Debenedetti, Saba e la poesia del Novecento

di Marco Forti

Siamo da tempo convinti che non si può parlare di poesia del Novecento senza parlare anche di una poesia dell’Antinovecento di cui, a suo tempo, aveva parlato Luigi Baldacci, se non andiamo errati proprio a proposito di Giacomo Debenedetti; una formulazione critica che Baldacci ha poi ripreso in tutti i casi in cui il Novecento poetico post-simbolista e purista si è mischiato con altro, o addirittura rovesciato nel suo contrario (1). Siamo così già nel pieno dell’argomento di questa relazione, e in una condizione adatta a mettere a fuoco la ragione per cui, fino dalle sue prime ricerche, quelle dei Saggi critici del 1929, accanto ai nomi di Croce, di Michelstaedter, di Radiguet e di Proust, Debenedetti ha posto vistosamente in luce il nome e l’opera di Umberto Saba (2). In questo libro, fin dal suo primo saggio in argomento La poesia di Saba, raccoltovi dopo la sua originaria pubblicazione su “Primo tempo(3), Debenedetti ha messo in rilievo per Saba

« … la sua passione individuale; accettata, come cosa di natura, coi suoi limiti che si patiscono, meglio che non si definiscono: e quasi senza preoccupazioni di redimerla dall’immediata biografia in cui nasce… » .

Ne metteva il carattere decisamente a contrasto con la maggior poesia del tempo caratterizzata dal

« … vagheggiamento di una “forma” in sé sola vivente, fondata su valori figurativi e musicali, sull’ordine quasi astratto degli elementi, sul loro peso intrinseco… » .

Saba operava invece al di qua di queste esperienze o, per lo meno, quando esse comparivano nella sua poesia, esse si disponevano

« … sullo stesso piano di altre che l’accompagnano… ».

E queste altre, in Saba infine dominanti, erano quelle che lo portavano su un piano di più libere avventure, di un candore autobiografico capace di risolversi in una poesia di sentimenti, di una musicalità poggiante sul vero e su una sua interpretazione anche etica e riflessiva. Questo è quanto appariva a Debenedetti come già determinante nel Canzoniere sabiano del 1921, quello che veniva da lui allora commentato, di cui il critico precocissimo metteva con chiarezza in risalto insieme all’autobiografismo e alla confessionalità, la sensualità “onesta e contenuta”, non indenne da una psicologia “schiva e melanconica”, lontana da ogni sgargiante esteriorità di tipo dannunziano e, semmai, caratterizzata da una sua innata melanconia ebraica (4).
Abbiamo citato largamente da questo primo saggio sabiano di Debenedetti, perché vi si mettono presto a fuoco gli elementi che, purulteriormente sviluppati, caratterizzano e caratterizzeranno la sua lettura di Saba e, da essa, di tutta la poesia del Novecento. Il critico vi pone, per cominciare, in rilievo il giovanile impressionismo di Saba, un sentimento che sfiora le cose e non le volge mai o le immobilizza in verticale; semmai guardandole con occhio

« … profondo e, ad un tempo, fuggitivo a cui non si preclude nessuna vista… ».

Così nell’ordinato complesso del Canzoniere, dopo un inizio, in cui dovrà impossessarsi in modo forse in parte divagante della nostra maggior tradizione lirica, solo nei Versi militari ci sarà, per Debenedetti, quel balzo in avanti che anticipa

« … quella solidità e determinatezza luminosa che Saba non ritroverà, così continuamente, se non assai più tardi… ».

Tutto quello che finora si riassumeva in una vaga musica di malinconia, è ora

« … “calato” in rappresentazioni precise e schiarisce in effetti di sicuro contorno… ».

E in questo caso egli saprà giustamente distinguere la poesia di Saba, in Osteria fuori porta ad esempio o nella serie idillica di Casa e campagna, da quella allora in voga dei crepuscolari, o dal più sottile giuoco fumista di Palazzeschi. Persino il “romanzo” poetico di Trieste e una donna, in cui l’esistenza di un’altra vita avrebbe costretto il poeta ad accettare una visione delle cose che non fosse solo sua, lo avrebbe in altro senso allontanato da quell’unità lirica

« … fondata su un’attitudine di calma attenzione alle cose… »,

che per il critico è e sarà il senso reale della sua poesia, ora troppo frequentemente sviato verso il drammatico e il narrativo. Altri mezzi poetici gli ci sarebbero voluti per affrontare liricamente una si complessa materia la stessa che il critico vede riduttivamente anche nei Nuovi versi alla Lina. Mentre, con le poesie di La serena disperazione, la materia nuova della poesia, da episodica ed esteriormente coinvolgente avrebbe infine ritrovato l’unità indispensabile, secondo il critico, e un’espressione interiorizzata del disegno, ora non più caratterizzato dal semplice “assolo” di prima, ma dalla meglio concertata “armonia di un’orchestra bassa”.
Insomma, per Debenedetti, ancora nel suo primo scritto sabiano dei Saggi critici del ’29, sarebbe stato indispensabile seguire tutto il lungo percorso che avrebbe portato il poeta a perfezionarsi nelle Cose leggere e vaganti, in una poesia che pur nutrita, come sempre in Saba, dalla materia comune e giornaliera dell’esistenza, avrebbe saputo trarne il fiore, le

« … fecondazioni avvenute tutte alla temperatura del vero estro… ».

A un tal punto di tensione lirica da farvelo provare sui più diversi registri: i ritratti, le favole, gli epigrammi, che vi sbocciano su un piano di espressività amorosa il più delicato e sorridente. Lo stesso che, nella subito seguente Amorosa spina, avrebbe fatto toccare al poeta la lirica concretezza di un “pensiero dominante” che crea dal suo interno le situazioni che lo fanno in continuazione fiorire.

« … Una continuità così spontanea e sicura – dice – il poeta non l’aveva toccata mai per l’innanzi; o solo ad alcunché, nell’apparenza, di similmente continuo si era ravvicinato, ma con ben minore valore d’arte, sotto l’impulso della passione tragica e flagrante… » in Nuovi versi alla Lina in Trieste e una donna.

Ora invece Saba arriva a ispirarsi totalmente all’interiore fissità di un sentimento, e a quelle più fonde rivelazioni che solo una musica “sa sprigionare” e che, nelle ancora successive Canzonette,

« suscita e tornisce un vero mito canoro ».

Qui, per il suo critico,

« … Sogni e scherzi; amarezze e tristezze; aspirazioni e figure sono travolti nell’incalzante tripudio dei suoni… ».

Ma anche nel caso delle Canzonette e del connesso Preludio, Debenedetti non perderà di vista la base concretamente autobiografica da cui nasce sempre per lui la poesia di Saba, e la distanza che, anche in questo caso, corre fra il genere letterario adottato della canzonetta, e il suo modello solo esteriormente simile del Settecento. Anche questo Saba ormai maturo e libero, per il suo critico,

« … non riesce a dimenticarsi mai di nulla e la sua tristezza non sopita risuona dentro i modi semplici e mossi, temprando, col peso di una vita che non cessa di dolere, la felicità che sopra le scorre, liquida e capziosa… ».

In questo spirito di adesione sistematica alle diverse parti del Canzoniere, Debenedetti che ne ha giustamente e metodicamente rilevate sezioni già mature e indiscutibilmente felici, nella parte finale del suo saggio ne avallerà anche altre di transizione verso una sempre necessaria (per lui) chiarificazione psicologica, quando non di ricerca interdisciplinare di enfasi poetica: nel primo caso in Autobiografia, che segue il momento di passaggio da una coscienza puramente sensuale e istintiva della propria eticità, a un possesso psicologicamente più ragionato della stessa fino a coglierne una sorta di “redenzione” ; nel secondo, nei Prigioni, in cui, sulla spinta della lezione di Michelangelo e di un pathos di pose un po’ melodrammatiche, non riconosce alcun momentaneo regresso verso la troppa letterarietà. La vera scoperta che Debenedetti ha saputo fare in questo saggio, che è senza dubbio all’origine del suo lungo e personalissimo viaggio attorno (e assieme) a Saba e sulla poesia moderna vista da un angolo comunque personale, è stata subito quella di averne rilevato con decisione l’istintualità, che mette a fuoco i movimenti psichici senza averli intellettualizzati all’eccesso; di aver saputo indicare nella poesia di Saba una scrittura

« … adeguatamente semplice e dimessa: non tuttavia prosastica… ».

Val la pena di notare quanto questo suonasse controcorrente in una stagione poetica in cui prevalevano i moduli intuizionistici crociani, o quelli della “poesia pura”; la nuda scansione di una parola simbolica, che in altri aveva dato esiti sicuramente eccellenti, ma che non si addiceva a un poeta di diversa estrazione e formazione come Umberto Saba. Nel suo caso si sarebbe trattato, con Debenedetti, di porre in rilievo

« … una scrittura dove trovi più di purità che di splendore. Purità che risulta dal modo come nascono espressioni e parole; e che aspira a tradurre, col massimo di trasparenza, i dati della vita: il casto lume delle cose si traspone nelle parole secondo una legge che vorrebbe essere di identità… ».

In lui la suggestione poetica nascerà sempre dalle cose che vivono immediatamente sotto le parole, e creano immagini concrete entro cui il lettore si aggira. E pertanto per Debenedetti la poesia di Saba non si nutre di magici riecheggiamenti, ma di veri tocchi realistici, nei quali è maturato l’originario impressionismo in più complessa funzione evocatoria. Così, nelle ultime sezioni che si sono nominate del Canzoniere del 1921, le antiche forme tradizionali adottate dal giovane Saba assumono una nuova spontaneità creativa. L’imitazione dei maestri che era la mossa iniziale delle sue prime prove diventa, nella maturità, quasi un premio,

« … quasi la gioia di scoprire, tra modesti orizzonti familiari, frammenti del mondo dei maestri… ».

La stessa adesione critica, rivissuta dall’interno del Canzoniere, Debenedetti l’avrà anche nel secondo saggio Per Saba, ancora, raccolto ugualmente nel vecchio volume dei Saggi critici, in questo caso dal numero di “Solaria” dedicato a Saba nel maggio del ’28, (5) in cui il lettore proietterà la sua visione più avanti, sulle diverse sezioni che andranno ad ampliare le successive edizioni del Canzoniere stesso. (6) Critico verso il modo in cui il mondo delle lettere aveva accolto Preludio e Canzonette, o Autobiografia, o i Prigioni, per noi, in verità, dall’esito caso per caso diverso e a  volte discutibile, Debenedetti avrebbe cercato di fare una sintesi di tutto il precedente lavoro di Saba (e suo), proiettandolo verso le successive e pienamente risolte, e spesso felicissime sezioni del Canzoniere. Così in Figure e canti indicherà un binomio tipicamente connotatore del primo Canzoniere: nelle “figure” che erano state la iniziale aspirazione della poesia di Saba; e nei “canti” che ne sarebbero stata la prima raggiunta espressione. Nelle une e negli altri, si sarebbe risolta l’innata melanconia di Saba specchiata nei sentimenti. Fra questi poli fissi la vita è

« … un testo di romanza, un toccante libretto per musica… »

entro i cui termini si sarebbe potuto collocare il Canzoniere del 1921 nella sua interezza. Ma già di là da questi termini, la successiva e già tanto più matura sezione di Cuor morituro

« … si palesa – nell’impianto, nell’ispirazione, nei tratti più riusciti – come l’episodio melico che tien dietro, col nesso dianzi delineato, ad una serie di canti e di figure… ».

Qui, secondo Debenedetti, si palesa infine già quell’unità melica che coniuga fra loro tutti i diversi elementi sogni, pensieri, fantasie – di cui è composta al suo meglio la lirica di Saba: per esempio in una poesia come La casa della mia nutrice, in cui quest’unita perfettamente congegnata è raggiunta in modo anche più segreto e profondamente espressivo. La sua unità formale é sinonima di un’altrettanto raggiunta maturità umana e psicologica del sentimento poetico che si esprime. Le cose di cui, un tempo, era costituita la poesia di Saba si sono fatte voci, a sgorgano dal di dentro

« ... perché – dice il critico – convinto nel cuore, esse hanno appreso le loro suadenti affinità… ».

Tutto ciò risulterà a vari livelli di intensità e di riuscita in più di un esempio addotto qui da Debenedetti nell’ambito di Cuor morituro e, più avanti, degli ancora successivi e felici Preludio e Fughe. Ma l’affinità di Debenedetti col suo poeta sarà cosi completa e fin complice, da suggerirgli pensieri critici benevoli perfino nei confronti dell’ampio poemetto narrativo L’uomo intermedio fra le due sezioni prima nominate, non a caso dedicatogli dall’amico poeta, in cui i diversi elementi di questa desiderata unità musicale, gli fanno raggiungere, in questo caso, una figuratività soprattutto esteriore e volontarista, un “fare grande” troppo programmatico, che abbiamo visto con occhio altrettanto perplesso nella similare statuarietà dei Prigioni. È vero che, in L’uomo riemerge anche in quaIcosa il più opportuno elemento popolare e addirittura realistico dei giovanili Versi militari, la “calda vita” che avrà successo più tardi con alcuni critici e con uno scrittore come Quarantotti Gambini, (7) a cui si potrà legare per certi aspetti la poesia di Saba nel secondo dopoguerra. Ma vi rimane, a nostro parere. evidente la ricerca affrettata e volontarista di un andamento poematico, con la raffigurazione di un simbolo generico e totalizzante di umanità, che non si confà alle semplici e naturali mezzetinte del nostro poeta e, al massimo, si sarebbe adattata a una “suite” narrativa, o al romanzo a cui Saba ha ciclicamente aspirato nella sua lunga parabola, e che ha raggiunto solo una volta col prodigioso Ernesto (8). Ben altri esempi di questa unità musicale Debenedetti avrebbe saputo trarre, alla fine del suo saggio, da Preludio e Fughe.
Ebbene, secondo Debenedetti e anche secondo noi, le Fughe

« … compiono la definitiva liberazione di queste voci nella loro purezza. Più che di Fughe, in senso stretto – dirà – si tratta di dialoghi, dove le varie istanze che si levano dal fondo dell’anima di Saba. prendono a volta a volta la parola… ».

Siano esse quelle della “calda vita” popolare, o dell’antica melanconia ebraica, o della ingenua schiettezza dei giovani sentimenti, o della più ironica e distaccata saggezza della maturità, le tante voci che cantano nel cuore del poeta e del suo Canzoniere, trovano nelle Fughe le loco vere figure. Le voci delle Fughe, Debenedetti lo dice molto bene sono quelle delle eterne antitesi, che si sprigionano dal seno della vita,

« … una variazione continua dei “sì” che diciamo alla vita, e dei “no” che immediatamente si levano contro questi attimi di abbandono... ».

E se l’una voce è negativa o discorde, dalla stessa matrice nascerà il contrappasso che ce la restituisce in positivo. Il culmine di questo giuoco di contrari fuggevoli e inteneriti, che la stessa voce poetica riconduce a un suo lume d’ideale, si darà nella sesta poesia della serie, Canto a tre voci. Le tre istanze di gioia, melanconia a contemplazione che, dall’origine, hanno caratterizzato per Debenedetti la poesia di Saba, vi si specchiano; e sciolte da ogni pretesto occasionale, si modulano in parole sensuali e, tuttavia, incorporee. Questo saggio si sarebbe chiuso con la convinzione, da parte del critico, di aver messo a fuoco una poesia che, direttamente e senza simboli intellettualistici, offre un “dono d’anima al lettore, in una stagione dominata da poetiche diverse, come si è detto, puriste e post-simboliste.
Si sarebbe dovuti arrivare ai saggi sabiani di Debenedetti nel Secondo Dopoguerra, perché tutta questa materia e quella che si sarebbe aggiunta a rendere il Canzoniere di Saba quale oggi lo leggiamo, venisse da lui ulteriormente ripercorsa a ripensata (9). Non più soltanto con lo spirito analitico e di cauto psicologismo critico, che aveva caratterizzato i due scritti sabiani dei vecchi Saggi critici, ma con una visione più rapida e sintetica, e in cui la precedente analisi si sarebbe mutata nel tipico “racconto critico” di stampo psicoanalitico, che avrebbe caratterizzato d’ora in avanti e fatto non di rado eccellere la stagione post-bellica di Debenedetti (10). Se, nel Ritrattino del ’45 (11) il Saba di Ultime cose non più perseguitato e ramingo per la campagna razziale fascista e ancor più per la minaccia dello sterminio nazista, poteva ormai avere il posto primario che da sempre gli spettava nella poesia del Novecento, a questo poeta Debenedetti riconosceva ora più scopertamente la psicologia dell’escluso,

« … ma non più perché le cose gli si rifiutino; anzi perché lui ha rinunziato ad afferrarle… ».

Quelle che un giorno inseguiva come “figure” , ora al lume della memoria gli tornano come “presenze”. Nel successivo saggio (del 1946) Il grembo della poesia (12), Debenedetti andrà più in là su questa via, nell’indicare come indispensabile allo spirito labirintico del suo poeta il bisogno di fare i conti col “filo d’oro della tradizione”, e di distruggere in sé la severità della propria madre, prima di

« … trovare altrove la necessaria dolcezza del grembo materno... »,

arrivando così a esprimere nel Canzoniere un suo più diretto messaggio sull’uomo.
Se per questa via Saba ha praticato lungamente l’idillio, Debenedetti riconoscerà ora più esplicitamente nella poesia di lui, mezzo ebreo triestino, la psicologia di un “uomo in fuga”. La sua, dirà,

« … è come la psicologia di un perseguitato da qualche cosa di nascosto nelle radici… ».

Nelle sue più tarde raccolte – Parole, Ultime cose, Mediterranee – egli perpetra dentro di sé un baratto: accetta la vecchiaia imminente per poter scaricare su di lei la colpa di essere un escluso. Nasce ora in modo esplicito per Debenedetti la nozione di poesia come esorcismo che secondo lui, Saba liberatosi nel tempo da ogni tradizione nietzschiana o vitalistica, ha elaborato, a poco a poco, attraverso Freud. Chi, come lui, è scampato una volta alla persecuzione, dovrà continuare a farlo per sempre. Moderno Ulisse, egli avrà accolto per sempre in sé una nozione non autoritaria della poesia intesa come frutto di una memoria anche in parte involontaria, come grembo materno ritrovato ogni volta nel fondo mitico di sé, traversando tutte le prove e le desolazioni da cui la parola, ancora direttamente lirica, esce ora redenta e comunicativa. È un cammino che il critico ripercorrerà e amplierà in una sorta di ritratto a tutto tondo in Quest’anno… del 1957, il discorso letto da Debenedetti a Trieste, in occasione delle Celebrazioni di Saba di quell’anno. (13)
Qui, proponendo sulla scorta di De Sanctis e di Thibaudet una nozione di poesia “tutta cose”, che ora vede realizzarsi lentamente, ma pienamente nel Canzoniere, Debenedetti ne ripercorre l’intera parabola in cui il poeta, sociologicamente “piccolo borghese” sa trovare tuttavia la nozione del dramma; per esempio nel complesso romanzo coniugale cantato in Trieste e una donna e, comunque, nell’atavica angoscia del perseguitato che pervade tutto il libro, anche nelle sue parti più distese e gioiose, nel crescervi della già ricordata nozione esorcistica

« … di uomo che automaticamente abbozza il gesto di ripararsi dal diluvio, anche quando il cielo è ancora sereno… ».

E tuttavia, anche in questa condizione psicologica difficile, Saba avrebbe evitato di seguire le poetiche post-simboliste che suggeriscono la musica assoluta delle cose piuttosto che il nominarle, e mettendo prima di tutto a repentaglio il proprio nudo cuore. Diversamente da Ungaretti e da Montale, che di tali poetiche intellettualistiche hanno prevalentemente nutrito i loro pur tanto alti simboli, nella grande triade novecentesca Saba ha seguito un cammino inverso. Debenedetti – invero qui forse debitore della famosa “Anguilla” montaliana (14) – confronta il percorso poetico di Saba con quello del salmone che dal mare risale alle sorgenti

« … per andare a compiere il suo atto più vitale: l’amore fecondante… ».

Il Canzoniere ne sarà il luogo e il mezzo. Poeta inizialmente verista nei Versi militari, non lo sarà già più in Trieste e una donna, il cui “romanzo” poetico si articolerà in stampi melici esemplari, che andranno comunque contro le ricerche prevalenti delle avanguardie del tempo. Finché, preso sulle proprie spalle il peso della propria biografia di “nipote del ghetto”, il poeta ne avrebbe pervaso l’intera parabola del Canzoniere con le sue pene e i suoi affetti, con la sua cruda gioia strappata all’esistenza anche quando, da un capitolo all’altro, è divenuta dramma e melodramma.
Si tratta, in questo caso, di un melodramma “sui generis”, la cui musica non indora le parole di un libretto, ma dove viceversa la poesia di Saba

« … ci appare come staccata in quell’attimo dalla linea invisibile di una musica non scritta, ma di cui l’aria serba la presenza a l’impronta… ».

Proprio in questa chiave Debenedetti ribadirà la sua fiducia in un poemetto come L’uomo, che per lui è, nonostante tutto, parte importante di quel macro-testo a poema autobiografico che è il Canzoniere. Un libro completo i ormai anche di tutte le sue parti post-belliche, inclusi gli squisitissimi Uccelli con cui il vecchio poeta esorcizza favolisticamente gli squallori della depressione senile, se non la morte:

« … II vecchio verista – dice il critico a sua volta e fino all’ultimo compagno di strada, se non magistrale psicoanalista del poeta che ha sempre seguito – era ormai tranquillo di essere riuscito ad alzare le cose anche al di sopra di ciò che il verismo prometteva: dal vero dell’oggi al vero di tutti i giorni possibili... ».

Questo stesso vero Debenedetti lo avrebbe indicato come struttura portante della poesia anche nell’ultimo saggio sabiano del 1960, La sua Quinta Stagione, (15) ormai postumo a Saba che era morto nell’agosto 1957, in cui riorganizzando cronologicamente le poche poesie postume di Epigrafe con quelle praticamente coeve e già note di Uccelli e di Quasi un racconto, ne riconduce ancora rigorosamente la materia sul piano dell’esorcismo psicoanalitico. Vi vede espressa pienamente la facoltà di confessare ed esprimere fino all’ultima stilla e con interezza il bene e il male di una vicenda, che è ormai solo di Saba nell’ambito dei massimi esiti poetici novecenteschi: una poesia

« … che serba tutto il quantitativo di mistero che naturalmente compete alle manifestazioni del fenomeno vita; ma senza l’aggiunta di alcun accessorio misterico… ».

Per far questo Debenedetti ricostruisce – non certo per curiosità, ma per indispensabile necessità esegetica – tutti gli elementi pratici della biografia sabiana, che gli hanno permesso di trovare anche qui, insieme a un suo persino drammatico capro espiatorio, il senso infine catartico di una stagione poetica tenuta segreta, che ora vuole (e può) sopravvivere anche a se stessa. Così come nella vecchia serie di Il piccolo Berto Saba era giunto a questo sacrificando esorcisticamente sé bambino, così Debenedetti riesce magistralmente a indicare qui la realissima vittima esorcistica di queste poesie rimaste inedite, mentre coevi attorno e insieme ad esse, si alzavano i piccoli miracoli favolistici di Uccelli e di Quasi un racconto. Per il critico, grande quanto inevitabilmente impietoso, l’ultimo prezzo che il “vero” poetico di Saba avrebbe dovuto pagare per durare oltre la particolarità della propria autobiografia, sarebbe dovuto essere la “follia” e la perdizione del modello reale che gliene aveva dato lo spunto, e infine la stessa morte del poeta che ne avrebbe suggellato la metafora:

« … Ma valga quel che valga la metafora – conclude Debenedetti – tutto si è svolto come se, proprio nel disegno di Saba, la sua morte dovesse operare su queste poesie una vittoriosa psicanalisi: guarirle dei complessi che contagiavano anche loro, finché rimanevano attaccate a lui vivo. A compenso degli esorcismi delusi, si sarebbe visto che almeno questo si compiva… ».

Quella che abbiamo visto finora è una materia che, insieme a molta altra, sarebbe andata a depositarsi nella circa coeva discussione fenomenologica sulla poesia del Novecento, che avrebbe formato i nove quaderni che servirono di base per le lezioni tenute da Giacomo Debenedetti all’Università di Roma nell’anno 1958-1959; infine pubblicati nel 1971 per la cura scrupolosissima di Renata Debenedetti nello straordinario volume postumo, che avrebbe assunto il titolo complessivo di Poesia italiana del Novecento (16). Ma in questo caso il discorso, da Saba, pur sempre visto al centro di una materia in cui è figura comunque primaria, ma noti da tutti vista quale esclusivamente dominatrice come la intendeva Debenedetti, il discorso si allarga anche a tutti gli altri protagonisti di quel vasto e decisivo svolgimento della poesia del Novecento, che insieme a Saba include Montale, Ungaretti, e del pari i più giovani o emergenti Luzi, Penna, Noventa, Sereni. Ma il libro che ora leggiamo non vuole fare storia, né essere esaustivo di una materia certo più vasta nelle sue diverse componenti e articolazioni, ma mette invece magistralmente a fuoco alcuni temi che Debenedetti aveva già in parte sollevato nei diversi saggi su Saba che abbiamo prima letto. Noi stessi all’inizio di questa relazione li abbiamo indicati in quello più generale della poesia del Novecento, che non può essere tale, né vista nella sua straordinaria ricchezza e molteplicità, se non in quanto inclusiva anche di un Antinovecento antipurista e più vicino al reale e al vero, e persino in certi casi in dialetto. Debenedetti, in questo libro, avrebbe affrontato questi temi con linguaggio talvolta diverso dal nostro, semplificando evidentemente a fini didattici quello che a nostro modo di vedere, avrebbe avuto bisogno anche di più articolate sfaccettature e classificazioni per mostrare tutta la sera varietà, ma mirando invece, con un’affascinante capacità di giuoco intellettuale e di racconto critico, al cuore del problema che lo interessava. Quello del purismo ed ermetismo di gran parte della poesia moderna, del suo spiritualismo post-simbolista; e di contro del verismo, di una drammaticità più legata alle cose e alla vita, che pure sopravvive in alcuni suoi protagonisti come, appunto, in Saba.
In Poesia italiana del Novecento Debenedetti comincia con l’affrontare il problema dalla sua origine a cioè da quando le Avanguardie Novecentesche, per superare il lavoro della vecchia triade tardo-ottocentesca di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, si sarebbero ricollegate al Simbolismo e allo Spiritualismo francese dell’abate Bremond, e soprattutto alla grande lezione di Mallarrné e del suo continuatore Valéry, cavandone quella dimensione di Ermetismo – e qui non faremmo molte più distinzioni fra quest’ultimo, il Simbolismo, la Poesia Pura e altre forme di Avanguardia europea di quante non ne abbia fatte Debenedetti – in cui, secondo lui si sarebbe soprattutto fissata la poesia novecentesca nella sua dimensione di ricerca ontologica e orfica, di una parola fine a se stessa e di una propria assoluta espressività, distante da ogni referente mondano o relazionale che non fosse parte della sua stessa irrelatezza ed assenza. Sempre nel primo capitolo del libro, con l’appoggio teorico di Spitzer e di Hugo Friedrich, e di letture esemplificative di due poesie di Montale e di Vigolo, e viceversa dando la sua idea suggestiva e persuasiva di un famoso sonetto di Mallarmé e del Chef d’oeuvre inconnu di Balzac (17), Debenedetti avrebbe messo a fuoco la sua dimensione ermetica della poesia moderna, che avrebbe visto proiettata su gran parte degli esemplari da lui poi descritti in questo libro, e comunque tale da

« … diventare, attraverso il linguaggio, l’organo dell’Assoluto chiuso nella sua “metafisica e claustrale” eternità… ».

Il primo esempio in cui, nel secondo capitolo del libro, egli avrebbe riconosciuto la sua idea, sarebbe stato il Montale alto-nichilista e metafisico delle Occasioni e particolarmente, dopo qualche accenno su poesie precedenti degli Ossi di seppia, come I limoni e Crisalide quello in cui osserva che la poesia può solo constatare la negatività del poeta, oppure

« … l’impetuoso, o secco, o scabro, o scattante, o dolente mostrarsi delle cose … ».

Tale sarebbe stato il poeta di Elegia di Pico Farnese (18). Qui il critico noterà alcuni tipici se non vistosi modi di una poesia che definisce ermetica (e che Pancrazi, più appropriatamente, aveva definito “fisica e metafisica”) (19), fra cui è da notarsi una certa mancanza di antefatti, e l’essere il poeta posto in mezzo a una scena solo apparentemente realistica in cui, nella seconda parte del componimento, eromperà il fantasma forse salvatore della vera ispiratrice,

« … una specie di ermeticissima Parca severa e amorosamente compagna… »,

infine suscitatrice della pirotecnica di spari che, con l’aiuto del “fanciulletto Anacleto”, avrebbe risotto la poesia. Anche se i successivi studi montaliani hanno messo più appropriatamente a fuoco, in questo caso, la funzione di Clizia, la maggiore ispiratrice di Montale, piuttosto che quella di Mosca come ritiene ingannevolmente Debenedetti (20), egli riesce ugualmente a indicare con molta acutezza la funzione chimerica e modernamente stilnovistica che l’apparizione avrà nella poesia, e proprio nella direzione fra nichilistica e cosmica che la caratterizzerà. AI di là di una possibile interpretazione antropologica dell’ “Elegia”, in cui Debenedetti può comunque esibire il suo sapere e il suo più che affascinante giuoco intellettuale, è proprio nella messa a fuoco dell’intelletto d’Amore dell’ispiratrice che il critico coglie tutti gli elementi, i quali meglio denotano la sua idea e, insieme, altrettanto magistralmente mostrano il senso profondo della poesia e della figura che la suscita,

« … che sarà l’Amore terrestre petrarcheggiato e stilnovizzato, come si diceva, al punto da potersi sovrapporre, fino a coincidere., fino a identificarsi, con l’Amore celeste, invano cercato dalle superstiziose e barbute pellegrine, l’Amore che è intelletto e conoscenza, sebbene qui la religiosità non abbia nulla di confessionale, anzi possa essere addirittura una fede senza speranza, senza Dio… ».

Debenedetti andrà più in là, cogliendo in questa poesia, e in senso lato un po’ in tutta la sua lettura di Montale, quei caratteri di oscurismo o di ermetismo, che egli indica nella difficoltà

« … di cogliere il legame, il rapporto tra il “segno” (cioè quel che percepiamo nell’opera) e la “cosa rappresentata”… ».

Sono vere e proprie annotazioni semiologiche avanti lettera, che gli faranno riconoscere nella poesia ermetica

« … una serie più o meno organizzata di “stimoli” sensori [...] l’evidenza sensibile, percettibile delle singole notazioni, a contrasto con l’oscurità e la non obbligatorietà del significato… ».

È un carattere che nel terzo capitolo del libro, Possibilità di razionalizzazione e di storicizzazione, egli metterà in rapporto con la crisi delle borghesia come poteva essere intesa in quei tardi anni ’50, e col legame un po’ troppo semplificato di sociologia letteraria, che egli ne deduceva con l’arte del Decadentismo in generale e, in particolare, con la poesia priva di un referente esplicito. Si sa che le cose sono state (e sono) più complicate di così. Se ne sarebbe accorto lo stesso Debenedetti alla fine del capitolo, indicando i veri precedenti delle propria teoria letteraria dell’Ermetismo, oltre che nell’opera di Mallarmé, nella notissima formulazione di Rimbaud nella famosa lettera del “veggente” a Paul Demey del 15 maggio 1871:

« … Perché Io è un altro. Se il rame si risveglia tromba, non ne ha colpa. Questo mi è chiaro: assisto allo schiudersi del mio pensiero… » (21).

Veramente appropriate a impersonare la sua idea della fenomenologia ermetica (per noi, in verità, sempre troppo vicina se non coincidente con quella delle poesia pura) sarà la lettura che Debenedetti fa del secondo Ungaretti di Sentimento del tempo nel suo magnifico esempio di Lago Luna Alba Notte (22), una poesia, che sembra incarnarne tutti gli indispensabili connotati. Qui il critico rileva, prima di tutto, la rimbaudiana polverizzazione dell’ “Io” nell’ “altro”, in questo caso negli essenzialissimi elementi naturali che, all’istante, diverranno puro suono, specchio metaforico di una luminescenza che, impalpabilmente, assorbirà ogni tensione poetica. Anche l’uomo che, a un tratto, compare davanti allo specchio mai nominato del lago notturno, sarà un’apparizione perfettamente aliena alla scene, irrelata ad essa come il tempo che passa da notte a giorno. Diverse, al confronto, dalla figura umana che compare nella chiusa della poesia Inverno, in Parole di Saba (23), apportatrice di un’improvvisa note di calore umano, se pure al termine di una visione altrettanto nordica e congelatrice. La figura, nella poesia di Ungaretti, sarà invece un purissimo emblema, che anticipa analogicamente l’improvviso di

« … Conca lucente
Trasporti alla luce del sole!… »,

che esprime infine e brucia ogni residuo fisico della sua idea poetica nella sua nuda essenzialità. L’intera poesia, con suo finale astrattivo, risulterà così un perfetto disegno dei singoli elementi che la formano, spinti verso il finale

« … Tempo, fuggitivo tremito… »,

che ne esprime il sentimento nella pura musica dello spazio-tempo. Per Debenedetti c’è in Ungaretti una ineludibile forza di apparizione delle singole immagini, che esprime simbolicamente un arcano; o che, nel più maturo o tardo poeta della Terra Promessa, o di Taccuino del Vecchio fa curvarsi l’assoluto analogismo della giovinezza in un maggior senso di distacco dal mondo, in un’impossibilità di agire, di partecipare alla pazienza e alla fretta terrena, semmai volgendosi al candore di “un paese innocente”, come il poeta lo aveva chiamato una volta nell’AIlegria (24). Certo è che la figura e l’opera di Ungaretti corrisponde meglio di ogni altra a quell’idea della poesia ermetica che Debenedetti ha indagato in questo libro per coglierne l’essenza, l’ineluttabilità verticistica, la nuda scansione verbale, quasi al contrario di quanto ha caratterizzato in passato la sua lettura di Saba e di come, più avanti ancora in questo libro, vedrà la parabola sabiana. L’altro poeta che in questo caso avrebbe incarnato invece insieme a Ungaretti, la sua fenomenologia dell’Ermetismo sarebbe stato l’allora più giovane Mario Luzi, lui sì ermetico anche secondo la nostra accezione un po’ più restrittiva, negli anni del suo giovanile esordio di Avvento notturno, ma un poeta che anche nella maturità post-bellica di Onore del vero (25), avrebbe resistito su posizioni caratterizzate da una interiorizzazione meditativa della propria voce lirica, in un mondo caratterizzato da luoghi ed eventi reali, ma anche simbolico di una situazione in cui il reale si spiritualizza e il poeta volge infine alla “sarabanda” di una ricapitolazione analogica di tutto sé. Questo avviene in una delle poesie più belle e significative di Luzi, Nell’imminenza dei quarant’anni, di cui Debenedetti fa un esame ravvicinato, confrontandone il linguaggio con quello dichiaratamente ermetico del Luzi di anteguerra, ma arrivando infine a conclusioni, che riconducono anche la poesia odierna di Luzi a quella inconoscibilità di fondo, che ne è la vera cifra intellettuale oltre che il blasone spirituale.

« … Pare che il linguaggio ermetico - ne dirà in proposito - nella sua oscurità immediata, letterale, sia scomparso solo per dare atto che il destino delta poesia è divenuto inesorabilmente ermetico, giacché essa non può che testimoniare l’esistenza di qualche cosa di indecifrabile, di sfuggente all’ordine razionale, all’ultima conoscibilità… ».

Anche nel Luzi più tardo Debenedetti non potrà non rilevare infine una visionarietà di mistico, un pensiero poetico che, si stacca dall’Io individuate, della

« … continuità del suo tempo cronologico, vissuto, per spiccare un salto che lo porta nell’eterno. cioè fuori del tempo… ».

Fenomenologicamente, la poesia di Luzi è per Debenedetti

« … la menzione relativamente chiara di qualcosa di cui si può stabilire l’esistenza solo al di fuori del linguaggio chiaro… ».

Tutto il contrario di quanta il nostro critico ha formulato via via nei suoi diversi saggi su Saba e che, anche in questo libro, ridirà nel suo decisivo capitolo sul poeta triestino. Non staremo a ripeterne le diffuse argomentazioni di cui abbiamo lungamente discusso nella prima parte di questo scritto, contentandoci di ricordarne ora solo certe proposizioni-chiave, indispensabili a cogliere la dimensione di Saba in rapporto alla coeva teoria ermetica e della poesia. Per esempio il modo in cui, ricollegandosi anche a piu recenti proposte di Pasolini e Fortini sull’argomento (26), Debenedetti cominci con l’indicare nel Canzoniere (27) la dimensione non ontologica e non metafisica della poesia, da assimilarsi semmai a quella di un romanzo-poema, caratterizzato anche da suoi motivi di carattere materiale, reale e persino geografico, diversi da quelli dei poeti dell’Ermetismo. Per Debenedetti la particolarità di Saba negli anni ’20 e ’30, è data principalmente dal fatto che mentre gli altri maggiori contemporanei scrivevano della lirica con scopi e intenti puramente lirici, Saba usa i mezzi della lirica con fine più o meno consapevolmente diverso. Nel romanzo-poema del Canzoniere egli tendeva infine al dramma e al melodramma. Il personaggio-poeta vi viene colto nel momento in cui la sua situazione umana e sentimentale arriva a effondersi e sciogliersi, a esalarsi fino a “parlare in musica”. Ed è proprio la vocazione al melodramma (con le sue persino trite rime di “amore-cuore”) che permette a Saba di apparire diverso e più comunicativo in una situazione culturale puristica e verticistica, e a risolvere in dramma musicale le sue (e non solo sue) solitudini e diversità, quelle che i suoi contemporanei hanno invece risolto nella pura lirica. Il luogo del Canzoniere in cui la novità della sue lingua poetica giungerà a piena maturazione sarà nelle Fughe, e in particolare nella Sesta fuga a tre voci, nella cui dialettica, presa già una volta ad esempio (28), di personaggi parlanti – l’estroverso, l’introverso e il narcisistico – prenderà forma e voce la prevista sintesi poematico-musicale.
Non staremo ora a seguire il modo in cui Debenedetti ne fa, in questo libro, una dettagliata lettura. Interessa invece in questo caso dire che anche nei brani della Sesta fuga, quando prevale la terza voce femminile e narcisistica, essa risulterà infine diverse da quella della pura lirica, perché in Saba anche la voce della specularità lirica si incarna sempre in quella di un personaggio parlante, e da un certo punto in poi, in base all’esperienza (se non alla pratica) psicanalitica freudiana, incontrata da Saba proprio a cavallo fra gli anni ’20 e ’30. Nel suo caso il luogo in cui si forma la poesia non sarà tanto quello dell’anima dei puri lirici e degli ermetici, quanto quello infine corporale e materiale della psiche. Anche il più tardo e maturo Saba di Parole e Ultime cose, pur per certi lati più vicino a loro per una maggiore essenzialità e unità espressiva della parole, sfuggirà con mezzi propri alla stretta oppressive del tempo fascista con una poesia diversamente comunicativa e capace, nonostante tutto, di animare il reale e il naturale. Dice benissimo in proposito Debenedetti:

« … Tentando di visibilizzare l’invisibile, o quanto meno di rappresentare in concreto l’invisibile… ».

Modificando ai propri fini una famosa equazione di Barthes sulla poesia a sulla prosa (29), Debenedetti connoterà la poesia del Saba maturo di Parole e di Ultime cose, e anche quello post-bellico, con una diversa equazione, in cui la comunicatività in un contesto reale prevarrà su ogni altra considerazione. Parlerà di una poesia funzionale e relazionale, volutamente non tesa all’assoluto come l’altra maggiore che la circonda; suscitatrice di simboli che non aboliscono le cose, caratterizzata da un lessico portato al quotidiano e a immagini piu affabili, capaci di esprimere attributi nuovi per cose già note, con ritmo scandito e orizzontale, dai metri regolari. Usando ancora una metafora di Barthes, Debenedetti dirà che anche la poesia del terzo Saba più essenziale e scarna, tendente a volte persino all’epigramma, sarà una “quasi-prosa”, ma portata sempre a drammatizzarsi in un’aura, che la farà comunque diversa da quella dei suoi contemporanei.
Così dal lunghissimo capitolo su Saba, Debenedetti scivolerà con naturalezza nel più breve ma intenso capitolo dedicato alla poesia di Sandro Penna, certamente legata a quella dell’ultimo Saba, e persino con un reciproco rapporto di dare e avere, come ha spesso notato la critica più attenta. Ma da Saba, Penna ha tratto autorizzazione a scegliere una sua personale forma di idillio, una poesia relazionale che esprime una vita ordinaria che, in Penna, potrà addirittura risultare l’espressione naturale di una vacanza, della gioia e del dolore di chi è fuori dalla storia, e di chi, sapendolo, ne trae tutta la sua naturalezza a esprimersi e a esistere. Tutto questo Penna lo ha espresso sintomaticamente in un suo titolo famoso come Una strana gioia di vivere (30). Ma la naturalezza, di Penna, se vogliamo la sua mite animalità, sarà certamente diversa dal modo in cui la natura si è riflessa nella poesia degli ermetici e dello stesso Montale, che si è pur specchiata anch’essa in certi aspetti della natura, ma per cogliervi semmai lo specchio di un’impassibilità cosmica, di un universo alto e distante. Per Debenedetti l’universo naturale e relazionale di Saba e di Penna avrebbe trovato semmai un termine di rapporto e di confronto col mondo poetico e culturale di Giacomo Noventa, per più lati diverso da loro, ma meno di quello dei nuovi simbolisti, dei poeti puri a degli ermetici. Dalla loro contemporaneità Noventa avrebbe preso le mosse per rifiutarla, risalendo invece, alle più antiche fonti romantiche, per ritrovarvi un’idea di poesia cristiana e civile, di sentimenti aristocratici, ma comunicativi anche a livello popolare, per via della nativa lingua veneta da lui adottata per meglio comunicare, per esprimere con pienezza sentimenti talvolta all’orlo della retorica e, con orgoglio di gran signore, la sua opposizione al fascismo prima e allo scadimento dell’antifascismo poi, in un mondo bisognoso di nuova verità e idealità. Debenedetti a un certo punto, reassume bene la questione della lingua poetica di Noventa e, indirettamente, anche degli altri, quando dice che in lui

« … la fuga dalla lingua non ha nulla di negativo, di mortificato: è il proclama di un dover essere, che la lingua non è più in grado di definire… ».

Il critico non leggerà qui la poesia di Noventa in quanto tale, ma come esempio della reazione di un uomo vivo, integro, a una storia decaduta; come specimine di un pessimismo storico che, in Noventa, è l’altra faccia di un ottimismo finale. A prova si tratterrà lungamente su una nota poesia di Noventa, Fusse un poeta…. (31) in cui mettendo polemicamente a confronto la sua concezione poetica con quella tematicamente avvicinabile ma radicalmente opposta negli esiti e nei modi del Montale di Mediterraneo, negli Ossi di seppia, si trova a contrapporre non tanto due poesie (che hanno come si sa, o come noi pensiamo, una profonda ragione nella culture poetica del secolo), ma due modi di affrontare, con la lingua della poesia del Novecento, i rovelli, i drammi e infine le necessità espressive del secolo. Non a caso, se nel penultimo capitolo di Poesia italiana del Novecento, dedicato all’impegno politico nella poesia della Resistenza e del Secondo Dopoguerra, Debenedetti sarebbe arrivato a certe conclusioni, lo avrebbe fatto con misura e con forte senso dialettico. Basandosi sul più deciso pensiero di Sartre sull’”engagement” in quei lontani anni ’40, ma anche su quello di Gide (32), più sottilmente problematico nel vedere i pro e i contro di una forma poetica realistica e impegnata politicamente, ma anche peritura e illustrativa quando non capace di esprimere un suo linguaggio autonomo, e non capace di resistere alle semplificazioni della sola eloquenza e della propaganda in versi. In proposito Debenedetti sarebbe arrivato a conclusioni soddisfacenti in merito, ma più ancora nei confronti dell’intera fenomenologia sia ermetica che no del libro, e del corso universitario 1958-‘59 che gli ha dato vita. Ricollegandosi al pensiero di De Sanctis nel suo celebre saggio postumo su Giacomo Leopardi (33), in cui tirando le conclusioni sulla poesia del Risorgimento, a suo tempo accolta dai contemporanei senza riserve per evidenti finalità pratiche, civili o patriottiche, si sarebbe trovato ad ammonire che

« … Ora è venuto il tempo del discernimento e della critica… »,

parimenti Debenedetti nei confronti della poesia civile o impegnata di questo secolo, avrebbe raccomandato che, per essere all’altezza, essa fosse concepita

« … come mondo interno, personale e totale dell’artista, il quale la esprime esprimendosi, e perciò non può fallire o riuscire se non come poeta… » .

Un esempio in ogni senso condivisibile sul suo argomento, proprio in chiusura di libro, Debenedetti lo avrebbe dato nella celebra lirica del Diario d’Algeria di Vittorio Sereni, in cui

Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto caduto bocconi sulla spiaggia normanna
[...] (34)

una lirica radicata proprio nel cuore della poesia del Novecento, a segnare il luogo in cui l’ “exile mito” sereniano, nato nel più vivo del crogiuolo ermetico degli anni ’30-’40, si incontra con il nuovo pressante ingresso della storia nella nostra poesia,

« ... Una poesia ancora riluttante, ma già nuova … », ne dirà Debenedetti.

Ma si sa che, da allora, il pendolo non immobile e mai del tutto afferrabile della poesia del Novecento: fra storia e vicenda individuale del poeta (e dei poeti) e storia civile della comunità, fra ricerca simbolica e semiologica di una lingua in sé espressiva e quella di una lingua democratica e comunicativa “della tribù” , fra l’essere e il dover-essere di un mito ermetico e incomunicabile della poesia e quello di un suo messaggio almeno in parte condivisibile, ha continuato a muoversi e a modificarsi. Forse, a volte, non lo ha neanche fatto nel senso auspicato da Debenedetti in questo suo Poesia italiana del Novecento il quale è, comunque, la “summa” di un argomento che lo ha occupato tenacemente fino dai giovanili Saggi critici, e lo ha via via visto modificarsi fino alla fine. Un critico è prima di tutto lo scopritore di un sistema di valori sugli argomenti che studia, un sistema che via via si modifica e si esprime nella sua durata; ma un grande critico, oltre che portatore di un sistema intellettuale, è produttore di un sistema espressivo, uno scrittore caratterizzato dai modi di un suo linguaggio personale.
Ora sappiamo di non dire nulla di specialmente nuovo affermando che Debenedetti, anche nella sua scrittura, è uno dei pochi sicuri maestri della critica del Novecento; e per giunta, accanto ad altri che sono stati subito e presto riconosciuti fra i suoi compagni di strada, è un maestro le cui azioni hanno continuato a crescere e a maturare anche dopo la sua scomparsa. Possiamo dirlo, in questo caso, per tutte le molte volte in cui le nostre tavole di valori hanno pienamente coinciso con le sue, ma ancor più per quelle, inevitabili su una materia sempre “in fieri” e complessa come quella della poesia del Novecento, in cui questo non è del tutto accaduto. Ebbene, proprio in questi casi, la scrittura di Debenedetti ha saputo tanto più suscitare, far crescere e far condividere le sue non tutte condivise ragioni. Una scrittura critica spesso magistrale nel farsi anche scrittura d’invenzione e di memoria; capace di trovare insieme alle argomentazioni, le funzioni, le immagini e persino le metafore, per penetrare e persuadere mente e sensi del lettore. Un critico che non si è mai confinato nel solo sapere letterario, ma che ha saputo arricchirlo e nutrirlo anche di altro: di sapere filosofico e antropologico, psicologico, musicale, di una nota di modernissimo illuminismo, che non ha mai mancato di lasciarsi peraltro aperta una via verso la profondità dell’essere, la religiosità senza icone dei suoi antenati ebrei. Tutti elementi che avrebbero dato ulteriore fascino alla sua voce di critico. Quest’ultima infine singolarmente somigliante, nel suo raccontare e nel suo trasposto e critico raccontarsi, alla voce della conversazione memorabile, inesauribile dell’uomo Debenedetti che, per chi l’ha conosciuta, può oggi mancare anche dopo tanti anni, quanto e più di quella del maestro, del critico e del memorialista che ancora leggiamo e leggeremo.


NOTE

1 In verità Luigi Baldacci ha intitolato più mimeticamente il suo scritto: Debenedetti a la critica “osmotica”, in “L’Approdo letterario”, n. 39, Nuova Serie, XIII, luglio-settembre 1967; poi ripreso in Giacomo Debenedetti 1901-1967, a cura di Cesare Garboli, Milano, II Saggiatore, 1968. L’idea di una poesia del Novecento non mai disgiunta da quella di un Antinovecento, è stata più esplicitamente formulata e sviluppata in Luigi Baldacci, “Introduzione” a Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Lo Specchio, Milano, Mondadori, 1984.
2 Cfr. Giacomo Debenedetti, Saggi critici. Prima serie, Firenze, Edizioni di Solaria, 1929, da cui sono tratte tutte le citazioni.
3 Giacomo Debenedetti, La poesia di Saba, in Saggi critici. Prima serie, cit., pp. 91-137.
4 Si tratta di Umberto Saba, Il Canzoniere 1900-1921, Trieste, La Libreria Antica e Moderna, 1921; vedi oggi Umberto Saba, Il Canzoniere 1921, Edizione critica a cura di Giordano Castellani, Milano, Fondazione Arnoldo a Alberto Mondadori, 1981.
5 Giacomo Debenedetti, Per Saba, ancora, in Saggi critici. Prima serie, cit., pp. 139-174.
6 Vedi in proposito Umberto Saba, Il Canzoniere (1900-1945), Torino, Einaudi, 1945, e successive edizioni fino a Umberto Saba, Il Canzoniere (1900-1954), Sesta edizione, Torino, Einaudi, 1965. Vedi anche, per ulteriore completezza, Umberto Saba, Tutte le poesie. a cura di Arrigo Stara, Introduzione di Mario Lavagetto, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1988.
7 Si veda, a questo proposito, il carteggio Umberto Saba-Pier Antonio Quarantotti Gambini, Il vecchio e il giovane, a cura di Linuccia Saba, Milano, Mondadori, 1961. È ugualmente il caso di ricordare il romanzo di P.A. Quarantotti Gambini, La calda vita, Torino, Einaudi, 1958, il cui titolo è stato estrapolato, appunto, da L `uomo di Umberto Saba.
8 Umberto Saba, Ernesto, Torino, Einaudi, 1975.
9 Oviamente. i saggi di Debenedetti successivi alla Seconda Guerra Mondiale, avrebbero fatto riferimento ai singoli volumi di Saba, poi confluiti nelle ultime a postume edizioni del Canzoniere, a cui abbiamo fatto riferimento nella nota 6. Per ulteriore completezza, anche in questo caso, vedi Umberto Saba, Tutte le poesie, I Meridiani, cit.
10 Ricorderemo, in questo caso, che l’efficace formulazione di “racconto critico” per il lavoro di Debenedetti, spesso ripresa dai commentatori, è stata originariamente espressa da Edoardo Sanguineti in Canto omaggio a Debenedetti, in Tra liberta e crepuscolarisrno, Milano, Mursia, 1961.
11 Cfr. Giacomo Debenedetti, Ritrattino del ’45, in Intermezzo, Milano, Mondadori, 1963, pp. 29-34, da cui sono tratte le citazioni.
12 Cfr. Giacomo Debenedetti, Il grembo della poesia, in Intermezzo, cit., pp. 35–t3, da cui sono tratte le citazioni.
13 Cfr. Giacomo Debenedetti, Quest ‘anno…, in Intermezzo, cit., pp. 46-69, da cui sono tratte le citazioni.
14 Vedi Eugenio Montale L’anguilla. in La bufera e altro 1940-1954, Lo Specchio, Milano, Mondadori, 1957; ora in Eugenio Montale, L’opera in versi, Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini a Gianfranco Contini. Torino, Einaudi, 1980, e successive edizioni.
15 Cfr. Giacomo Debenedetti, La sua Quinta Stagione, in Intermezzo, cit., pp. 81-98, da cui sono tratte le citazioni.
16 Cfr. Giacomo Debenedetti, La poesia italiana del Novecento, quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1971, da cui sono tratte le citazioni.
17 Vedi, rispettivamente, Stéphane Mallarmé, “A la nue accablante tu”, in Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, 1945; e Honoré de Balzac, Chef-d’Oeuvre inconnu, in La Comedie humaíne, Tome IX, Etudes philosophiques I, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard.
18 Eugenio Montale, Elegia di Pico Farnese, in Le occasioni 1928-1939, Torino, Einaudi, 1939; ora in L’opera in versi, Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini a Gianfranco Contini, cit.
19 Vedi in proposito Pietro Pancrazi, Eugenio Montale poeta fisico e metafisico, in Scrittori d’oggi, serie terza, Bari, Laterza, 1946, pp. 248-256.
20 Ci permettiamo di rimandare, a ulteriore chiarimento, alla nostra “Introduzione” a Per conoscere Montale, Antologia corredata di testi critici a cura di Marco Forti, Oscar Mondadori, Milano, l986.
21 Si veda, in proposito, questa lettera in Lettres de la vie littéraire d’ Arthur Rimbaud (1870-1875), réunies et annotées par Jean-Marie Carré, Paris, Gallimard, 1931.
22 Giuseppe Ungaretti, Lago Luna Alba Notte, in Vita d’un uomo: Sentimento del Tempo, con un saggio di Alfredo Gargiulo, Lo Specchio, Milano, Mondadori, 1943; ora in Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1969.
23 Umberto Saba, Il Canzonziere (1900-1954), sesta edizione, cit., nota 6.
24 Giuseppe Ungaretti. T Vita d’un uomo: L’Allegria, Lo Specchio, Milano, Mondadori, 1942; ora in Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, cit.
25 Vedi Mario Luzi, Avvento notturno, Firenze, Vallecchi, 1940; a Onore del vero, Venezia, Neri Pozza, 1957. Vedili ora riuniti in Mario Luzi, Tutte le poesie: Il giusto delta vita. Nell’opera del mondo. Per il battesimo dei nostri frammenti, con un’appendice di testi inediti, Milano, Garzanti, 1988.
26 Vedi, rispettivamente, Pier Paolo Pasolini, Saba: per i suoi settant’anni, in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960; a Franco Fortini, Le poesie di questi anni, in “Il Menabò 2″ diretto da Elio Vittorini a Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1960; ora in Saggi italiani Milano, Garzanti, 1987.
27 In questo caso Debenedetti faceva riferimento a Umberto Saba, Il Canzoniere (19001945), cit. in nota 6.
28 Debenedetti ha già fatto ampiamente riferimento alla Sesta fuga a tre voci di Umberto Saba net suo vecchio saggio Per Saba, ancora, in Saggi critici. Prima serie, cit., su cui abbiamo ampiamente riferito nella prima pane di questo scritto. Vedi oggi questa poesia in Umberto Saba, Tutte le poesie, I Meridiani., cit.
29 Vedi Roland Barthes, Y a-t-il une écriture poétique?, in Le degré zéro de l’écriture, Paris, Editions du Seuil, 1953, a cui Debenedetti fa esplicito riferimento parlando di Saba. Il libro di Barthes è stato anche tradotto in Italia da Lerici Editori, Milano, nel 1959.
30 Vedi la sezione Una strana gioia di vivere in Sandro Penna, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1970.
31 Vedi Giacomo Noventa, Fusse un poeta…, in Versi a poesie, Prefazione di Geno Pampaloni, Edizioni di Comunità, 1956; ora in Giacomo Noventa, l Versi e poesie, a cura di Franco Manfriani, Venezia, Marsilio Editori, 1986.
32 Vedi in proposito Jean-Paul Sartre, Situations I, Paris, Gallimard, 1947; e Situations II, Paris, Gallimard, 1948. Vedili antologizzati a tradotti anche con altro da Situations III a IV in Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura, Milano, Il Saggiatore, 1966, 2a. Vedi inoltre André Gide, Interviews imaginaires, New York, Éditions Jacques Schiffrin, 1943.
33 Francesco De Sanctis, La letteratura ìtaliana del secolo XIX, volume terzo, Giacomo Leopardi, a cura di Walter Binni, Bari, Laterza, 1953.
34 Vedi Vittorio Sereni, Diario d’Algeria, Firenze, Vallecchi, 1947; ora in Vittorio Sereni, Tutte le poesie, a cura di Maria Teresa Sereni, Prefazione di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1986.