Non sono uno storico della letteratura, non ho altro per aprire questo convegno di studi su Giacomo Debenedetti che la profonda amicizia che mi unì a lui dagli anni della prima giovinezza, a Torino, e durò fino al giorno della sua morte. Questo convegno ha per me anche un significato espiatorio che, come docente di questa Università, non posso tacere. Giacomo insegnò in questa Facoltà per più di vent’anni come incaricato; del suo memorabile insegnamento sono prova i libri tratti dalle sue lezioni e l’alto livello del lavoro dei suoi scolari. Eppure ripetutamente gli fu negato l’ordinariato e i concorsi che glielo negarono rimangono pagine ingloriose, per non dire vergognose, dell’Università italiana.Conobbi Giacomo a Torino, quand’ero studente: apparteneva alla generazione che aveva di circa dieci anni preceduta la mia. Facevo parte di un gruppo di orientamento nettamente crociano e insofferente, quanto meno, della crescente volgarità culturale del fascismo: ricordo Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Massimo Mila, Norberto Bobbio. I nostri amici più anziani e già culturalmente e politicamente impegnati erano Giacomo Debenedetti, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Aldo Bertini. Essi avevano vissuto un’esperienza culturale ancora libera, aperta verso l’Europa. Avevano conosciuto Gobetti, forse Gramsci, di cui a noi era impossibile conoscere gli scritti proibiti. Croce era per noi il nostro vero maestro: nei rari ma sempre attesi incontri non ci parlava di politica ma solo di problemi della cultura. Rappresentava per noi la cultura eletta contro l’abbietta, ma a un certo punto si ferrava a un limite che non ci sentivano di accettare. La poesia e la pittura francese che noi ammiravamo, non l’interessava: Mallarmé, Rimbaud, Proust, per lui, erano non-poesia. Io studiavo storia dell’arte con Lionello Venturi: era fondamentalmente crociano anche lui, ma si era reso conto che la critica crociana non spiegava nulla o poco dell’arte figurativa. Condannava il Barocco, l’Impressionismo, tutta l’arte del nostro secolo, che – ci spiegava Venturi – era la parte più viva della cultura europea contemporanea. Giacomo Debenedetti non era un crociano di stretta osservanza: aveva una vasta conoscenza della letteratura contemporanea, specialmente francese. Sul suo vivace interesse per la pittura francese moderna influì certamente l’amicizia con Venturi, ma anche Renata Orengo, di cui era fidanzato. Con commozione la rivedo in quest’aula insieme con la figlia, che fu mia allieva e assistente ed ora insegna in questa Università. Signora Renata, ricorda? Lei era allora con me allieva di Venturi, preparava una tesi sul Carpaccio e fece un’esercitazione sul Perugino. Se non le sembrerà troppo indiscreto, le dirò anche che indossava, in quei gelidi inverni torinesi, un cappotto verde scuro col collo di castoro, ed era molto ammirata.
Il contatto con Debenedetti e Venturi suscitò in me, né solo in me, i primi dubbi verso la religione crociana: fortunatamente era una religione liberale, si poteva eccepire senza abiurare. La situazione torinese, in quegli anni, per quanto concerne l’arte figurativa, era tutta in movimento. L’anno in cui uscirono i primi saggi critici di Debenedetti, il 1929, è anche quello in cui si formò la Scuola dei Sei pittori, un gruppo di giovani pittori quasi tutti provenienti dalla civilissima scuola di Felice Casorati, ma civilmente dissidenti dal loro maestro e nettamente orientati verso la Francia, specialmente Cézanne e Matisse. Nello stesso anno un giovane architetto scandalizzava la tradizionalista Torino con il palazzo per uffici costruito in corso Vittorio per il finanziere Gualino. E Gualino fu anche il promotore, d’accordo con Venturi, Casorati e Debenedetti, di una molto più estesa conoscenza dell’arte, della musica, del teatro europei.
Ma ho un più specifico motivo di gratitudine verso Debenedetti: dai suoi scritti imparai a conoscere o anche soltanto a leggere Proust. Per me fu una rivelazione e, lo riconosco, il mio giudizio era del tutto interessato: Proust mi aveva aiutato a capire in profondità, nella struttura linguistica la pittura impressionista e post-impressionista.
La nozione di Europa che ci si fece in quegli anni, era assai limitata, ne convengo; e convengo che la Francia-Europa, per noi era un’ideologia più che una realtà storica. Ma, per noi che vivevamo in regime fascista, la Francia era la libertà col berretto frigio: lo so, non era così, ma così l’amai in quegli anni e non me ne pento, così in fondo l’amo ancor oggi, in questo anno del bicentenario della rivoluzione (anche se per me, scusatemi, la rivoluzione francese è il 1793).
La guerra, la persecuzione razziale: con Giacomo Debenedetti ci rivedemmo di rado fino al suo ritorno a Roma, dopo la liberazione. Cominciò allora un nuovo periodo non solo d’amicizia, ma di collaborazione. Giacomo ebbe da Alberto Mondadori l’incarico di fondare Il Saggiatore: Giacomo mi volle vicino a sé insieme a Enzo Paci, Remo Cantoni, Luigi Rognoni. Ricordo con commozione gli interminabili dibattiti a Milano: giornate attorno a una tavola per decidere lo stile, il tono di una traduzione. Non solo, a me Giacomo fu insieme amico, maestro e compagno. Della straordinaria bellezza dei suoi corsi universitari sono prova i libri che ne furono dedotti: su Verga, su Pascoli, su Tommaseo. Non insegnava quello che sapeva, insegnava per imparare: l’insegnamento era ricerca aperta, non comunicazione di una ricerca compiuta. E poiché non s’insegna senza simpatia per chi ascolta, il suo insegnamento non è soltanto il frutto di una grande dottrina, ma di una grande umanità. In sé coltivò soprattutto, giorno per giorno, l’inquietudine critica, non si fa critica senza inquietudine. C’è ancora chi rimprovera a Debenedetti, come fosse eclettismo, l’intreccio nella sua opera, di un filone freudiano e di un filone marxista. Di fatto, sentiva l’antinomia delle due linee di pensiero come un’aporia della cultura moderna e cercò di superarla con una severa stringente dialettica.
Finisco, signora Renata. Colleghi: molte cose certo ha lasciato a noi tutti Giacomo Debenedetti e grande è il nostro debito: molto più grande, credetemi, è il debito per l’inquietudine critica che ci ha lasciato come quello che ha di più prezioso (e di più precario) la cultura del nostro tempo.