di Geno Pampaloni
Nel corso del suo lavoro, Giacomo Debenedetti arricchì la strumentazione critica, invadendo con straordinaria perspicacia aree di discipline extra o meta-letterarie, « dalla psicanalisi di Freud e Jung alla sociologia di Lukács e di Gramsci, dalla fenomenologia di Husserl alle indagini dei logici e degli epistemologi, allo strutturalismo di Lévi-Strauss » (Sapegno); come documenta tra l’altro il mirabile catalogo del “Saggiatore”, ove si rispecchia il suo lucido e raffinato trascorrere nell’universo delle scienze umane. Ma quando si affacciò, poco più che ventenne, sulla scena letteraria (”Primo tempo” uscì nel maggio del 1922, i Saggi critici furono pubblicati nel ’29), era impossibile non tenere conto della lezione di Benedetto Croce. E tuttavia, il giovane torinese che, come critico, si inaugurò crociano, e che anche in seguito, pur distaccandosi dal Croce, non ne rinnegò mai l’autorità, o meglio si direbbe l’autorevolezza, segnò subito alcune differenze fondamentali. La prima delle quali è la direzione degli interessi: Debenedetti si lascia alle spalle quasi tutto della Letteratura della nuova Italia (Saba e Michelstaedter non figurano nella bibliografia di Croce; e Proust e Radiguet non erano certo santi nel suo calendario); egli si indirizza quindi alle frontiere di quel decadentismo europeo che al Croce era indifferente o estraneo. In secondo luogo dava allo storicismo, di cui il Croce era un esempio vigorosissimo, un’inflessione psicologico-esistenziale, che da un lato rispondeva a un suo bisogno o a una sua vocazione di scrittore (i racconti di Amedeo escono in quegli stessi anni, nel ’26), e dall’altro lato si proiettava su uno dei suoi motivi più costanti e sofferti, l’arte come illuminazione di tracciati di destino, motivo che sostanzia la musicalità della sua prosa e ne costituisce il fondo, il pedale cripto-religioso. Sin dall’inizio, le sue pagine critiche, pur così affilate e agguerrite, più che il giudizio di valore, o una lettura stilistica, avevano per ideale mèta di ricerca un rosario di rivelazioni; la verità vi scocca a frammenti, deflagra improvvisa; sorvola alta sulla resa artistica del testo, è un fatto di vita e si perde nel grande mare dell’essere. « Interroga la letteratura facendone un simulacro della realtà », scrisse Pasolini; ma probabilmente è vero il contrario: egli cerca nella letteratura il filo d’Arianna del destino. E’ la letteratura che cerca nella realtà il simulacro della vita. Difendo la definizione che detti di lui, illuminista dell’irrazionale; con questa correzione: la ragione esorcizza l’irrazionale, ma non lo viola.
La terza osservazione tocca più specificamente la prima serie dei Saggi critici: Debenedetti percorre un itinerario inconsueto, va da Croce a De Sanctis. (1) Non a caso il volume si apre con Croce e si chiude con De Sanctis, avendo come appendice organica, o compimento, la Commemorazione del De Sanctis, pubblicata su “Solaria” nel numero del maggio-giugno 1934. Le ragioni di tale itinerario possono così riassumersi o ipotizzarsi:
a) dalla Torino gobettiana ove si era formato, aveva tratto una coscienza dell’impegno civile, che trovava in De Sanctis un esemplo meglio radicato nella storia italiana di quel che non fosse il Croce;b) voleva “correggere” la sua passione per i contemporanei con un ritorno ai romantici (il melodramma di Verdi e la Storia della letteratura di De Sanctis, scrisse, sono « i due monumenti solitari », nei quali, « a conti fatti, il genio e lo spirito della seconda metà del secolo scorso rimangono affidati »);
c) la determinazione posta da De Sanctis « nel l’esecuzione di un progetto in ogni senso “manzoniano”: il disegno di sviluppare un mondo ideale in un mondo storico »;
d) la « grande figura dell’uomo in piedi (che) si trova nella Storia del De Sanctis » (« poeta è l’uomo che canta in piedi »). Si tratta dunque di ragioni squisitamente morali, cui si aggiunge, motivo destinato a fruttificare in seguito, l’ammirazione per il discorso La scienza e la vita, del 1872. Si può dunque dedurre che il giovane Debenedetti arrivasse in pochi anni a vedere in De Sanctis, nel manzoniano De Sanctis, una figura più moderna, e più congeniale alla sua militanza critica torinese, di quella del carducciano Croce.
Nel deplorare che su “Pegaso” (agosto 1929) la recensione ai Saggi fosse stata affidata a Montale anziché a Cecchi (e in effetti la nota di Montale è elogiativa ma cauta: « confonde di proposito l’indagine estetica e quella psicologica e morale », le analisi « hanno talvolta qualcosa di monocromo e di poco differenziato », e portano a « soluzioni che sanno di astratto »; « piacerebbe di vedere il giovane critico arrivare fino in fondo al suo sistema »; – il che dette l’impressione al recensito che il recensore volesse « tenersi corto » per « paura di sbilanciarsi ») Debenedetti scrisse a Cecchi, il 22 agosto, una lettera molto bella, che ho potuto leggere per la cortesia dell’Archivio Bonsanti del gabinetto Vieusseux di Firenze, ove sono conservate le sue carte. Il motivo centrale per cui si rivolge al critico celebre affinché « tenti un salvataggio del mio libro » è la rivendicazione della serietà del proprio lavoro, una rivendicazione di timbro soprattutto morale: ogni critico deve muovere « onestamente » dal « travaglio di “capire” », non dalle parole ma « dalle idee o dalle sensazioni fortemente ripensate ». Ciò che gli sembra difettare nei « nostri sedicenti critici » è proprio la serietà (parola e concetto di cui non aveva mancato di sottolineare la frequenza e, si direbbe oggi, lo spessore, che avevano in De Sanctis, bisognerebbe cominciare a discutere « anche della data da cui comincia la loro cultura, e fare anche una campagna favore della filologia (filologia vera e magari pensata) ». Nel panorama della critica contemporanea egli salva., oltre a « Lei come presente ed il Croce troppo assente in questo momento », soltanto Gargiulo, Solini e Pancrazi, di cui dà un giudizio molto acutamente limitativo pur se venato di simpatia: « ha messo nel suo mondo di critico dei limiti straordinariamente prossimi, ed anche un po’ troppo contenti », ma è « discretamente umanista, parecchio coltivato, ed arguto per quel tanto che va bene » .
Da questa lettera si ricava dunque l’immagine di un giovane (non ancora trentenne) severo, rigoroso, moralista e orgoglioso, consapevole di non essere indegno dei suoi grandi maestri Croce e De Sanctis.
Ma ecco (e direi che si tratti di una nota inevitabile, fatale, ancora una volta « di destino ») che quel l’orgoglio e quell’impegno ricompaiono sotto la specie esistenziale: « lo continuo a credere che un uomo abbia il dovere di coltivare, sviluppare in sé – di esigere da se stesso – questa esigenza della felicità ». Il “dovere” della felicità sta in parallelo con la serietà degli studi e del lavoro, essendo entrambi indispensabili alla pienezza della vita. Credo che questa sorta di estremismo nel dichiarare il proprio moralismo anche in positivo sia fondamentale per capire la tensione intellettuale, la confidenza con gli assoluti, che non abbandonerà mai il critico, neanche nei momenti di più compiaciuta e narcisistica sottigliezza. Il “racconto critico”, giusta la ben nota definizione di Sanguineti, nasce di qui.
Ma attenzione: qui non facciamo della, psicologia; parliamo di letteratura. Perché dietro ciò che sinora abbiamo detto o trascritto ci è dato scorgere la figura di un altro grande critico anch’egli rigoroso, autobiografico amico geloso della felicità e in confidenza con gli assoluti, anch’egli crociano scontento, anch’egli appassionato della Francia, anch’egli nell’in-timo più congeniale con Bergson che con Croce: Renato Serra. « Il carattere primo della critica d’oggi, – si legge in Le lettere – è di non avere più né limiti né specialità; tutto quello che è arte e pensiero e storia degli uomini [ ... ] può diventare ugualmente problema spirituale, ossia materia per una critica. » (2) In ciò e un vero incunabolo della critica debenedettiana: umanità e scrittura. E’ già pronto lo spazio per il controcanto autobiografico e l’orgoglio della solitudine: « Ma le generazioni dove sono? Neanche una rondine intorno. Ci sono io solo e tranquillo Se voglio essere sincero, maestri non ne trovo ».
Nell’itinerario da Croce a De Sanctis, che seguiva una via per così dire consolare dal solido fondo etico e culturale., il giovane Debenedetti aveva per compagno d’anima Renato Serra. Il titolo Fuga dalla gioventù che egli avrebbe voluto dare a questi saggi (come ci dice nella Prefazione del 1929) ha una motivazione squisitamente serriana: « in un solo colpo d’occhio retrospettivo è permesso al critico di riconoscere, sotto la traina logica dei propri discorsi, un vivo grafico delle proprie avventure d’uomo [ ... ]. Potrà almeno ritrovare nei suoi scritti le ragioni del cuore, o meglio quelle dell’animo, che sono più valide, si sa, che le ragioni della ragione ». (3)
Si possono ricavare, da queste assonanze, formule critiche (io stesso ho tentato di farlo in altre occasioni) che le esplicitino: lo storicismo di Debenedetti è storicismo dell’ineffabile (il lavoro del critico, scrisse, « è un lavoro asintetico, una corsa all’infinito »), la sua critica è una confessione in presenza del testo. Ma al di là delle formule o formulette, è doveroso riconoscere che lo spiegamento polifonico e l’intreccio degli interessi delle pagine della maturità, e a mio giudizio anche la ricchezza didattica delle sue lezioni universitarie, non si spiegano compiutamente se non si risale alla complessa matrice autobiografica di cui ci è offerta testimonianza, matrice autobiografica in senso alto (« un impegno accettato con la tenace e quasi tetra buona fede, che è l’appannaggio di una gioventù malinconica e ottimista », si legge nella già citata Prefazione del ’29) che egli aveva non dirò mutuata ma certo in comune con Serra, pur in una Torino assai diffidente con i fiorentini e, gli amici dei fiorentini.
(Se mi è lecito inserire un ricordo personale, una sera di molti anni fa, in occasione di non so più quale presentazione editoriale, nel corridoio della sede romana della Mondadori in via Sicilia, Cesare Garboli si mise a recitare qualche brano dell’Esame di coscienza di un letterato. Debenedetti, che passeggiava lì accanto, in attesa di entrare nella sala della conferenza, se ne rallietò moltissimo; e intercalava, in un affascinante duetto, altre frasi di Serra a quelle recitate da Garboli. lo maledicevo la mia memoria, tanto minore dell’amore).
Il saggio su Croce era, come si è accennato, un atto dovuto, presso a poco come lo erano state, quindici anni prima. le pagine a lui dedicate da Serra. Serra era stato ancora più drastico, pur nell’ossequio: il suo giudizio ruota attorno al dubbio se, vivendo nell’era crociana, « abbiamo collaborato a qualche cosa di grande », o se invece « siamo stati spettatori e in parte compagni di una di quelle fatiche potenti e pazienti, la cui grandezza finisce con l’operaio ». (4) Diffida « di quel sorriso calino e viso lieto, per cui non esistono più problemi nell’universo, ma soltanto l’onesto divertimento di risolverli »; nonché della severità crociana verso i giovani, « mi castigo che non si cura affatto della salute dell’anima a cui si rivolge ». Fa schioccare una staffilata perentoria: « la sua critica appartiene piuttosto alla maniera vecchia che alla nuova, molti e molti saggi si direbbero scritti da uno che certo non ha letto l’Estetica ».(5) E infine azzarda un giudizio (« il Croce è quasi miglior letterato che critico. In quanto è eccellente scrittore ») che ritorna in Debenedetti, il quale aveva certamente presenti le pagine di Serra: « Partito per la conquista della filosofia, il Croce è giunto letterariamente ad un risultato, che vediamo oggi richiesto dai letterati con duro e vano sforzo a disperate ricerche di retorica ». « Una sorta di magia evocativa », « casta potenza », « gioia di colorire e di descrivere », « castigata sorveglianza di artista »: queste le note dominanti della prosa crociana. In sostanza Debenedetti non a caso concentra la sua attenzione sullo stile di Croce, cioè sullo scrittore, dando per “presupposto” il pensatore e tacendo anche sull’autore dell’Estetica, che tornerà qui da protagonista nel colloquio con Lionello Venturi. Ma ciò che fa la novità del saggio, e ne costituisce l’elemento significativo, personalissimo e in senso lato autobiografico, è la ricerca delle « ragioni propriamente liriche di bellezza », e il ripercorrere i modi e le figure della psicologia di lui artista, con ciò eludendo, aggirando, anche il dubbio di Serra che la grandezza di Croce potesse finire “con l’operaio”. Perché autobiografico? Perché Debenedetti sottolinea in Croce quella confidenza con gli assoluti che a me appare una nota essenziale della sua personalità. Le parole tematiche sono tutte ultimative, “cosmico”, “lirico”. Paragona infatti l’opera crociana ad un “romanzo cosmico”; la « pacata e lievemente diffusa malinconia » è « una sorta di malinconia cosmica ». Egli ci offre « la visione lirica di un mondo tutto spiegato ». Nelle sue pagine « le ragioni stesse della vita [ ... j si dibattono con forza istintiva per riconoscere, in ciò che è mutabile, il segno dell'eterno»; per cui « sensibilmente essenza ed esistenza sono una cosa sola ». Qui c'è già in nuce, se proprio non sbaglio, la tematica essenziale del personaggio-uomo di trent'anni dopo, il suo remoto ma incalzante presagio. Gli assi portanti di tutto il suo lavoro (la critica « è la virtù di capire ciò che fu scritto con mistero », la poesia è « lo strumento di conoscenza specialmente idoneo a captare l'assoluto ») sono già ben visibili.
Il saggio su Croce, dunque, non fu l'omaggio di lui giovane a un maestro riconosciuto, ma piuttosto un incontro, e in certa misura un addio, se ricordiamo il titolo originario del volume, poi rifiutato perché troppo simile a un epigramma, Fuga dalla gioventù.
La cornice autobiografica si chiude, come vedremo, con le finali pagine dedicate al De Sanctis. Ma se essa, in sede storiografica, calamita oggi la parte maggiore, del nostro interesse per ricostruire da vicino motivazioni e maniere dell'esordio di un grande critico, non può indurci a trascurare il concreto esercizio critico dell'esordiente, anche se, trattandosi di pagine assai note e studiate da lettori ben più autorevoli di noi, ci limiteremo a qualche breve osservazione. La nota più squillante è, la novità delle scelte. Prendendo per valido il 1929 come terminus ad quem (ma i saggi sono tutti precedenti), se Michelstaedter era una figura già mitica (Papini ne aveva scritto nel 1910, prima ancora di averlo letto) Saba, Radiguet e Proust erano autori per pochi. La consapevolezza della propria eccezionalità di critico si rispecchiava dunque nella eccezionalità del repertorio. Se si confronta l'indice di questo volume con quelli dei critici coevi, abbiamo l'impressione di trovarci in un altro universo; anche se "La Voce" di Prezzolini, che fu tra l'altro il primo editore non triestino di Saba, aveva aperto le frontiere sull'Europa, e il viaggio a Parigi era stato un obbligo professionale e tradizionale, Debenedetti ci appare come il primo vero critico militante europeo.
Nella tessitura della prosa si avverte il continuo intrecciarsi, sovrapporsi e alternarsi di due tipi o livelli di qualità. Nel primo la raffinatezza si veste di civetteria, di sottigliezza esibita, di spettacolo non richiesto. Solo nella maturità, e soprattutto nei quaderni delle lezioni, il critico riuscì a saldare in un continuum la sua naturale eleganza, secondo il suo ideale di critica come « una corsa all'infinito ». Per dirlo in termini grossolani, qui c'è ancora un eccesso di letteratura non del tutto decantata nella assolutezza dello stile. Nell'altro tipo, o livello, invece, il discorso critico brucia anche le trouvailles che l'ingegno aveva affastellato, e fa di ogni giudizio la forma sempre cangiante e creativa di una intelligenza universale. In un discorso critico in apparenza avvolgente e sinuoso; ma che in realtà si sostanzia in una serie di approssimazioni ognuna delle quali è un punto fermo, un'occasione di verità, un lampo di assoluto. E' questo il senso, alto e felice, di quel lavoro "asintetico" che era per lui la critica. Se posso usare un paradosso che mi illudo non gli sarebbe dispiaciuto, nella pagina critica di Debenedetti, intendo nel suo meglio, assistiamo alla moltiplicazione delle sintesi.
Metterei in secondo piano il saggio su Michelstaedter, importante come dichiarazione di affinità con uno spirito eroicamente inquieto, un omaggio significativo alla cultura del Novecento che, più gli premeva, piuttosto che un vero ritratto. Con Saba, invece, entriamo in uno dei capitoli più autentici di tutta la sua opera. Estrarre qualche citazione è far torto a un impegno di analisi che tiene in raro equilibrio la penetrazione critica e l'affetto, le coordinate storiche e la consonanza spirituale. Qui si rivela in pieno la straordinaria capacità di Debenedetti nel trascorrere dalla letteratura alla psicologia, dal testo al sentimento del destino. Ma basterà segnare qualche punto per rendersi immediatamente conto di quanto illuminanti e non superate siano le approssimazioni del critico. « Saba non appartiene alla schiatta atletica dei poeti giudicanti [ ... ] Le sentenze entrano nella tessitura del suo discorso in qualità di pure clausole musicali. » (6) « E’ caratteristica di Saba l’intensificazione affettuosa di una materia sentimentale delle più comuni e ovvie: la sua singolarità e altezza spirituale si definiscono nella maniera straordinariamente intima con cui egli risente le impressioni più semplici. » (7) Il « vero e proprio sviluppo » della poesia di Saba, di cui fu notato che non presenta mai profondi rinnovamenti, « si manifesta nel progressivo acquisto di confidenza in questo suo immutabile mondo interiore ». (8) Queste pagine su Saba, oltre che incontestabili, sono forse le più distese e serene che Debenedetti abbia scritto; e anche le più affettuose, se ricordiamo che si congeda dal poeta come dal « poeta contemporaneo, nel quale più viva e incorruttibile sia rimasta la fede di poter offrire, direttamente e senza simboli intellettualistici, un dono d’anima ».
I tre paragrafi su Radiguet, e, di contrappunto, su Cocteau, sono i più magistralmente orchestrati, indice di una ben conquistata maturità compositiva. Ma in essi appare più evidente, o almeno così a me sembra, quella commistione dei due modi di scrittura cui ho accennato. Certi giudizi d’attacco sono perentori e fulminei (« I romanzi di Radiguet [ ... ] rivelano una loro natura singolarmente affine a quella dei sogni. Dei sogni hanno soprattutto la rapidità febbrile e stupita, volubile e densa » (9) ). Altrove, invece, si appalesa la voglia di bravura, la tentazione dello stupefacente, stupefacente nel senso che il critico usò per la prosa di Tommaso Landolfi. E in certi casi l’ammirazione non basta a garantire la persuasione.
Infine, Marcel Proust, «la grande avventura il cui nome si distingue male da quello della giovinezza», come scriverà in un saggio del 1946 rimasto inedito sino all’82 (pubblicato in Rileggere Proust, ove sono raccolti tutti gli scritti di Debenedetti su Proust).(10) Sarebbe interessante ma qui fuor di luogo confrontare queste pagine del ’25 con quelle di vent’anni dopo. Basterà accennare, poiché rientra nel filo del nostro discorso sul valore dell’autobiografia, che nel ’46, segnato dall’esperienza tragica della guerra e della persecuzione razziale (aveva scritto in quegli anni Otto ebrei e 16 ottobre 1943), Debenedetti dà, in quel saggio postumo, un’interpretazione religiosa della Recherche; egli la rilegge come « la più profonda, la più vera crisi religiosa che sia stata attraversata nel prolungato crepuscolo del secolo borghese ». (11) E di quale crisi Proust è l’interprete? Essa ci porta a concludere che « soltanto nel fondo della propria anima, proprio là dove i religiosi cercano Dio, è possibile trovare la salute». (12) In questi saggi giovanili non c’è traccia di una simile disperata figura dei « segni terribili e avaramente fausti della elezione e della grazia »; c’è una smagliante lettura in certo senso tecnica del testo proustiano, lettura ancora una volta polifonica, arricchita o meglio sostanziata da un vasto e sicuro intreccio di analogie, assonanze, nessi palesi o segreti, confronti tra i linguaggi di arti diverse, che una cultura voracemente posseduta forniva al giovane critico.
« I protagonisti del romanzo proustiano occupano, non uno spazio materiale, bensì una durata: il terreno sul quale nascono, si posano, si succedono ordinatamente tra loro, sviluppano e intrecciano le loro macroscopiche vicende, vorrà essere il luogo di tutte queste durate: cioè la memoria. » (13)
Proust ha scoperto « un continente che ne era stato escluso sin qui, ha segnato la longitudine e la latitudine della letteratura ». « Il romanzo contemporaneo, del quale Proust rimane, credo, il più cospicuo rappresentante a tutt’oggi, nasce da un fenomeno della storia letteraria, che pittorescamente si potrebbe chiamare: lo sciopero dei personaggi. » (14)
I quali sono ormai « sempre personaggi in cerca di autore ». E un tema caro al critico, che sarà poi costretto, quarant’anni dopo, a rovesciare la conclusione: l’avvento in letteratura del personaggio-particella lo indurrà a tornare a « votarsi » « al vecchio, ma ancora vegeto, solerte, servizievole personaggio-uomo ». Non è peraltro da sottovalutare quanto sia viva, sin dagli inizi, la fantasia del critico. La matrice della sua fantasia è il sentimento dell’autobiografia, ove trovano conflittuale e sempre cangiante armonia l’esperienza storica, la psicologia, l’attenzione ai mutamenti antropologici la cui risacca invade risonante o sommessa anche la letteratura.
Eccoci dunque tornati al punto da cui eravamo partiti. I due ultimi saggi segnano efficacemente i poli dell’itinerario: in quello su L’arte dei primitivi di Lionello Venturi, Debenedetti è ancora fermamente crociano, anzi, e forse codesto l’unico saggio convincentemente crociano; nel successivo, Critica ed autobiografia, De Sanctis, è l’occasione, o meglio la figura centrale, di una confessione-teorizzazione del proprio lavoro di critico, che nell’autobiografia vede insieme il nodo degli interrogativi ultimi, di destino, e il banco di prova, il certame di fedeltà, all’impegno morale e civile. La rete degli accostamenti e dei rimandi interni è fitta ma semplice. Sull’autobiografia, c’è nel saggio su Saba una stupenda citazione da Renan (l’ispirazione autobiografica simile al suono di un’antica città sommersa dall’oceano), seguita da una personale esplicitazione: « Il dato autobiografico [ ... ] diventa poetico in quel suo prendere suono come di mia voce di altro mondo »; « la poesia autobiografica [ ... ] è una vera riscoperta di valori ». (15) Nella Prefazione del 1949 si legge: « l’arte è sempre rivelazione di destino [ ... ] Al critico spetta di decifrare, al lume delle immagini di destino prevalenti nella propria età, l’oracolo permanente inciso nell’arte ». (16) Nel saggio finale di cui ci occupiamo, la prosa ideale del critico è « sostenuta sulle nervature sostanziose del ragionamento » e « sensibile alla varietà autobiografica di chi la scrive », dotata cioè del « timbro specifico e incomparabile della sua personale esperienza ». Se non il modello, il punto di riferimento è De Sanctis. Possiamo dire che l’arco Croce-De Sanctis rimane aperto in tutta l’opera di Debenedetti, e sin da questo primo volume se ne disegna la curvatura. In concomitanza con i suoi successivi interessi e orientamenti, sia culturali sia politici, il critico arriverà a De Sanctis per altre vie (attraverso Gramsci, è stato suggerito). Ma non e senza significato che il primo accostamento si produca all’interno di una riflessione decisiva qual è quella autobiografica, posta a cardine del lavoro critico.
Un altro punto di riferimento, più discreto e geloso, è Serra. « All’atto del fare, si legge qui, anche la critica è una delicata questione di ispirazione »: Serra avrebbe sottoscritto. Di Serra, Debenedetti dette un giudizio che forse, più che una limitazione, è una confessione: aveva « più vivo un sentimento della critica che non un metodo ». Confessione? Certo, Serra, morto a trent’anni, non ebbe il tempo, né forse aveva la natura, per irradiare le sue curiosità in un’area culturale vasta e articolata come fece Debenedetti. Se ricordiamo la solitudine del bibliotecario di Cesena (« nessuna rondine intorno ») il cielo europeo del critico torinese è un turbinare di rondini. E comunque, se l’arte è un mistero da decifrare, esso si può esplorare con molteplici, sofisticati strumenti, con sempre aggiornate metodologie.
Ma prima ancora (e Giacomo Debenedetti non l’ha mai dimenticato) occorre serbarne in sé « il sentimento ».
NOTE
1 G. Debenedetti, Saggi critici. Prima serie, Milano, Mondadori, 1952.
2 R. Serra, Le Lettere, in Scritti, a c. di G. De Robertis e A. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 357.
3 G. Debenedetti, Saggi critici. Prima serie, cit.,p.24.
4 R. Serra, Le Lettere, cit., p. 354.
5 Ibid., p. 356.
6 G. Debenedetti, Saggi critici. Prima serie, cit., p. 82.
7 Ibid., p. 88.
8 Ibid., p. 96.
9 Ibid., p. 61.
10 G. Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, p. 15.
11 Ibid., p. 70.
12 Ibid.
13 G. Debenedetti, Saggi critici. Prima serie, cit., p. 144
14 Ibid., p. 169.
15 Ibid., p. 102.
16 Ibid., p. 21.