esplodere verso”, strapparsi dall’umidiccia intimità gastrica per correre di là da sé, verso ciò che non è sé, laggiù accanto all’albero e tuttavia fuori, perché esso mi attrae e mi respinge e io non posso perdermici più di quanto l’albero non possa diluirsi in me… Husserl chiama “intenzionalità” la necessità per la coscienza di esistere come coscienza d’altro da sé ».
Una simile lettura, per quanto seducente, sollecita – come mi e accaduto di rilevare altrove – alcune obiezioni:
a) La nota di Sartre, pur essendo – come dice Debenedetti – “molto bella”, fornisce un’immagine distorta e non del tutto attendibile dell’idea husserliana di intenzionalità.
b) Gli esiti, a cui arriva Sartre nella sua nota, sono sorprendenti in rapporto all’uso che ne fa Debenedetti: « eccoci – conclude infatti Sartre – finalmente liberati da Proust »
c) L’atteggiamento di Marcel davanti ai tre alberi di Hudimesnil (ma potremmo metterlo di fronte ai biancospini o ai campanili di Combray) non combacia, o combacia solo imperfettamente con l’atteggiamento di un Proust che « non cerca l’essenza delle rose », ma si espone « a lasciarsi tentare e sedurre dall’essenza di quelle rose ». Nella Recherche – per raggiungere quegli alberi e impadronirsi della verità che in essi è celata – bisogna comprimersi, raccogliere le proprie forze e poi balzare verso di essi « o piuttosto nella direzione interiore in fondo alla quale io li vedevo in me stesso ».
Vorrei insistere su quelle perplessità, e aggiungerne altre, perché fanno affiorare alcuni elementi non transitori di una strategia che Debenedetti si guardò bene dall’elevare a sistema e che, nondimeno, costituisce una cifra molto riconoscibile.
Nel riprendere l’episodio, nel rileggerlo nel confermarlo e nell’interrogarlo con nuovi strumenti Debenedetti sembra obbedire a una tradizione che spesso, a profondità variabili, sentiamo risuonare sotto i suoi passi: aggirando i testi, va alla ricerca di qualcosa che i testi nascondono, di un senso che può essere riportato alla luce solo con un esercizio di lettura infinita e con la capziosità sottile, l’attenzione meticolosa, il gusto indiziario, il piacere per la disputa, la disquisizione e la classificazione, che caratterizzano i grandi talmudisti e che presuppongono, sul piano teorico, il riconoscimento della inesauribilità della lettera. Non credo che sia arbitrario parlare, in questo caso (ma non solo in questo), di una “ermeneutica della sollecitazione”, praticata da Debenedetti in perfetta consapevolezza e con uno strepitoso talento interpretativo. Per definirla si può ricorrere a una metafora “molto bella” che David Banon, sulle tracce di Emmanuel Levinas, ha preso in prestito dalla tradizione: ogni parola, diceva Rabbi Hayim de Volozhine, è simile a una brace da cui – soffiando con cautela e maestria – si può far sprigionare una fiamma e più le parole verranno “triturate” una per una, e vagliate, più i nostri occhi « si illumineranno del loro splendore escopriranno un contenuto insospettato ». Senza che per questo – precisa Levinas – l’esegesi dei testi si riduca « a impression e riflessi soggettivi ».
Si potrebbero portare numerosi esempi in cui Debenedetti appare impegnato, con infinite precauzioni, a soffiare sulle parole, a esplorarle, a interrogarle, a triturarle fino a portare in luce significati inattesi. Nel caso di cui ci stiamo occupando la brace, se vogliamo salvare la metafora suggerita da Levinas, è apparentemente molto fioca e quello che Debenedetti riesce a ricavarne è il frutto di una sorprendente, perfino imbarazzante spregiudicatezza. L’aneddoto potrebbe apparire a qualcuno sospetto e costruito a posteriori da Hahn sugli episodi della Recherche. E se è vero (come io credo che sia), può nascere il dubbio che sia stato Proust a costruirlo, nella propria vita quotidiana, servendosi di un altro e prestigioso modello da lui conosciuto fin dagli anni dell’adolescenza. Può darsi che io mi lasci condizionare dal platonismo implicito a più volte riconosciuto di alcune parti della Recherche, ma – fin dalla prima lettura di quell’aneddoto – mi è parso che esistesse una somiglianza sconcertante tra quel Proust, che chiede ad Hahn di lasciarlo solo davanti alle rose del Bengala, e Socrate che, dirigendosi a casa di Agatone, rivolge la stessa domanda ad Aristodemo, si apparta in un angolo e se ne resta, come è sue abitudine, immobile, con i grandi occhi sporgenti fissi su qualcosa di imprecisato: alla fine, « avendo lasciato trascorrere meno tempo di quanto era solito », quando gli altri sono già a metà della cena, Socrate li raggiunge e Agatone, scherzando, lo invita a stendersi al suo fianco, in modo da poter partecipare a sua volta della saggezza che è “andata incontro” all’amico. Se la somiglianza che allora mi era parso di notare non è gratuita, e se Proust si conforma, non importa se più o meno consapevolmente, a un modello suggerito da Platone, e se anche Socrate si espone a farsi “visitare”, allora le conclusioni di Debenedetti restano magari condivisibili, ma a patto di ricordare quello che diceva Wilde (e che Proust avrebbe in parte sottoscritto): e cioè che spesso è la vita ad imitare la letteratura, e non viceversa.
Tutto questo, se accettato, potrà solo rinforzare l’obiezione cruciale che abbiamo già visto affiorare e a cui Debenedetti va incontro con il suo uso scoperto e molto determinato della biografia. Non si tratta in ogni caso di un passo falso, ma di un programma. Lo dimostrano alcuni testi inediti di cui devo la conoscenza alla gentilezza di Renata Debenedetti: due quaderni probabilmente utilizzati per un corso su Proust all’Università di Messina; alcune note a margine della biografia di Proust scritta da André Maurois; un lungo saggio su 55 mezzi fogli intitolato Proust in Italia e dedicato ai problemi della traduzione; un dattiloscritto di una ventina di pagine, probabilmente redatto su “commissione” e intitolato Aspetti della biografia (già comparso su “Nuovi Argomenti”).
Appena prende la parola di fronte agli studenti per affrontare la lettura di Proust, Debenedetti sente l’esigenza di mettere le carte in tavola e dichiara:
Secondo I’estetica crociana, e la teoria e la pratica della critica d’arte che ne conseguono, il racconto della biografia sarebbe un lusso o uno svago, puramente cronachistico, pettegolo e aneddotico, per nulla indispensabile a capire l’opera di poesia venuta fuori da quella biografia.
Ma Croce, dice Debenedetti, ha ragione solo se prendiamo due versi (quelli che i « giovani scrittori venti o trent’anni fa chiamavano i “versi supremi” » ) e li isoliamo dal resto dell’opera. Se, viceversa, è l’opera nel suo insieme che vogliamo analizzare e studiare, e di cui vogliamo risolvere gli enigmi allora « la biografia è decisiva ». Certo, riconosce altrove, non è difficile escogitare obiezioni speciose: basta prendere le Metamorfosi di Kafka per rovesciare la situazione e far sembrare superflua la conoscenza della biografia. Almena in apparenza: poiché, aggiunge Debenedetti, « niente ci vieta di capire di più, e di meglio approfondire quei capolavori, attraverso i dati che ora possediamo sul loro autore ». Come dire, con Spinoza, « tanto più facilmente si possono spiegare le parole di qualcuno, quanto meglio se ne conoscono il genio e la mentalità ».
Nel caso di Proust, per giunta, la biografia si rivela da subito indispensabile e la critica se ne serve, fin dai suoi primi passi, come obbedendo « a una specie di sollecitazione misteriosa » : « la vita di Proust fu assunta, da coloro che se ne valsero per introdurre alla Recherche, come una specie di prova generate e di prima lettura ad alta voce, davanti al circolo più ristretto degli amici e dei conoscenti ». Prese forma in tal modo « una specie di agiografia, di vita di uno strano ed eterodosso Santo Padre del romanzo d’oggi » che, dopo avere dissipato la propria esistenza, raggiunge il trionfo passando attraverso “‘una prova memorabile” e chiudendosi per anni dentro una stanza, tappezzata di sughero per tenere lontani i rumori e invasa dai vapori « spessi e giallastri dei suffumigi, con cui Proust tenta di vincere le crisi di asma ». Quella stanza assume il valore di un simbolo: promuove « l’immagine di un antro di evocazioni, dove i fantasmi risorgono come da un magico condensarsi di vapori »; blindata contro il diluvio dei rumori, fa pensare a un viaggio nell’arca di Noè, a cui il giovane Proust paragonava la reclusione dovuta alla malattia. Fa pensare, potremmo aggiungere, a una tradizione che a Proust era cara e che è stata rivisitata da Jean-Pierre Vernant: alle cerimonie iniziatiche dei poeti celtici, che imponevano un lungo periodo di segregazione in una stanza buia, isolata dal moudo dove il doppio, la controfigura poetica avrebbe alla fine preso forma e conquistato il diritto alla parola, il diritto, nel caso, a farsi “vittima”, ad accettare con “gentile remissività”, l’incarico di una “réalité tyrannique”.
Il critico deve ascoltare con cautela simili tentazioni: deve – dice Debenedetti – diffidare dell’agiografia, soprattutto quando è costruita come uno “slogan per lanciare Proust”, quando – ad assumerne la regia sembra essere, in modo più o meno surrettizio, il suo stesso protagonists che quella leggenda ha ritagliato e confezionato sugli eventi della sua vita reale, ma conferendole le cadenze, il nitore, la persuasività, la paradigmatica esemplarità di un teorema critico. Proprio per questo non c’è, secondo Debenedetti., altra scelta. Bisogna assecondare quella prova generale: prima di tutto sedersi in poltrona e ascoltarla fino alla fine. « L’uso leggendario della biografia » ha rappresentato, infatti, « una scorciatoia per capire Proust ».
Senonché – continua Debenedetti – c’è un altro modo di consultare i dati biografici, per avvantaggiarsene nella comprensione dell’arte [ ...]. Ci aiuterà a spiegarci un personaggio della Recherche [ ...]: la marchesa di Villeparisis. Questa vecchia dama, imparentata con le famiglie regnanti, abbondantemente titolata per dominare nei salotti più esclusivi del Faubourg St. Germain, si è ridotta invece a una situazione mondana piuttosto ambigua [ ...]. La Marchesa deve questo parziale fallimento a certi suoi trascorsi, vissuti senza la necessaria discrezione, ansi ostentati e portati allo scandalo, quasi per una sfida contro il suo mondo. Per illuminarci sulla “fatalità” degli errori di contegno, con cui Mme de Villeparisis ha demolito la propria posizione, quanto più anelava a difenderla, Proust commenta: “Nous travaillons à tout moment à donner sa forme à notre vie, mais en copiant malgré nous comme un dessein les traits de la personne que nous sommes et non de celle qu’il nous serait agréable d’étre”. È quanto dire – commenta Debenedetti – che non si sfugge al proprio destino.
Forse le parole di Proust potrebbero essere lette in modo diverso, e non meno fedele alle sue intenzioni, dichiarando che « ognuno cerca di costruirsi la propria biografia, ma che si tratta comunque di un’opera imperfetta e destinata all’infedeltà ». Non è questo che importa: e la lettura di Debenedetti – legittima, ma premeditatamente tassativa – consente al critico di realizzare un magistrale atout. Un grande romanziere, padrone della tecnica come Conrad, sosteneva – secondo la testimonianza di Ford Madox Ford – che in un racconto riuscito ogni frase dovrebbe predisporre il lettore alla sorpresa. Debenedetti, dal canto suo, sembra avere trasferito quell’arte ai suoi racconti critici: ed è con autentica, stupefatta e ammirata sorpresa che lo vediamo ricavare da quel personaggio della Recherche un aiuto decisivo per dimostrare la necessità della biografia:
Proust si attua, in maniera particolarmente vistosa, quando è finalmente costretto a copiare i tratti della persona che egli è, dopo di avere invano tentato di copiare quelli della persona che gli sarebbe piaciuto di essere. Più ancora: tutti i tentativi per copiare la persona che gli sarebbe piaciuto di essere si risolvono in altrettante spinte – a lui invisibili e oscure, da lui ritenute averse – a copiare l’altro disegno, il vero. Ecco che la biografia di Proust ci indica, dal profondo, quella necessità della Recherche, di cui cogliamo i segni sulla pagina, attraverso la “presa” estetica che la pagina esercita su di noi.
È impossibile, io credo, non cedere al fascino, alla seduzione di questo traguardo inaspettato: tanto più inaspettato quanto più – poche righe sopra – una prima sorpresa aveva aperto la strada alla sorpresa delle conclusioni. Perché il nome di Mme de Villeparisis sembrava (era parso a me come lettore della Recherche) spingere in una direzione diversa e senza dubbio più prevedibile. Io, quel nome, to avrei fatto (mi è accaduto di farlo) per dimostrare esattamente il contrario, vale a dire la non-necessità della biografia: Mme de Villeparisis, infatti, ha avuto nella sua infanzia la ventura di conoscere Balzac e Stendhal e ha finito, in base alle apparenze mondane, alla loro goffaggine o volgarità o indiscrezione, per posporli come scrittori all’ineccepibile M. de Molé. Insomma, Mme de Villeparisis è, nel romanzo, una specie di reincarnazione parodica di Sainte-Beuve e del suo metodo che consisteva, secondo Proust, nell’acquisizione di testimonianze, di dati, di informazioni sull’autore a scapito della sua opera, (6) e portava a dimenticare che esiste una radicale, incolmabile differenza tra l’io che vive nella profondità e produce quell’opera e l’io che frequenta il mondo e si offre agli sguardi e ai rilevamenti dei suoi contemporanei: « Un livre est le produit d’un autre moi que celui que nous manifestons dans nos habitudes, dans la société, dans nos vices. Ce moi-là, si nous voulons essayer de le comprendre, c’est au fond de nous méme, en essayant de le recréer en nous, que nous pouvons y parvenir ». Proust poteva certo essere il primo ispiratore della propria agiografia, ma poi invitava drasticamente a metterla da parte al momento di leggere la sua opera come qualsiasi opera: si augurava che le sue lettere andassero distrutte e condannava ogni tentativo di lettura a chiave. Così liberarsi da Croce – che, insieme a Bremond, costituisce nello scritto Aspetti della biografia il bersaglio esplicito della polemica di Debenedetti – equivale nel caso a sbarazzarsi anche delle prescrizioni critiche di Proust. Nulla di scandaloso in tutto questo, ma il lasciapassare, che Debenedetti si procura citando Mme de Villeparisis, può apparire ancora una volta sospetto, o almeno estorto a quella che, nel caso, si presenta come l’autorità competente.
Era quasi un luogo comune. C’è, ad esempio, un bellissimo racconto di Henry James, La vita privata, scritto negli anni Novanta, in cui un grande scrittore, Claire Vawdrey, lascia che la propria spoglia si aggiri nei salotti e nei dintorni di una pensione svizzera sotto gli occhi degli ospiti, mentre indisturbato e diviso continua a scrivere nella sua stanza. Che dire se qualcuno di quegli ospiti avesse chiesto ai propri occhi e alla propria memoria i mezzi per spiegare l’opera di Vawdrey? Non era solo Croce, allora, a rifiutare la biografia in nome di un più generale rifiuto del positivisrno: cinquant’anni fa, diceva nel 1936, per procurarsi il titolo di “scienziato” bastava “ridurre tutto alla biografia”. Ma, tredici anni piu’ tardi, sarà solo lui a incarnare le posizioni da battere per una generazione di cui Debenedetti scrisse, nel 1949, la “probabile autobiografia” e che era assillata dal problema di liberarsi della sua eredità: dalle sue sordità tiranniche e intermittenti, che avevano indotto i più dotati tra gli apprendisti del tempo al tentativo, vano e paradossale, di mettere « il cornetto acustico all’Estetica ». « Volevamo uscire dal Croce per le strade da lui tracciate. » Impresa disperata, perché la « impeccabile euritmica mozartiana armonia del suo sistema » non si lasciava deformare.
Il lavoro di Debenedetti nel secondo dopoguerra può essere letto anche come una sistematica e intelligentissima, empirica ed eclettica ricerca di mezzi di evasione: l’interesse per la psicoanalisi, la sociologia, l’antropologia, la filosofia, le scienze, il marxismo corrisponde a un piano di consapevole e motto lucida modificazione strategica, alla acquisizione – se vogliamo – di una “scatola di arnesi”‘ piu’ duttile, più varia e meno risolutiva. L’uso della biografia fa parte di questo nuovo programma: è un mezzo per capire di più, per passare – dice Debenedetti – dalla « semplice degustazione alla comprensione » dei testi. Ed è un modo, mi sembra, per attuare un suo personale recupero di tradizione, per tornare – secondo la parola d’ordine riproposta nel 1950 con la pubblicazione di Letteratura e vita nazionale – a De Sanctis.
Il quaderno delle lezioni, da cui ho citato in precedenza, fornisce una prova trasparente. Lo riprenderò là dove ne avevo interrotto la lettura. Rivendicata l’utilità della biografia per risolvere proprio i problemi che Croce si è sempre sforzato di risolvere « e cioè i rapporti tra poesia e non poesia », Debenedetti continua:
Non possiamo dimenticarci che il De Sanctis per capire, per esprimere il segreto dell’Ariosto, quel suo distacco che non è sogno, quella sua apparente distrazione che è un altro modo di essere attento, il De Sanctis si è servito, proprio nel punto che fa da perno al discorso critico, di particolari tolti alla biografia di Ludovico: per es. il poeta che, dimentico di mettersi scarpe e stivali, va da Ferrara a Modem in pianelle, e altri aneddoti del genere, per arrivare a concludere: « Che cosa c’era in quella testa? C’era l’OrIando Furioso ».
In questo modo, con questo rimando a questo esempio, Debenedetti riprendeva il discorso iniziato nella prefazione alla prima serie dei Saggi critici, scritta nel 1929, un anno dopo la sua conferenza su Proust e l’interpretazione dell’aneddoto da cui siamo partiti. Diceva Debenedetti, non ancora trentenne:
Quando – dopo di avere smaltiti con l’Ariosto tutti i più accreditati metodi di analisi letteraria: e come il poeta sia cresciuto, e come tratti la commedia, e quali siano i suoi sviluppi formali, e come adoperi la terza rima e come prenda a usare l’ottava – egli impugna il suo protagonista e giunge, in un impavido crescendo, a guardarlo a tu per tu: “Pose mano al suo lavoro, etc… Altri fatti si narrano della sua distrazione. Cosa c’era dunque nella sua testa? C’era l’Orlando Furioso”. Questa, perdio, è grande critica.
Si può certo immaginare che qualcuno dissenta da una simile conclusione, dal crescendo che riproduce moduli ancora crociani e, soprattutto, dall’enfasi di Debenedetti. E tuttavia… al di là di tutte le obiezioni ed esauriti tutti i più accreditati metodi di indagine, anche Debenedetti, mettendo Proust di fronte alle rose del Bengala, ci fornisce un modello di grande critica, dove l’episodio biografico – come in De Sanctis assume il valore di un geniale e irrinunciabile mito interpretativo. E se questo risultato viene raggiunto attraverso l’infrazione di norme, a cui forse ci affidiamo con troppa sicurezza, varrà la pena di rivedere quelle norme e di imparare da questa esperienza irripetibile.
C’era una frase di cui Debenedetti amava appropriarsi. L’aveva pronunciata un grande matematico per confortare i suoi allievi perplessi di fronte alle prime difficoltà del calcolo differenziale: « Andate avanti e finirete col crederci ». È molto probabile che queste parole apparissero nello stesso tempo una divisa e un auspicio a un critico che ricorreva a mezzi inusitati e costringeva – proprio in queste aule – i suoi studenti a rompere con le proprie abitudini di lettura. Anche seguendo l’itinerario che costeggia le rose del Bengala, e sembra solo sfiorare la Recherche, un lettore non prevenuto, disposto a mettere tra parentesi le proprie reticenze e ad “andare avanti”, finirà – quasi immancabilmente – per credere a Debenedetti.
NOTE
1 Cito dal saggio del 1928; nel Rornanzo del Novecento la traduzione presenterà alcune – qui trascurabili – varianti.
2 Basteranno due esempi:
a) Debenedetti scrive: « Vi fu chi giustamente paragonò la Recherche alle Mille e una notte “d’un vizir moderne, fantasque, ténébreux et charmant” ». Questi quattro aggettivi, che costituiscono un calco fin troppo scoperto dello stile di Proust, sono stati escogitati da Pierrefeu e Vettard li riprende alla fine del suo contributo dedicato a Proust et le temps.
b) Poche righe dopo Debenedetti dice che « un filosofo spagnolo ha proposto di fregiare Proust col nome di “inventore”, anziché con quello un poco mistico di “creatore” “. Il filosofo spagnolo è Ortega e la sua proposta si legge tra le “testimonianze straniere” raccolte dalla NRF.
3 Le citazioni di Croce, qui e in seguito, sono ricavate dal volume La Poesia, che è del 1936. L’anacronismo, motivato da ragioni di economia e di pregnanza, riguarda solo l’aspetto letterale delle formule: la distinzione tra personalità pratica e personalità poetica ha radici profonde nell’opera di Croce e risale a ben prima del 1925.
4 « Elle retrouvait la parole, elle disait: “Mon” ou “Mon chéri”, suivis l’un ou l’autre de mon nom de baptéme, ce qui en donnant au narrateur le méme prénom qu’à l’auteur de ce livre, eut fait: “Mon Marcel”, “Mon chéri Marcel”. ».
5 L’originalità della lettura di Debenedetti si misura meglio paragonandola alla lettura che dell’episodio fornisce, nel 1925, Curtius e che è, alla resa dei conti, motto più convenzionale: una sorta di contemplazione mistica, che porta a dimenticarsi e ad annegarsi negli oggetti », a « suggere con gli occhi gli oggetti », superando in tal modo, e di gran lunga, « l’osservazione di cui naturalisti e realisti hanno fatto tanto caso ». Ancora net 1943 Ramon Fernandez confermerà, nonostante l’aggiustamento di tiro, la lettura di Curtius. Davanti alle rose Proust vive un momento cruciale, « le moment où il “recoit” le monde comme un message urgent qu’il n’a pas encore déchiffré ».
6 La presenza di Sainte-Beuve nei panni di Mme de Villeparisis è stata notata più volte. Minore attenzione si è prestata a un’altra possibile fonte di Proust: l’homme de gout a cui, prendendo in parte le distanze, Taine regala la parola nel suo saggio su Balzac. « Quand je lis quelqu’un, c’est comme si j’admettais chez moi un homme bien élevé et sachant causer. M. de Balzac parle comme un dictionnaire des arts et métiers, comme un manuel de philosophie allemande et comme une encyclopédie des sciences naturelles. Si par hasard il oublie ces jargons, il reste de lui un ouvrier gouailleur, qui polissonne et crie à la barrière. Si l’artiste enfin se dégage, je vois un homme sanguin, violent, malade, hors de qui les idées font péniblement explosion, un style chargé, tourmenté, excessif. Pas un de ces gens ne sait causer, et je n’en admets pas un dans mon salon. »