La letteratura e l’insonnia della Storia

di Lucio Villari

Il corso universitario del 1960 dedicato al romanzo italiano del Novecento si apre con un riferimento di Debenedetti a uno “splendido libro”, la Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni di Albert Thibaudet. Prendendo spunto da questo famoso saggio Debenedetti esaminava la “nozione di contemporaneità” ponendo un problema che, in quegli anni, era considerato quanto mai importante: il collegamento tra epoche letterarie ed epoche storiche. La questione era però più sottile e non riguardava “l’ordinamento storico” della letteratura, ma la possibilità di disporre di strumenti estetici per distinguere “storicamente” un’epoca letteraria e poetica da un’altra. Perché, ad esempio, si chiedeva Debenedetti, nella letteratura del Novecento la poetica del realismo (non il vulgar realismus, precisava Debenedetti) appare « la più storicamente adeguata, quella da cui sono nate le opere di maggior rilievo e importanza »?

Lasciamo per un momento in sospeso queste domande e osserviamo che nello stesso capitolo sulla nozione di contemporaneità Debenedetti rendeva uno straordinario omaggio a Benedetto Croce, all’uomo « intellettualmente e moralmente di massima statura, quello che muovendo da un centro organico e teoretico di pensiero filosofico-storico e di elaborazione culturale, oltre che dalle applicazioni che di questo pensiero faceva nella critica dei grandi scrittori e nella critica militante dei contemporanei, influiva non soltanto sul modo di leggere e di giudicare le opere letterarie, ma su quella zona del gusto, della moralità, del contegno, nella quale lo scrittore (poeta o romanziere) trova i criteri, le unità di misura per giungere alla piena persuasione dell’assenso con se stesso, i reagenti positivi che gli permettono di raggiungere la concordia tra i propri fermenti umani, individuali e personali, e la propria ispirazione ». Croce è definito ancora « una figura eccezionale per la sua geniale operosità », « il maggior prosatore e maestro di stile apparso nelle nostre lettere dopo Alessandro Manzoni », « un maestro singolare, presente in tutti e sostanzialmente solo ». Questo omaggio a Croce non impediva però a Debenedetti di prendere le distanze da una certa pratica metodologica dell’estetica crociana, rivendicando alla critica i territori della psicologia e respingendo la netta e meccanica separazione tra poesia e non-poesia. Debenedetti criticava, ad esempio, l’analisi di De Robertis della poesia di Leopardi, soprattutto laddove De Robertis tentava di sottrarre all’opera poetica leopardiana quegli “elementi documentari e discorsivi” che ne sono parte integrante, trasferendoli, per così dire, nelle opere in prosa. Con tale metodo, secondo Debenedetti, si alterava l’unità concettuale e l’ispirazione poetica di Leopardi.

Dunque, Debenedetti aderiva pienamente ai fondamenti teorici dell’estetica crociana ma aveva delle perplessità sulla loro reale rispondenza alla duttilità e libertà della “critica del giudizio” estetico. Vorrei anzi aggiungere che la sua singolare espressione (« l’elemento documentario e discorsivo ») può far pensare che a Debenedetti non fosse estraneo, in quel momento, il tentativo di Galvano Della Volpe (negli anni Cinquanta avevano insegnato nella stessa Facoltà di Lettere di Messina) di demolire teoreticamente, in nome di una inedita estetica marxista, la critica idealistica e romantica, riabilitando proprio i “valori discorsivi” dell’opera d’arte. Secondo Della Volpe tali elementi andavano valutati come segni strutturali non solo del linguaggio artistico ma anche della sua espressività e ineffabilità. Credo che Debenedetti non fosse insensibile alla ricerca che Della Volpe conduceva in quegli aiuti (ricordo i saggi dellavolpiani sulla Poetica del Cinquecento, sul Verosimile filmico e la famosa Critica del gusto) e alle brillanti e suggestive polemiche del filosofo marxista. Anche per questo, l’ammirazione per Croce e insieme il dissenso di Debenedetti dalla pratica metodologica dell’estetica crociana sembrano rivelare quei dilemmi critici che affascinavano il lettore e l’ascoltatore di Debenedetti ma che, a mio parere, non sempre Debenedetti è riuscito a risolvere. Sono dilemmi che potrebbero essere così formulati: esiste oltre alla storicità dell’arte una sua specifica « espressività storica » ? La storia può leggersi come una serie di metafore? In che rapporto è lo scrittore o il poeta con la storia? Deve la critica letteraria tener conto della presenza o dell’assenza della storia come di variabili dipendenti? Sono interrogativi che Debenedetti si poneva esplicitamente riferendosi, ovviamente, alla “storia” come a una sorta di presente critico (non saprei definire meglio le allusioni debenedettiane) sia dell’opera letteraria sia della personalità dell’autore. Ed è a questo punto che incrociamo il problema dello storicismo di Debenedetti.

Eugenio Montale ha osservato, nella prefazione a Il romanzo del Novecento, che « sembra davvero che Debenedetti creda nella progressiva razionalità della storia ». È una notazione lievemente ironica, ma forse Montale aveva colto nel segno. In uno scritto del 1934 (Commemorazione del De Sanctis) Debenedetti aveva preso partito per un modello di critica letteraria, quella desanctisiana appunto, che consisteva nello « sviluppare un mondo ideale in un mondo storico ». Era un modello omologo a quello sperimentato da Manzoni nei Promessi Sposi e impiantato su un equilibrio perfetto tra tempo poetico e fantastico e tempo storico.

Se la storia è protagonista del romanzo, l’ideale, che si identifica con la storia, diventa anch’esso protagonista del romanzo, e non vive astratto in un sopramondo contrastante e ripugnante con le vicende che il romanzo dispiega. (1)

La storia si rivela dunque quel “presente critico” dello scrittore o del poeta cui prima accennavo; ma diviene tale anche per il critico letterario (così era stato De Sanctis secondo Debenedetti) che voglia intendere fino in fondo lo svolgersi del mondo ideale dell’artista (o del critico) nel mondo storico.

Mi chiedo però: questa aperta adesione allo storicismo è essenziale al Debenedetti critico? Tutto fa pensare di sì; la parola storia, l’avverbio storicamente sono disseminati in tutti gli scritti di Debenedetti, nella maggior parte dei casi con una immediata accezione crociana, ma specie nell’ultimo Debenedetti con allusività e sfumature marxiane e lukacsiane. È come se Debenedetti fosse attentissimo a cogliere l’attimo, a percepire la scintilla provocata dalla storia quando inavvertitamente (o avvertitamente) essa tocca i territori del racconto o i versi di una poesia.

Il terzo quaderno della Poesia italiana del Novecento (1958) ha addirittura un titolo eccessivo: Possibilità di razionalizzazione e di storicizzazione. Seppur con qualche cautela (vi si riconosce infatti che si tratta di giudizi rischiosi e suscettibili di molte obiezioni) Debenedetti giunge a dichiarare che

Il decadentismo è un fenomeno che rivela in letteratura quello che nelle strutture economiche e sociali è il momento in cui la borghesia comincia a sentire le proprie contraddizioni interne. La luce della borghesia pare ancora radiosissima, ma qualche ombra comincia ad accennarsi e ne fa presagire il crepuscolo. (2)

Questa ombra è l’io del poeta decadente che recide « tutti i rapporti visibili, sensibili e riconoscibili con l’io della persona storica » (il riferimento è soprattutto a Rimbaud). Ma è proprio tale scissione, conclude Debenedetti, che permette alla poesia di raggiungere l’ignoto. II dilemma debenedettiano comincia così a stringersi e ad avvitarsi. Penso, a questo proposito, a un saggio del 1953, Confronto col Diavolo, premesso all’edizione Einaudi del primo volume della Recherche di Proust. Sono pagine geniali che parlano del fascino potente dell’arte e della letteratura europea del Novecento; della luce fredda che promana dalla loro de-storicità e che si proietta nelle parole di Adrian Leverkún, il protagonista del Doktor Faustus di Mann:

Questa è l’epoca in cui non è più possibile compiere un’opera per vie normali nei limiti della pietà e del raziocinio, e l’arte è divenuta impossibile senza il sussidio del demonio e il fuoco infernale sotto il paiolo. (3)

Debenedetti postilla le parole di Leverkún segnalando la frattura, ormai irreparabile, tra il mondo storico e il mondo dell’arte. È un ritorno, seppur problematico, all’estetica crociana? Sembrerebbe di sì; ma nel 1957, in un saggio su Sandro Penna, affiora nuovamente l’inquieto dilemma. Lo scritto si apre con una dichiarazione di principio (« il mondo come noi possiamo concepirlo e percepirlo è fatto di due elementi, è natura ed è storia ») cui fa seguito l’analisi del rapporto poetico di Penna con tali elementi, ma con una variante, che a me sembra di grande valore teorico, appena suggerita ma poi lasciata cadere. La variante è sul significato della presenza-assenza della poesia nella storia e sulla dimensione estetica dell’esserci o del sottrarsi del poeta nel mondo storico. È un esplicito tentativo di introdurre il marxismo o il materialismo dialettico all’interno del crocianesimo, di far germinare insomma la poesia dalla non-poesia, il « divenire » poetico dal reale naturale e storico.

[...] la fase della storia vissuta da Penna – scrive Debenedetti – questa storia dell’età borghese del periodo più aggressivo del capitalismo, il periodo che i marxisti chiamano dell’imperialismo, impone all’uomo quella condizione di schiavo a cui si dà il nome di alienazione [...] Alienazione è l’essere trasformati in mezzi, in strumenti di un fine che non ci appartiene, che non è il nostro. [...] Dal punto di vista dello spirito tutto appare come estraneità, come assurdo. Saba invece si comporta come se il mondo dell’alienazione fosse la non-storia, diventa il poeta di un patrimonio e di un comportamento umano, per così dire permanente dentro il volgersi attuale della storia che sembra negarlo. [...] Penna invece si sottrae personalmente all’alienazione. [...] dopo averne eliminato l’aspetto storico e dopo avere persino dimenticato che quella eliminazione è stata compiuta, trova gli spettacoli naturali e i rapporti umani sufficienti per vivere quella vita che gli occorre e gli basta. (4)

Ma quale è il risultato poetico di questa operazione?

[...] non sarà semplicistico, né troppo sofistico notare che la vacanza, la fuga verso la stella, fuori della storia, è resa sensibile dalla presenza della storia, anche se il poeta non ci dice perché e come egli se ne sia immunizzato. La storia è presente per noi che leggiamo, che guardiamo quella poesia dalla nostra condizione di uomini immersi nella storia. (5)

Ed ecco la conclusione sorprendente di Debenedetti:

È presente anche per il poeta, proprio perché ha dovuto compiere quell’invisibile, quel dimenticato atto di cancellarla. (6)

In definitiva, la “ragion d’essere” della poesia di Penna è nel « suo modo di rispecchiare la stessa storia proprio per il fatto che si esenta da quella storia ». È qui forse la soluzione provvisoria del dilemma? Nel teorema debenedettiano che disegna il poeta (ma lo stesso può dirsi dello scrittore) che sottraendosi alla storia ne diviene un momento invisibile, si avverte, certo, il respiro dello storicismo integrale. Tuttavia, il ragionamento di Debenedetti fa pensare a qualcosa di meno semplice e lineare dei procedimenti soliti dello storicismo; come se (qui ritorna il tema del Confronto col Diavolo) l’alienazione sia un valore assoluto della poesia. Seguiamo allora, fino in fondo, il ragionamento. Se il sottrarsi all’alienazione è una necessità per l’uomo per restare nella storia, la non alienazione è una necessità per il poeta perché lo spinge alla fuga dalla storia; ma è una fuga apparente perché si raggiunge la poesia restando nella storia.

Ebbene, il Debenedetti critico si muove sulla linea di questa “apparenza”, anche se, soprattutto nella Poesia italiana del Novecento, si ha talvolta l’impressione che egli tema di scivolare su quella linea instabile e di finire nell’abisso. Ma, paradossalmente, è la “politica” a salvarlo. Penso, ad esempio, a quanto Debenedetti scrive in La poesia impegnata e Gide (così è intitolato un quaderno della raccolta) oppure alle parole con cui si chiude il volume. È la chiusa dell’ultimo quaderno ed è dedicata a una poesia di Vittorio Sereni del giugno 1944 sullo sbarco alleato in Normandia:

Potremmo quasi assumere emblematicamente questa lirica come il momento in cui la storia entra nella poesia nuova, una poesia ancora riluttante ma già nuova. Nel rifiuto che la poesia sembra opporle, a tutta prima nella forza che la storia, una volta penetrata, farà e sta facendo per prendersi la propria parte potremmo cercare, e forse trovare, il filo conduttore della poesia del dopoguerra fino a oggi. (7)

Sul palcoscenico debenedettiano la storia avanza dunque come una musa inquietante con la quale occorre fare i conti. È, in definitiva, la “contemporaneità” del poeta, sia con il passato, dalle cui profondità egli è generato, sia con il presente del quale egli è, più di altri, testimone e partecipe; anzi, è “poeta” solo se, come dirà di Giacomo Noventa, « combacia con la storia del suo tempo » . È, come è evidente, una tensione estrema del problema che attanaglia Debenedetti, ma la cui spiegazione non può che trovarsi in Debenedetti, nel suo modo di concepire l’evoluzione creativa del suo racconto critico e di sentire la “responsabilità” teoretica dell’impegno etico-politico. Mi ha colpito, in proposito, una pagina del saggio Tozzi tra Marx e Freud (1962) nella raccolta Il romanzo del Novecento dove, con rischio calcolato, mi pare, vi siano gli estremi di una confessione:

Non voglio dire che in una certa epoca a tutti succedano le stesse cose: che in particolare gli intellettuali camminino come un gregge guidato dal vincastro dei tempi: succedono nei casi come questo, in cui muta il rapporto dell’uomo con la storia, il sentimento di questo rapporto. Il quale diventa, nella storia della narrativa, rapporto tra il narratore e il personaggio, questo dato fantastico che è irreale se non si presenta come un dato storico. (8)


NOTE

1. G. Debenedetti, Saggi critici. Prima serie. Milano, Mondadori 1955; ora Venezia, Marsilio, 1990, p. 21.
2. G. Debenedetti. Poesia italiana del Novecento, Milano. Garzanti, 1974, p. 63.
3. G. Debenedetti, Confronto col Diavolo, in Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp.160-161.
4. G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 182.
5. Ibid., p. 183.
6. Ibid.
7. Ibid., p. 299.
8. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, p. 193