di Franco Fortini
Prima domanda: perché Debenedetti si interessò a Tommaseo? Contini ripubblicò nel 1972 in Altri esercizi un suo Progetto per un ritratto di Nicolò Tommaseo comparso in due puntate, nell’ottobre del 1947, su “La Fiera letteraria”. In una nota dette notizia che « Questo “ritratto in piedi”, come l’ordinatore amava chiamarlo, fu scritto a richiesta di Giacomo Debenedetti che per un editore milanese ideava una storia della letteratura italiana in forma di serie di condensate monografie [...] Caduto da un pezzo il progetto, lo scritto residuato venne tranciato in due puntate ecc. » . E dalla prima riga del saggio vien da pensare che esso possa esser fatto risalire al 1945. Tanto si dice perché sorprende che Debenedetti taccia di questo contributo e non lo discuta (pur citandolo, senz’altra referenza e per non più di quattro parole proprio in una parte da lui intitolata Ritratto) negli appunti per le lezioni tenute all’Università di Roma negli anni 1958-1959. E vien da credere che la richiesta di Debenedetti a Contini fosse stata suggerita da un di molto anteriore articolo di Contini ventenne, su Fede e Bellezza, pubblicato nel remoto 1932. Tanto potrebbe bastare per una non inutile indagine sui due diversi modi di misurarsi con la figura di Tommaseo, a una quindicina di anni di distanza l’uno dall’altro; e di prendere, l’uno e l’altro, distanza, dai coevi studi di Carlo Muscetta, conclusi vent’anni fa in un saggio sullo scrittore di Sebenico.
La risposta alla mia prima domanda equivale a chiedersi che cosa abbia Tommaseo in comune con altri autori che hanno impegnata tanta parte del lavoro critico di Debenedetti, ossia di questo « ingegnoso nemico di se stesso » per riprendere (ma sarà già stato fatto, suppongo) una formula alfieriana che intitola la seconda parte dei suoi scritti sul drammaturgo: ovvero eautontimorùmenos come egli dice, appunto, di Tommaseo. Pascoli e Saba, certo; ma potrei anche avanzare i nomi di Alfieri e, in una certa misura almeno, del più grande di tutti, Proust. Credo si possa pensare che, con la stanza torinese ingombra dal corpo di Tommaseo che Riccardi di Lantosca descrive nel suo bellissimo Papè Satan (giustamente utilizzato da Debenedetti), il « cantuccio donde non sento / se non le reste brusir del grano » e poi la « strana bottega d’antiquario » facciano venir voglia di spalancare le finestre. Bisognerebbe rispondere che quegli schemi, quegli uomini o libri, sono degli “antipatici”. Per distinguere, immediatamente dopo: l’antipatia riguarda il personaggio più che l’opera, il ritratto più che l’originale. Antipatia è parola evasiva e volutamente imprecisa. Con la sua antipatica imprecisione ci difendiamo, un po’ come – dice Freud – fa chi, con lo “humour”, vuol propiziarsi le simpatie rivolgendo su se stesso una parte almeno della propria aggressività.
Con Saba per approssimazioni successive, con Tommaseo e Pascoli in modo più immediato e diretto (come le date potrebbero dimostrare) Debenedetti elegge una precisa chiave psicologica, quella del cosiddetto “tipo” secondo Jung; nel nostro caso fondata sulla coppia introversione ed estroversione e sul loro scambio di maschere. Se accettiamo per un momento senza discuterla quella tipizzazione, dobbiamo rammentare – e Debenedetti non solo lo sa benissimo ma a più riprese lo esplicita – che l’oggettivazione letteraria, la scrittura, il testo, quindi non l’essere poeta ma la poesia, non sono soltanto documenti o spia della dialettica psichica (dove l’un momento sia arsi o tesi dell’altro, col predominio, per così dire, di una scansione ora trocaica ora giambica) ma è un tertium assolutamente extrapsicologico e, almeno per chi non sia un nominalista, non riducibile a quella dialettica. La cosiddetta “fallacia biografica” non opera solo, come si è soliti dire, come il rischio di errore di chi creda dagli eventi biografici possedere chiavi privilegiate di accesso al testo; rischio di errore c’è anche nel procedimento inverso, quello di vedere nelle contraddizioni e nei conflitti formali e interni al testo la spia di contraddizioni e conflitti del soggetto. Contro quel che tutti i formalisti credono, ritengo (da sempre in folta compagnia) di dover negare la presunta solitudine del testo. E tuttavia sarebbe origine di innumerevoli equivoci scambiare una possibile omologia con un rispecchiamento. Il solo modo di troncare la questione è di smettere la ricerca dell’interfaccia fra opera e autore ma semmai di trovarla fra opera e storia. Mi scuso di questa brusca e non prevista dichiarazione di fede critica e vado innanzi.
Se il punto di partenza di Debenedetti è prima psicologico che storico e silistico; l’analisi ravvicinata, strenua di base linguistica e metrica, viene in lui quasi sempre a conferma di una intuizione critica originaria, di un clic, anche se poi la drammatizzazione, la messa in scena, nelle pagine del suo saggio o della sua lezione, inverte l’ordine dei fattori e finge di non aver già scoperto l’assassino prima ancora di entrare nello scenario del delitto. In principio era l’individuum ineffabile bergsoniano. L’assunzione del “tipo” junghiano è invece un pertugio verso la effabilità. Questa dicibilità è però sempre agonica, minacciata. Il “ritratto’”, una delle sue formule, viene a poco a poco rivelandosi impossibile, di decennio in decennio, come vien meno il “personaggio” nella narrativa a lui contemporanea. Eppure i suoi eroi poeti hanno ancora consistenza da personaggio. A causa della sua passione per il “tipo” e le sue contraddizioni, il tertium rispetto a quello e a queste viene spesso, anche se momentaneamente, obliterato; oppure – e si potrebbe dimostrarlo – non dubita abbastanza che la contraddizione psicologica fra due pulsioni non sia necessariamente omologa alla contraddizione non psicologica ma stilistica. E, sia detto incidentalmente, il Tipo junghiano sta al Tipico caro a Lukács come i caratteri dei moralisti classici, da Teofrasto a La Bruyère, stanno a soggetti individuali o collettivi emanati e segnati dalle determinazioni storiche e sociali. Anzi, è proprio la dottrina junghiana – nelle pagine su Tommaseo richiamata esplicitamente – quella che presupponendo la realtà delle forme archetipiche dell’inconscio collettivo attenua, fino a ridurla al mimino, la parte della storicità. La dialettica di Debenedetti fra introversione ed estroversione non implica superamento nel testo, anzi ne fa la sede di una contraddizione insolubile, tormentosa come certo fu per lui tanto nell’intelligenza quanto nella biografia. E allora la parte in ombra del protagonista (nel poeta perché uomo e nel critico perché critico) che è solo introversione per l’estroverso (e reciprocamente), dovrà apparire agli occhi dell’analista ma anche a quelli del normale “fruitore di uomini” che ognuno di noi è, come un nonvoler-sapere, ossia come una operazione di “malafede”, nel senso sartriano della parola. Una “malafede” d’autore che possiamo considerare fondatrice di ogni operazione letteraria. Ma quando – come nel caso del diarista e del lirico, ossia dell’autore che dice “lo” – essa si rovescia nel soggetto storico, della persona che fu vivente in carne e ossa, allora quel brusco contatto, come dire, della mano di un estraneo che si pone sulla vostra ad una maniglia di autobus, induce ciò che ho chiamato l’ “antipatia”. È un minimo raccapriccio difensivo per il malo odore della nevrosi e la sua potenza di contagio. Nel caso dei tre poeti considerati, può essere vissuta come vero e proprio elemento olfattivo, emanazione (se mi si passa lo scherzo) ammoniacale per Tommaseo, etilica per Pascoli, all’acido fenico per Saba. E finalmente questa passione per la “malafede” altrui come specchio di una parte di sé condannata all’ombra, è uno dei moventi dell’autobiografismo del critico, cui Debenedetti tante volte ritorna nelle sue pagine esorcizzandolo e perciò tanto più onnipotente rivelandolo.
La descrizione clinica dell’ingorgo psicologico di certo, o magari di tutto, Tommaseo, fra narcisismo, autorepressione, erotismo, fantasie di colpa, cattiva coscienza moralistica, non questa è la novità dello studio di Debenedetti. Anzi, si potrebbe quasi parlare, per questa parte, di scarsa generosità, come quando con un moto di stizza liquida per sentimentalismo l’ultima parte del poemetto del Riccardi di Lantosca che raffigura Tommaseo negli ultimi anni, a Firenze, cieco e lo ricorda allo zenit della sua vita, nella Venezia del 1848-49, su cui invece Debenedetti sorvola; suggerendogli forse, per un moto di risentimento verso l’antipatico personaggio raffigurato nelle quartine del Lantosca, che il felice sarcasmo della prima parte del poemetto, ossia Tommaseo a Torino, non avrebbe il peso e la qualità che ha ove non fosse controbilanciato dalla pietas della seconda, ossia Tommaseo a Firenze. E così si ha l’impressione che l’impossibilità, per Debenedetti, di considerare la parte “alta”, sublime, religiosa o umanitaria di Tommaseo (cui invece Contini partecipa) rende non meno aguzza ma unilaterale l’attenzione alle vibrazioni stilistiche, al magistero retorico, perché lo vede accamparsi sullo sfondo di una insoffribile miseria nevrotica.
Tutto l’elegantissimo gioco sulla fisionomia del dalmata, “non barbato” e poi “barbato”, appartiene al miglior Debenedetti né mancano qui pagine di intensa volontà di ricostruzione storica di ambiente e di tensioni. Ma quel che appare, qui, assai più evidente che negli studi sul Pascoli, è la divaricazione fra il discorso sul personaggio o “tipo” Tommaseo e quello sul poeta. Debenedetti ha una molto alta considerazione del Tommaseo poeta in versi é in alcuni testi in prosa; non ne ha, al di là di ogni simpatia o antipatia autobiografica, per l’astioso polemista, il diarista morboso, il patriota enfatico, l’erotomane represso, il pedante irrefrenabile e, in definitiva per il suo orizzonte di pensiero “cosmico” che egli annega in una globale condanna; quando invece va ricordato, Benedetto Croce, che più distante dal Tommaseo non avrebbe potuto essere, gli rese onore, con una citazione del 1947, proprio per quella sua visione “cosmica” delle sorti umane. Il saggio di Contini, già l’ho detto, andava nella direzione opposta a quella di Debenedetti: privilegiando, invece del lirico, il traduttore dei canti toscani, corsi, illirici e greci, il diarista, il descrittore. E qui mi corre di accennare che tutto l’aspetto repellente, persino laido (la « religione de minimis » la chiama Contini) che si unisce in Tommaseo ai grandiosi e vocali impeti per Dio, l’Umanità, la Donna, oltre che, naturalmente, ai Sainte-Beuve, Mignet, Lamartine e Hugo che egli ebbe a conoscere, ci riporta soprattutto al clima accesissimo degli utopisti francesi di quegli anni. E, sebbene militassero in campi politicamente e ideologicamente avversi, mi pare innegabile una somiglianza profonda con Michelet. Non sono uno specialista della biografia di Tommaseo e non so se i due si siano incontrati, negli anni Trenta, a Parigi. Ma poco prima il quasi coetaneo di Tommaseo (moriranno nel medesimo 1870 aveva pubblicato una famosa versione di Vico, tanto caro al Tommaseo e con grande eco aveva stampata la sua Storia di Francia nel Medioevo. Michelet insegnava allora al Collège de France e in Normale; e nel suo bel libro Le temps des prophètes Paul Bénichou ci parla di una vera e propria teologia umanitaria dello storico repubblicano; inoltre più prossimi a Tommaseo, erano naturalmente i neocattolici di quegli anni, penso alla cosiddetta Evoluzione plebea del Ballanche, che doveva interessare Tommaseo fin dal titolo. E – mi sia, concesso di aggiungere di passaggio – non conosco opera pittorica più vicina alla poesia di Tommaseo delle diciotto tele che Louis Janmot dipinse a partire dal 1835 nella Lione di Ballanche e di Federico Ozanam e che si trovano nel Museo Civico di quella città. Per tornare a Michelet: era anch’egli intensissimo diarista erotico, anch’egli percorso dal medesimo fremito che nel 1833 faceva scrivere a Tommaseo (cito dal saggio di Contini) queste righe straordinarie:
Quattr’ore: sole e pioggia: le nubi nere coronano il raggio, ma non l’offuscano: lieto il verde di doppia vita, il suono dell’acqua cedente in armonia con la luce che piove: ogni gocciola riflette un mondo [...] immagine serena nel pianto, immagine della verità cui non vieta il corso la piena delle sventure inondanti sui popoli.
Ma tanto basti.
Quando dunque Alberto Moravia, nella bandella editoriale del Tommaseo, scrisse di Debenedetti come di un critico che narra se stesso, non disse solo una verità relativamente ovvia. Tocca infatti il punto del rapporto fra gli oggetti dell’indagine e il nostro presente, il nostro modo attuale di rapportarci al passato. In forme diverse, i tre poeti della “malafede”, di una introversione cioè che si recita come estroversione, hanno in comune un atteggiamento di strazio e di nostalgia verso un passato irrecuperabile. Il classicismo del Tommaseo, il suo fondo latino e retorico, sta come una guardia ferrata alle sue spalle tanto più vigilante quanto più i contenuti sentimentali e intellettuali paiono invece appartenere a tutt’altro tempo. L’apparato arcaizzante, che gli varrà, le simpatie di Carducci giovane, è l’armatura difensiva di fronte alla deliquescenza in delirio per erotismo e figurazioni ascetico-religiose. E infatti Tommaseo non ha mai avuto uno “sliricamento” paragonabile a quello vissuto dal Manzoni fra Urania e i primi Inni. O, se si vuole, Tommaseo ha una barba padreternale e invisibile anche prima di diventare un “barbato” e barbogio. Quanto al Pascoli, e quasi indipendentemente dalla sita ossessiva retrocessione allo stato fetale (punto che ha in comune con Saba), è oggi luogo comune della critica che la sua grandezza si dia anche nella tensione quasi feroce con la quale mette a prova di resistenza le strutture metriche e le componenti linguistiche senza mai arrivare a valicare i confini metrici e morali, come Garboli ha benissimo chiarito, e senza condividere neanche in sogno le avventure delle avanguardie italiane della sua ultima decade. Ancora più clamoroso è il caso di Saba; e non è senza significato che a pagina 155 delle lezioni sulla Poesia italiana del Novecento Debenedetti richiami esplicitamente per Saba le canoniche categorie psicologiche di estroversione, introversione e narcisismo e che, alle pagine 71-75 del Tommaseo per chiarire la introversione del dalmata dedichi quattro pagine al triestino, per concludere che
per Saba esiste una soluzione al proprio fondamentale atteggiamento introvertito; ed è la soluzione estetica; mentre per il Tommaseo, così come l’abbiamo visto, esiste solo una soluzione che non risolve; cioè una soluzione moralistica [...] l’uscir da sé, che dovrebbe essere entusiastico slancio d’amore, per lui diventa espiazione sotto il giogo della legge [religiosa].
E anche Saba esiste, ossia la poesia di Saba esiste, in un volontario inserirsi in una tradizione, quella, appunto, di chi è diviso fra la passione dell’oggetto e del domani e la passione del soggetto e dello jeri. Scrive Debenedetti per Saba (pp. 128-129 del volume sulla Poesia del Novecento)
[...] se si analizza la sua poesia, e prima di tutto quella giovanile, ben poco si trova del Petrarca e del Leopardi. Vi si trovano invece tracce di poeti, che Saba si sarebbe offeso di sentirsi rinfacciare: per esempio il Tommaseo, anche per certe inflessioni e modi di pronunciare propri del veneto dell’altra sponda adriatica, vi si trova dell’Aleardi, dello Zanella, un po’ di scapigliatura, parecchio del Betteloni, parecchio anche del non amato Pascoli.
Era « di un’altra spece » da quella dei “moderni” di allora. Ai tre poeti bisognerebbe forse aggiungere Noventa. Se, come dice Debenedetti per quest’ultimo, il dialetto viene assunto come la generosa astuzia con la quale ci si autorizza a sentimenti e affetti che si considererebbero altrimenti, per sopravvenuta banalità, indicibili; altrettanto, a mio avviso, può dirsi per la riesumazione, in Noventa, di forme strofiche e metriche abbandonate dai moderni e più vicine semmai a quella commistione fra residui di classicismo arcadico e di ballata germanica o spagnola che sono del Tommaseo, anche se non solo sue. Certi “attacchi” di Noventa paiono ripresi pari pari da Tommaseo. Questi comincia, per esempio: « Non son per te. Tu troppo nuova ancora / io troppo antico… ». E Noventa: « Massa vecio par tì. Tì sì una dona… ».
Pur sapendo quel che rischio con questa, forse troppo precipitosa, sintesi, mi domando se il conflitto fra introversione ed estroversione nel Tommaseo di Debenedetti (e in alcuni fra gli autori cui ha dedicato la sua geniale attenzione) non potrebbe essere tradotto o dialetticamente “superato” nel conflitto, che è sociale e storico, fra livelli diversi e conflittuali di appartenenza sociale e di fedeltà o infedeltà alle proprie origini. Ché (almeno per il caso di Tommaseo e di Pascoli) sono evidentemente quelle del ceto di infanzia e adolescenza e della assunzione al ceto, psicologicamente impercompensato, delle lettere. Poverissimo ragazzo ma “liber’uomo” e intellettuale moderno, il primo. Povero studente e infelice anarchizzante ma finalmente accolto fra gli uomini di dottrina e di censo, il secondo. Mentre in Saba è sensibile la lacerazione tra la nevrotica superiorità dannunzianeggiante affichée dal giovane avviato ai commerci e umiliato dai coetanei frequentatori del ferreo ed elitario liceo di Gorizia e la sua “andata”, anche o soprattutto, erotica “al popolo”; e in Noventa, il percorso inverso dalla stabilità proprietaria alla bohème internazionale e geniale.
Tuttavia non dimentico neanche per un momento quel che prima ho detto: e cioè che Debenedetti ha un’altra parte, un altro fronte del suo discorso critico, quello della verifica testuale; e che, con lo Henry James che egli ricorda, è proprio mediante un mutamento dei punti di vista che egli si propone di accerchiare e portare alla terza dimensione il suo oggetto. Però una lettura delle pagine analitiche di Debenedetti su Tommaseo mi porterebbe ai confini del tempo di cui dispongo e soprattutto della competenza che mi attribuisco. Sì che la conclusione più prossima è forse questa: che malgrado tutto l’impegno rivolto, con questo mio intervento, a delimitare l’area di efficacia dell’autobiografismo critico di Debenedetti e indicarne – anzi, appena accennarne – i confini, anche questo mio parlare ribadisce quanto, sebbene con spavento, m’era parso di intuire dalle pagine di Debenedetti su Tommaseo: che de me fabula narratur.