La critica come dramma

mito personale di un ingegnoso nemico di stesso
di Alberto Granese

II saggio del 1944 su Alfieri, Ingegnoso nemico di se stesso, le lezioni universitarie su Giovanni Verga del 1951 e quelle, pubblicate in Il romanzo del Novecento, su Federigo Tozzi (1961-1962) potrebbero costituire tre esemplari campioni letterari. Questi studi si collocano – come evidenziano le date – ciascuno all’inizio di un decennio di attività critica.

Cominciamo da Alfieri. Egli ci suggerisce, innanzitutto, la metafora che sintetizza poeticamente tutto il nostro discorso. L’occasione è un viaggio, che il poeta innamorato compie per raggiungere a Martinsborgo la contessa d’Albany, sceneggiato in una sequenza di sonetti.

L’attenzione di Debenedetti si sofferma sull’apprensione, sull’ansia dell’uomo che, bruciando le tappe, si precipita verso l’amata, dopo una lunga assenza. L’angoscia va sempre più crescendo, quasi all’ “unissono” con il galoppo possente dei cavalli: il giorno e l’ora del bramato incontro sono ormai vicini. La palpitazione intensa del cuore del poeta è forse più bella della gioia stessa ch’egli dovrebbe provare alla vista della sua donna. Dovrebbe, dunque, essere finalmente lieto, dopo tanti mesi di lunghi sospiri.

« Dovrebbe, ma non è », osserva Debenedetti. « Ingegnoso nemico di se stesso, egli incrina con ostinata industria la gioia ormai sicura, imminente ». (1) L’apprensione, divenuta più ardita, « intacca più a fondo, e corrode, l’immagine della prossima gioia col rappresentarne la brevità ». (2)

La ragione, o meglio, il buon senso dovrebbero suggerire al poeta che sarà felice perché, finalmente, dopo tanto tempo, rivede la donna amata. E pure la sua nevrastenia, l’ipersensibilità inquieta dell’istinto lo spingono in una cupa angoscia. II demone misterioso, che scalpita nei recessi del profondo, diviene imprevedibilmente astuto, sapientemente ingegnoso; si diverte beffardamente a minare il naturale cammino verso la felicità ad escogitare pericolosi trabocchetti per scoraggiare il poeta, tanto da fargli pensare ormai di invertire la rotta e mancare all’appuntamento d’amore.

Non la lentezza dei cavalli, non i disagi di un lungo percorso, non l’intollerabile durata del viaggio lo rendono insofferente. Il nemico non lo ferisce stando appostato fuori di lui, così che avrebbe potuto vederlo e correre ai ripari; il nemico è in lui, è l’altra parte che è dentro di sé. Si produce ora come uno sdoppiamento della personalità: da un lato vi è l’io cosciente, che inventa progetti, si prefigge degli scopi, tende con immane sforzo della volontà a una meta; dall’altro, l’io profondo, la radice dell’essere. Si crea, quindi, un contrasto tra il volere essere e il dovere essere, tra volontà e necessità.

In Alfieri l’atteggiamento volontaristico, il partito preso di gioire ad ogni costo per l’incontro d’amore è un falso scopo, proprio perché non corrisponde alla sua autentica natura. Ed è questa a ribellarsi, a farsi nemica e combattere quell’altra parte di se stesso, l’innamorato che vorrebbe gioire. Il suo nemico è proprio in lui, è il nemico della sua volontà. Questo sdoppiamento interno lo fa essere in apparenza incoerente: vorrebbe gioire, ma si tormenta con sottili espedienti. Necessariamente la sua indole ha il sopravvento, lo costringe ad abbandonare i propositi di felicità. Il suo destino di poeta, infatti, non consiste nel cantare in squillanti sonetti i piaceri d’amore, ma passioni drammatiche, assillanti tormenti.

Alfieri diventa poeta, quando, nemico di tutti i falsi se stessi della sua vita (il viaggiatore, l’uomo di mondo, l’amatore ecc.), trova il vero se stesso, incontra la linea del suo destino, di poeta tragico.

Questo contrasto tra volontà e necessità, tra il voler essere e il dovere essere, con cui Debenedetti costruisce il personaggio Alfieri, nemico di tutti i falsi “se stesso” progettati dalla sua volontà – e, pertanto, necessariamente ingegnoso per potere alla fine incontrare la linea autentica del suo destino – si ritrova, circa dieci anni dopo, anche nella drammatizzazione delle componenti umane e artistiche della personalità verghiana, rappresentate come conflittuali e radicalmente inconciliabili.

Da questa angolazione egli “rilegge” anche il saggio del Capuana sulla narrativa dello scrittore siciliano come un racconto-critico, involontariamente sceneggiato. Per Capuana esiste in Verga un preciso « rapporto di causa e di effetto tra adesione al verismo e rigenerazione letteraria »; perciò concepisce una parabola drammatica, una vera e propria conversione. Racconto suggestivo, destinato a diventare uno schema inevitabile per la critica posteriore.

In contrasto, quindi, con il racconto-critico del Capuana, egli propone una diversa lettura della « vicenda artistica ed umana di Giovanni Verga » e incomincia a costruire il “suo” dramma critico, proprio da quei Presagi del Verga, che pubblicò nella terza serie dei Saggi critici. Debenedetti legge, come in un oroscopo, in uno degli episodi apparentemente meno significativi di Una peccatrice  – la storia della passione del giovane catanese Pietro Brusio e della contessa Narcisa Valdieri – tutta la parabola del destino di Verga, uomo ed artista, attraverso una delle più brillanti e geniali applicazioni delle teorie junghiane.

Spesso accade « ai giovani scrittori carichi di destino » di racchiudere « un vaticinio del proprio avvenire » nel « bozzolo » delle loro prime opere. In seguito, proprio la curva che prenderà la loro vita « permetterà di decifrare » questo vaticinio, « rivelando che ciò che si era presentato come immaginazione era invece presentimento ». (3) Perciò, in Una peccatrice, Debenedetti trova « scritta, fatale, pesante, cifrata, ma inderogabile » la storia di Verga. Per venire a capo di questo oroscopo, di questa divinazione – « sogno premonitore, istintiva anticipazione » – bisogna, anzitutto, capire il senso dei due protagonisti, Pietro e Narcisa.

Debenedetti scopre il presagio “sconvolgente” che inconsciamente, attraverso le creature immaginate, Verga fa del suo destino: Pietro, a un certo punto, propone a Narcisa di separarsi per un certo periodo, per poi ritrovarsi ed amarsi più intensamente di prima.

Anche Giovanni Verga, quando si accorse che i suoi primi romanzi sulla gente di lusso non andavano più, fece la stessa proposta di Pietro. Egli si congeda dai suoi fantasmi giovanili, non per lasciarli definitivamente, ma per potere tornare a loro con maggiore lena e forza poetica. Non progettò, infatti, il ciclo dei Vinti in modo tale da concluderlo, dopo I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, con la storia di gente eccelsa: la duchessa di Leyra, l’onorevole Scipioni, l’uomo di lusso?

È come se egli avesse deciso di fare esercizi, per addestrarsi la mano, per prepararsi a prendere la rivincita ed, infine, ritornare « con altra voce omai, con altro vello » ai suoi progetti di storie eccelse, che, coronando il ciclo dei Vinti, avrebbero dovuto dargli il maggiore successo artistico.

« Il resto è noto. Quei personaggi non si ripresentarono ». (4) Come Narcisa non accettò la proposta di Pietro, propinandosi il veleno, così anche gli uomini di lusso, « in una piccola casa di Aci Trezza », si erano avvelenati: la fase che doveva essere destinata a riprendere lo slancio fruttò al Verga i capolavori.

Questo stupendo racconto-critico racchiude in maniera densa ed ellittica tutta l’idea centrale di Debenedetti sullo scrittore siciliano, che, successivamente, documenta e controlla, attraverso l’esame analitico delle sue prime opere, in cui viene ripreso il mito dell’« ingegnoso nemico di se stesso ». Verga sembra « abbia fatto apposta », quasi diabolicamente, ad « arrivare al fallimento », attraverso le vie scelte dalla sua « cocciutaggine » per fare ad ogni costo il romanzo; è stato « costretto » dalla sua necessità interna a seguire, anzi a ridursi, ad altra strada. II fallimento è perseguito attraverso una serie di « contraddizioni, nelle quali si direbbe che il Verga si getti a corpo perso. Prima contraddizione: tra volontà e necessità ». (5) In lui è volontà ambiziosa di scrivere, smania di affermare se stesso. Questa è, però, « volontà astratta » , quasi come una compensazione di oscure carenze.

Questo tipo di volontà, in un certo senso, arida, perché unicamente volta a soddisfare se stessa, è quella che esclude la necessità. (6)

Tutto viene tentato, insomma, per « partito preso », con « assenza di necessità ». Quando, finalmente, si mostrerà la necessità, eliminerà « l’esibizione, il partito preso », così da

costringerlo a lavorare quasi alle soglie del silenzio, col discorso diradato e svogliato al massimo, fino a che non cadrà l’assoluto silenzio, la rinuncia a scrivere proprio perché non si produce più quel comando della necessità, che oramai il Verga aveva imparato a ravvisare. (7)

Ingegnosamente, combattendo il falso « se stesso » che si atteggia a romanziere per partito preso, egli ritrova l’Altra parte di sé, quella profonda ed autentica, consumando « in prove sterili e incomplete tutti i temi che per lui non sono destinati a diventare motivi ». (8) Si assiste, quindi, ad una differenziazione dell’Io, ad uno sdoppiamento della personalità, a ciò che Bergson e Proust chiamarono Moi extéríeur e Moi profond e Jung chiama persona (il termine latino di maschera) ed « individuo ».

Al fondo di Debenedetti agisce sempre la distinzione/implicazione dei due versanti della personalità, quello diurno e quello notturno che corrispondono ai due piani della realtà, quello superficiale e quello profondo, che l’operazione ermeneutica deve, dunque, disoccultare. In questi termini è vista anche la lotta tra necessità (interna) e volontà (esterna), incentrata sul mito dell’« ingegnoso nemico di se stesso ». Il conflitto tra volontà di fare il romanzo e necessità che non si decide subito a manifestarsi, il mito dell’ « ingegnoso nemico di se stesso », che abbiamo visto in Alfieri (e che vedremo anche nella lettura della narrativa di Federigo Tozzi), si presentano in modi sostanzialmente analoghi ed ancora più inequivocabili, autorizzandoci a ritenere che essi costituiscono la vera struttura portante della drammaturgia critica di Debenedetti, nella quale, pur variando situazioni e personaggi, le linee essenziali, le « funzioni » rimangono in ultima analisi costanti.

Tozzi sembra ignaro della sua autentica vocazione e considera ancora come propri modelli i canoni del verismo, prelevando alcune situazioni e figure dal repertorio naturalistico e tentando di costruire, con elementi della sua vita, un personaggio indipendente. Riferendosi alle pagine espunte da Borgese, Debenedetti osserva che queste, invece di residui del vizio frammentista, presentano, « semmai, ansioso seme della necessitá narrativa del Tozzi ». La parola « necessità », spesso ripetuta in contesti omologhi, denota come Debenedetti vada lentamente, ma inesorabilmente orchestrando il dramma dell’ « ingegnoso nemico di se stesso », per cui alle velleità di romanziere verista ed impersonale si contrappone in Tozzi una diversa necessità (o vocazione) narrativa che lo porterà in una direzione completamente opposta, da lui non prevista e a lui ignota.

A conclusione delle sue penetranti osservazioni, il critico scrive:

Piuttosto, faremo noi adesso una congettura che, se vera, ci dimostrerà come il Tozzi fosse ancora e continuamente tentato dai modi veristici, almeno quando si proponeva volontaristicamente di dare un’organizzazione narrativa ai propri spunti; mentre poi il suo più autentico impulso a narrare lo spingeva su altre vie. (9)

Ancora una volta, ritornano i punti focali del dramma intravisto da Debenedetti: da un lato, i propositi volontaristici, il falso scopo; dall’altro, la forza del « suo più autentico impulso », che lo spinge altrove « inesorabilmente », cioè in maniera coatta e irresistibile.

Ed ecco che Debenedetti ha finalmente scoperto in che cosa consiste l’impulso che allontana Tozzi dal naturalismo: « [...] diventa narratore, è costretto a diventarlo proprio perché il modo naturalistico di guardare il mondo e di registrarlo non lo soddisfa più [...] ». Egli, perciò, « non può essere naturalista »; perciò, come un « gesto coatto », ripete l’animalizzazione che ha soppiantato la naturalizzazione. Si noti come Debenedetti insiste sulla forza irreversibile della coazione, spiegandoci che « gesto coatto è il contrario di gesto consapevole; dà invece a noi spettatori, a noi lettori, la consapevolezza che l’autore non può agire altrimenti ». (10)

In questo, dunque, consiste per Debenedetti il « destino e la necessità narrativa di Tozzi », « quella specie di fatalità senza scampo che sembra spingere Tozzi a scrivere come scrive », ossia la sua autenticità.

Questa coazione irresistibile, che scompagina i piani progettati dall’io cosciente, dalla ragione e dalla volontà, questo diabolico nemico di se stesso, Debenedetti lo scorge anche nel comportamento dei protagonisti stessi, nel Pietro di Con gli occhi chiusi, nel Remigio del Podere, nei fratelli Gambi di Tre croci. Anche in questi personaggi-uomini rivive il dramma tra volontà e necessità, tra progetto e destino.

Anche se in apparenza Pietro, Remigio, i fratelli Gambi vogliono lottare contro le circostanze avverse., « ingegnosi nemici di se stessi » , finiscono per subire inesorabilmente il loro destino, il fondo oscuro del loro essere, il mito personale rappresentato da quel complesso di autopunizione, che li costringe a comportarsi in maniera tale da regredire a uno stato puramente infantile.

Seguendo il filo conduttore di tre destini completamente diversi, si ha l’impressione che le strutture di fondo della loro vicenda di uomini e di artisti, nonostante la varietà delle contingenze e la differenza incomparabile delle loro opere, muovano lungo una direttrice comune. Come se Debenedetti avesse raccontato la storia di un solo personaggio, protagonista « uno e trino », il quale, di volta in volta, assume i connotati di Vittorio Alfieri, di Giovanni Verga, di Federigo Tozzi, che « proiettano su tre raggi la stessa situazione psichica ».

E la storia narra di un tragico personaggio-uomo che, lusingato dai suoi stessi propositi, si ostina, sotto la spinta di una tensione volontaristica e velleitaria, a perseguire un falso scopo, che illusionisticamente scambia per il suo vero fine. (Ad esempio, siccome il protagonista è uno scrittore, Verga progetta il romanzo della gente di lusso e Tozzi vuole rinverdire il romanzo naturalista.) Contro le prevaricazioni della volontà interviene la necessità, la natura, vera e profonda, il destino autentico, quello che noi consideriamo l’Altro, ma che, invece, è la radice stessa dell’essere.

Astutamente questo prepara delle trappole che, l’una dopo l’altra, fanno crollare i falsi obiettivi, gli ostinati programmi. Tutto ciò che è attuato, per partito preso, si rivela inautentico e convenzionale. Situazione fallimentare, che diabolicamente, proprio l’Altra parte di sé, l’io profondo, ha contribuito a determinare. È la metafora alfieriana dell’ « ingegnoso nemico di se stesso » : ingegnoso nemico che non è esterno, ma interno; è la struttura psichica profonda della natura di ogni individuo, immodificabile, perché dotata di potenza ineluttabile e necessaria. Essa lotta con ostilità, fino alla vittoria completa, contro l’altra parte di sé, la sfera razionale e cosciente, ove si elaborano programmi e progetti e che agisce sotto la guida della volontà. Si produce, insomma, come uno sdoppiamento e, mentre il comportamento volontaristico spinge in una certa direzione, inconsapevolmente (ma quasi con ingegnosa predeterminazione), si finisce inesorabilmente con il rovinare, fino allo scacco totale, ciò che si tentava di fare.

Questo personaggio-uomo è costretto allora a recedere dai suoi propositi e si ingegna di rinviarne l’attuazione con alibi sottile in un futuro che egli ritiene (ipocritamente, perché sa di fingere con se stesso) vicino e probabile. (È la parabola verghiana del ciclo dei Vinti che, dopo i romanzi « preparatori » della povera gente, avrebbe dovuto concludersi con quelli degli uomini di lusso, ma che in realtà si interruppe già con i primi due.) Rinunciare ai progetti giovanili è doloroso. Egli si rammarica diventa pessimista, si sente una vittima, uno sconfitto, proprio perché continua a scambiare i falsi scopi delle sue velleità con la curva vera del suo destino. Il vittimismo e il pessimismo sono la maschera dei desideri rimossi.

Una volta bloccate tutte le strade di accesso alla meta lucidamente progettata, il personaggio-uomo dovrà ridursi ad imboccare l’unica strada possibile, quella che ancora non trova ostruita, cioè quella che lo costringe a prendere la sua natura, il suo destino. Solo così egli potrà essere autentico. Le sue opere saranno originali, proprio quando gli si impongono come necessarie, ed egli le deve subire. Alla fine della lotta, prodotta dall’ingegnoso nemico di se stesso, si ritrova la linea vera del proprio destino: Verga non è il romanziere della gente di lusso, né Tozzi narratore verista. Essi raggiungeranno l’arte, il loro autentico e singolare stile poetico, solo quando saranno costretti a scrivere giusto al contrario dei loro progetti letterari. Debenedetti si era, senza dubbio, ricordato di quello che gli aveva osservato Umberto Saba, riferendosi alle sue primizie narrative: « … non si avverte in alcun modo la necessità dell’argomento che tu hai scelto (e non subìto) ».

Un crudele Super-io indossa le vesti del critico giustiziere ed emette il verdetto irreversibile, tanto più allarmante se ad indossare quelle vesti è l’amico Saba. Il partito preso, il gesto volontaristico l’avevano spinto alla prova fallimentare. I suoi racconti non germinavano da un’interiore necessità. La linea del romanziere non incontrava la curva del destino dell’uomo Debenedetti. Il desiderio di narrare iniziò allora il cammino a ritroso, venne rimosso, ricacciato nella sfera subliminale, donde intraprese discontinue ma tenaci incursioni, determinò inconsce metafore nella sfera diurna dell’Io.

Quella rimozione formò il complesso di fondo, il suo mito personale, cui fu costretto a rimanere sempre fedele. Se applicassimo al critico lo stesso strumento euristico con cui egli rivelò ai suoi autori-personaggi la necessità della loro arte, scopriremmo che la metafora dell’ « ingegnoso nemico di se stesso » è il simbolo stesso della sua ermeneutica coatta. E una direzione di ricerca che gli viene suggerita dal profondo, ed egli inconsapevolmente la subisce, assolutamente non può sfuggirla. Tutto quanto egli rappresenta del suo Autore non è che il dramma del proprio destino, che ha seguito una curva diversa da quella che l’io cosciente aveva progettato e che voleva cominciare a percorrere.

Ha inizio allora lo stillicidio crudele dell’analisi, il lavorio implacabile dell’intelligenza, che ricerca, scopre, conosce tutto perfettamente, giunge alla massima consapevolezza, ma non può fare altro che assistere al manifestarsi della forza irresistibile della necessità, senza poterla dirottare secondo la linea programmata dalla coscienza.

L’autoanalisi non può aiutarci a sfuggire al nostro mito personale. A Debenedetti non rimane che l’esorcismo con la ripetizione ritualistica del dramma, incarnandosi nei suoi Personaggi-Autori per riviverlo ancora una volta, nell’illusione di poter placare l’urgere aggressivo del rimosso, o almeno ghermire. qualche altro particolare, impercettibile, infinitesimo che gli dia la chiave dell’atto risolutivo per invertire il cammino. Come Tozzi narrava per esorcizzare i suoi incubi infestanti, che gli si presentavano sotto forma di personaggi animalizzati e, perciò, ostili ed enigmatici, sfuggenti a qualsiasi tentativo di decifrarli, così il critico drammatizza, attraverso i suoi autori, il suo desiderio di narrare, perché non riesce mai a spiegare il senso della propria storia. Cerca di capire e di capirsi, di rivelare e di rivelarsi.

A Verga aveva applicato in maniera mirabile la simbologia junghiana. Aveva interpretato Una peccatrice come un presagio del destino dell’uomo e dell’artista. L’opera letteraria era stata letta come un’operazione sui simboli, come rivelatrice di ciò che sarebbe stata la parabola narrativa di Verga. A Tozzi aveva applicato Freud, il Freud del complesso edipico. Con gli occhi chiusi era stato interpretato come simbolo dell’arte tozziana; la scena della castrazione degli animali gli aveva rivelato il trauma infantile, il senso di colpa per l’odio verso il padre e la conseguente accettazione della vendetta punitrice del genitore. Se volessimo ribaltare su Debenedetti i parametri fondamentali dell’uno e dell’altro dei suoi maestri, di Freud e di Jung, ci accorgeremmo che essi finiscono per diventare complementari.

Il trauma giovanile, seguito al crollo dell’illusione dei suoi progetti narrativi, lo costringe a rivivere il suo mito personale; e i simboli del dramma critico, orchestrato su questi autori, non fanno che presagire tutto ciò che gli sarebbe accaduto: dovere ancora rivivere nella sua critica letteraria il dramma di una volontà che non si è incontrata col proprio destino, del divorzio tra l’essere e il voler essere.

Verga voleva essere il romanziere della gente di lusso, ma aveva dovuto, spinto dalla necessità, ridursi a narrare la vita dei contadini e dei pescatori; Tozzi voleva creare un nuovo romanzo veristico, ma il suo istinto narrativo lo spingeva inconsapevolmente ad animalizzare i personaggi per scrivere i suoi romanzi. Nell’uno e nell’altro la forza della necessità interna aveva sconfitto lo scopo volontaristico. Sconfitta amara, perché i propositi erano stati ben altri e più lusinghieri rispetto alla strada che poi furono costretti ad imboccare. La più grande aspirazione di Verga era di illustrare la vita degli uomini e delle donne di lusso, di ciò che egli non era e non aveva posseduto nella vita. I progetti di Tozzi miravano alla costruzione di un nuovo romanzo naturalista, oggettivo e impersonale. Perciò, la via, imposta dalla necessità, costringeva ad abbassare il tiro e il bersaglio. Appariva una riduzione.

Debenedetti sapeva che Giacobbe non potrà mai essere l’Angelo; pur se dotato di eccezionali capacità, il critico non può essere Orfeo. Fare critica è un’operazione riduttiva per chi voleva, senza riuscirci, creare opere d’arte. Spia di questo atteggiamento potrebbe essere la mancata pubblicazione, mentre era in vita, delle sue lezioni universitarie. Solo i famosi “prelievi” uscirono dalle minute pagine dei suoi quaderni e, ricevuta la sagoma del saggio critico, divennero essoterici.

Eppure quei corsi con il loro tono pacato e discorsivo, umile e « servizievole »; con il loro procedere per vie non del tutto rettilinee, che spesso si interrompono, costringendo il lettore a seguire il critico attraverso digressioni, quasi dei lucidi specchi, illuminanti di riflesso il discorso centrale, a cui, con un sorprendente colpo di scena, sempre si ritorna con emozione e attesa accresciute; con il loro indagare asistematico, ove nulla è dato per certo, per dogmaticamente sicuro fin dall’inizio, e le soluzioni giungono come necessarie conseguenze di un serrato argomentare, che ha operato imprevedibili accostamenti e disorientanti separazioni: quei corsi, dunque, rappresentano quanto di più utile e fecondo, di geniale e di autenticamente nuovo oggi abbia prodotto la critica letteraria italiana. Forse Debenedetti considerò quei suoi quaderni degli appunti una solida base su cui poter meglio sostenere i saggi critici veri e propri. Li considerò, insomma, un lavoro preparatorio, in chiaro stile comunicativo, in funzione subordinata rispetto alla saggistica, che, a sua volta, rappresentava la strada obbligata a cui aveva dovuto ridursi rinunziando alla creazione narrativa. Tenerli gelosamente custoditi è indizio rivelatore di un’amara rassegnazione per l’assoluta irraggiungibilità dei disegni giovanili. Non accettò completamente la sconfitta dei suoi propositi: il « dramma critico » costituisce, appunto, una recidiva.

Come Verga e Tozzi, subendo ciascuno la spinta della propria necessità, hanno, però, incontrato la vera e autentica arte, così Debenedetti, con tutta l’amarezza per la sconfitta dei suoi propositi narrativi, proprio riducendosi “necessariamente” al lavoro ermeneutico, ritrova l’autentica sua ragione d’essere nel mondo della letteratura, il suo destino, non di romanziere ma di critico letterario.

La tensione latente tra il narratore rimosso e il “lettore” di romanzi lo costrinse a seguire una peculiare direzione di approccio ai testi e a trovare soluzioni ermeneutiche diverse rispetto ai soliti luoghi comuni, rimasticati da quei critici che con ovvia computisteria letteraria riescono sempre a mettere tutto, oggettivamente, al proprio posto. Eretiche, suggestive, esse sfuggono alle logore etichette.

Necessariamente, quindi, sono uniche ed irripetibili, per il loro essere metafore coatte del “suo” mito personale.

NOTE

1. G. Debenedetti, Saggi critici. Terza serie, Milano, Il Saggiatore, 1959, p. 32.
2. Ibid., p. 33.
3. Ibid., pp. 218-219.
4. Ibid., p. 229.
5. G. Debenedetti. Verga e il naturalismo. Milano. Garzanti, 1976, p. 65.
6. Ibid., p. 66.
7. Ibid., pp. 66-67
8. Ibid., p. 80.
9. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Milano. Garzanti, 1971, p. 151.
10. Ibid., p. 87.