Debenedetti e Thomas Mann

di Paolo Chiarini

Thomas Mann non appartiene – dal punto di vista delle predilezioni soggettive – a quei “classici del moderno” come Proust o Joyce, Kafka o Svevo, cui Giacomo Debenedetti ha dedicato analisi spaziose e sottili insieme, che restano come momenti essenziali nella critica italiana del Novecento. Certo, il lungo saggio del 1950 Confronto col Diavolo (1) Doktor Faustus, apparso un anno prima in traduzione italiana, e si allarga poi a considerazioni complessive sul nesso fra creatività e cultura nello scrittore tedesco che conservano ancora oggi una loro freschezza. Così dedica non poche pagine al

in lui le figure dell’ispirazione, i personaggi, prendono un profilo da prodotti dell’intelligenza; mentre i movimenti intellettuali quasi cantano, conte figure psichiche, scaturite dall’ispirazione. Mann ha una sensibilità estetica per le correnti di cultura, per il divenire delle interpretazioni della vita, soprattutto quando si sostengono nella zona intermedia tra la lucidità della teoria e la suggestività dello stato d’animo. (2)

Così ancora

lo abbiamo visto, di volta in volta, a tutti i crocevia della cultura europea, intento a raccoglierne la tematica in una immagine o in una parola che voleva manifestamente essere la penultima: cioè plastica quanto le occorre per bastare a se stessa come figura d’arte., e aperta quanto occorre per lasciare che quei temi conservino una forza irrisolta, ancora problematica e germinativa. (3)

Su questo terreno, e più precisamente sul terreno di una analisi psicologica della tensione che corre fra l’artista e la realtà del nostro secolo, il critico piemontese può accostare Mann a Proust in quanto scrittori della crisi (4) (e il Doktor Faustus alla Recherche come romanzi di una inibizione).(5) Solo che Proust lo è, ma « più in alto di tutti », (6) e la Recherche costituisce « il più insperato e profondamente felice capolavoro di stile dei tempi moderni ». (7)  E torna allora ad acquistare legittimità l’immagine con cui il saggio si apre, dove

gli altri scrittori sono semplicemente scrittori, della stessa razza di quelli che avevamo studiato nelle storie letterarie, gente che lavorava con carta, penna e inchiostro; mentre Proust sembrava far parte direttamente del nostro destino, sembrava prendere la durata uniforme dell’esistenza e farne una fluida, stupenda, incessante calligrafia di luce. (8)

In questa prospettiva Confronto col Diavolo è un punto di partenza che occorrerà tenere sempre ben presente per valutare le successive precisazio-ni, tutt’altro che secondarie, in tema di cultura e di stile. Ma dopo l’emergenza del ’50 il rapporto di Debenedetti con Mann torna a farsi abbastanza occulto, segue un tracciato carsico e va ricostruito seguendo indizi sparsi, tracce improvvisamente emergenti lungo itinerari orientati su altre costellazioni, riflessioni che maturano dietro l’anonimato di una semplice nota editoriale. È ciò che tenteremo di fare concentrandoci da un lato sul carteggio fra Thomas Mann e Karl Kerényi, pubblicato dal “Saggiatore” in quella “Biblioteca delle Silerchie” alla quale Debenedetti dedico allora una parte non piccola del suo quotidiano impegno culturale (Romanzo e Mitologia, 1960 ; Felicità difficile, 1963) ; e dall’altro avendo ben presenti i quaderni delle lezioni universitarie tenute nel 1963-1964 e 1964-1965, che costituiscono una sezione – e in verità molto importante – del volume postumo Il romanzo del Novecento (1971). Si tratta, dunque, di testi dei suoi ultimi anni, ai quali va attribuito perciò un “quoziente documentale” assai alto, anche se nell’un caso come nell’altro ci troviamo di fronte a pagine legate apparentemente o alla contingenza della routine redazionale di una casa editrice, oppure a una formulazione concettuale e stilistica che forse sarebbe stata diversa se destinata direttamente alla stampa. Ma per chi conosce lo scrupolo con cui Debenedetti preparava anche il più occasionale dei suoi contributi, e la cautela con cui soppesava ogni parola, circostanze del genere non possono avere valore veramente limitativo. D’altra parte, per quanto riguarda le Note adespote che aprono il doppio carteggio di cui si è detto sopra, la loro attribuzione al critico piemontese risulta fin troppo facile. A parte altre considerazioni, lo stile sempre animato dall’estro dell’intelligenza, l’aggettivazione mai inerte e soprattutto “spie” lessicali come la paradigmatica e ritornante coppia “vocazione e destino” valgono a fugare qualsiasi dubbio in proposito.

A cinque anni dalla scomparsa del “Mago di Lubecca”, Mann è per Debenedetti « uno scrittore che non cessa di apparirci come uno dei nostri maggiori maestri »: (9) una affermazione a tutta prima lineare, ma che i suoi gusti e predilezioni di lettura, unitamente. ai suoi interessi ermeneutici, ci inducono a interrogare – oltre la sua “generica” perentorietà – sul vero significato che essa racchiude. Tre anni dopo, ritornando sull’argomento, egli ribadisce e insieme precisa che i « lettori di tutto il mondo, [...] riconoscono in lui uno dei più allarmanti e tuttavia costruttivi maestri, non solo dell’arte, ma della cultura contemporanea » (10) Qui, forse, i termini del discorso di Debenedetti cominciano ad articolarsi attraverso una connotazione più problematica del magistero manniano, prospettato come presa di coscienza della “identità tragica” tedesca, che Mann vive sino in fondo in se stesso, e insieme « appello a un nuovo umanesimo [...] come una delle vie di ricostruzione nel secondo dopoguerra ».(11) Più che sul termine arte l’accento finisce per cadere – in ultima analisi – sul termine cultura, sulla « tensione culturale » che scaturisce dalla sua opera, sui « grandi crocicchi della moderna cultura di Occidente » (12) che essa – in ogni sua fase – attraversa.

La modernità di Thomas Mann non andrà dunque cercata nell’ambito più propriamente tecnico-letterario delle strutture narrative che restarno in fondo legate a quell’epica ottocentesca come « sublimazione della noia » di cui parla una annotazione di diario del 1935. (13)  La controprova si può leggere in una pagina del Romanzo del Novecento, in cui Debenedetti analizza quello splendido gioco a rimpiattino, tinto di parodia, fra citazioni goethiane e autocitazioni che costituisce il capitolo VII di Carlotta a Weimar, affidato per intero alla “voce monologante” del poeta:

Il più bell’esempio di monologo interiore non raggiunto e quindi una delle più persuasive illustrazioni della vera natura del monologo interiore, si trova forse nell’intimo soliloquio di Coethe al risveglio, che Thomas Mann ha ricostruito in un capitolo della Carlotta a Weimar dove appunto i “processi interiori” di quel Goethe mattutino sono resi in una forma che potremmo abbastanza tranquillamente definire “pseudo monologo interiore”. Nella zona di provenienza di quelle immagini la parola appare. già formata, formatissima. (14)

Nonostante i richiami di Mann a Joyce nel Romanzo di un romanzo (anche a proposito della citazione e del montaggio come tecniche narrative “avanzate”), (15) a un finissimo interprete joyciano come Debenedetti non poteva sfuggire – fatta salva la qualità superba del tour-de-force manniano – la distanza dello scrittore di Lubecca dall’applicazione rigorosa di procedure siffatte.

Quel che a Debenedetti interessa in Mann è altro, ed è altrove, come attraverso molteplici messaggi segnala la Nota al carteggio su Romanzo e Mitologia. Qui, infatti, « l’incontro del dotto con l’artista sembra ancora potersi ascrivere al “demonico” di Thomas Mann, inteso proprio coincidenza di vocazione e di destino grazie al quale lo scrittore, durante l’elaborazione dei romanzi dal sottosuolo più complesso, si imbatteva sempre nello specialista in grado di accompagnarlo nelle sue ricerche; confermarlo nelle sue intuizioni: Kerényi, appunto, per la mitologia quando stava ultimando il Giuseppe, Adorno per la musica seriale quando componeva il Faustus ». (16)  La parola-chiave che ci consente di intendere tutte le implicazioni sottese a questo denso passaggio è quella – dostoevskijana – di “sottosuolo”: non semplice retroterra culturale e problematico, ma – più in profondo, appunto – “pozzo” del passato e insieme della psiche, in cui dimensione temporale e dimensione mentale si organizzano secondo stratificazioni omologhe. La forma mitica è lo strumento che permette a questa “archeologia della memoria” di scavare nel “profondo pozzo del passato” che altrimenti sarebbe insondabile, come scandisce l’incipit del prologo alle Storie di Giacobbe (anche se, di nuovo, siamo lontani da quegli “strati della memoria” che Walter Benjamin aveva evidenziato in Proust). Tutto ciò è detto con molta semplicità e chiarezza (ma, altresì, con una forte dose di stilizzazione) nel tardo Saggio autobiografico:

II procedere della conoscenza, sia nelle tenebre del passato, sia nella notte dell’inconscio, le indagini che a un certo punto s’incrociano e coincidono, hanno grandemente allargato la scienza antropologica ritornando agli abissi del tempo o, che è lo stesso, scendendo negli abissi dell’anima; e la curiosità delle prime e più auliche cose umane, del mitico, del prerazionale, della storia religiosa è viva in tutti noi. […]  Mito e psicologia: i bigotti anti-intellettualisti pretendevano che fossero due cose ben distinte. Eppure mi pareva che dovesse essere divertente tentare una psicologia del mito mediante una psicologia mitica. (17)

È dunque in questo incontro fra psicoanalisi e mitologia da un lato, arte e letteratura dall’altro, che Debenedetti può scorgere a buon diritto uno dei tratti peculiari della narrativa manniana soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Venti: anticipato già per certi aspetti nei Buddenbrooks e ancor più nella Montagna incantata, e dispiegatosi poi in epica ampiezza nella tetralogia biblica. Non è un caso, del resto, che in quello stesso giro d’anni che ne vede la genesi e la pubblicazione della prima parte, Thomas Mann torni a volgere la propria attenzione – con intensità forse mai più raggiunta – a un personaggio-chiave della sua formazione come Richard Wagner. La vicinanza del quale all’opera cui stava allora attendendo ben si comprende, se si coglie la sottile struttura musicale che governa i “corsi e ricorsi.’ tematici nei quattro romanzi di Giuseppe e i suoi fratelli. Ma segretamente e sorprendentemente wagneriano è altresì il tema, quella discesa nel `profondo pozzo del passato` non molto lontana, dopo tutto, dall’immersione mitica nella materia nibelungica da parte del compositore tedesco. E ancora wagneriana è la parallela rivisitazione (anche questa mitica) della sfera economica, che Wagner pone come prologo – L’oro del Reno, appunto – all’inizio dell’Anello e Thomas Mann colloca alla fine del suo Giuseppe, in quel Giuseppe il nutritore dietro cui si disegna con evidenza un mito ben più moderno, la grande e breve stagione del New Deal rooseveltiano. Da un lato, insomma, musica e mitologia, dall’altro – per citare ancora una volta il titolo del carteggio con Karl Kerényi – romanzo e mitologia. Certo, queste segrete affinità subiscono, in Mann, una curvatura originale, e invero attraverso un doppio slittamento: il continuo gioco, come si è visto, tra mito e psicologia (Freud, al quale dedicherà nel 1936 un memorabile discorso, non è lontano; e neppure Jung, « alleato e complice sconosciuto », come scrive Debenedetti, con cui Thomas Mann « accetta, anche se non lo confessi, confluenze e parallelismi ») (18) in polemica con le tendenze metafisico-misticheggianti allora egemoni fra gli studiosi tedeschi di etnologia e storia delle religioni; e il ricorso all’elemento parodistico, in grazia del quale il tutto stesso appare sottratto a “speculazioni” d’ogni sorta e rifunzionalizzato nel senso della “Humanitàt” manniana. (E in questo snodo – sia detto solo fra parentesi il “nuovo umanesimo” di cui parla Debenedetti riceve un preciso fondamento culturale.)

Ma per tornare, concludendo, al musicista di Bayreuth, ci si consenta di citare – dello stesso Debenedetti – un altro significativo frammento di questo suo “mosaico” manniano: « Chi, a tutti i costi, volesse salvare all’arte il privilegio di arrivare sempre per prima in tutte le grandi intuizioni riguardanti l’uomo e il mondo, potrebbe citare alcuni tratti del saggio di Thomas Mann Dolore e grandezza di Wagner dove lo scrittore mostra che certi episodi e scorci dei drammi wagneriani sono già psicoanalisi avanti lettera: le drammatiche rimemorazioni, per esempio, dell’immagine materna da parte di Sigfrido prima del duello col drago e della corsa verso l’amore da parte di Parsifal, nel giardino del mago Klingsor, tra l’assedio delle fanciulle-fiore » (19) Non importa qui stabilire quanto correttamente Mann interpreti testo e musica wagneriani, e quanto – forse – vi legga anche se stesso. Più conta, semmai, rilevare la dimensione europea degli orizzonti e degli strumenti critici di Giacomo Debenedetti, il suo puntuale ritrovarsi ogni volta – l’immagine calza anche per lui – ai grandi crocicchi della cultura europea.


NOTE

1 Nato come introduzione a una edizione italiana di All’ombra delle fanciulle in. fiore e poi accolto nel volume Rileggere Proust, Milano, 1982, pp. 149-172. Il parallelo fra Proust e Mann alla luce del “diabolico” rapporto che lega arte e vita e che si risolve ovviamente (ma non è qui il senso del testo) a vantaggio dell’autore della Recherche, viene argomentato in snodi eccessivamente schematici che impoveriscono le ragioni di Debenedetti da Angela Borghesi in un suo recentissimo libro: « C’è [...] in Mann un coinvolgimento limitato nelle sollecitazioni della cultura e della vita del Novecento, una riserva problematica di fronte ad ogni nuovo impatto della coscienza con il mondo che si può leggere come bisogno d’imperturbabilità interiore, come necessità di appellarsi in ultima istanza ad una razionalità tradizionale di tipo spiritualistico. Egli affronta e seziona i temi più inquietanti ma non rischia mai nulla di personale; non ama le “vertigini” delle giogaie ma produce anche su questi temi musica eseguibile in qualsiasi sala da concerto. La vitalità problematica e caotica non lo contagia, non lo investe nell’intimo, anzi su di essa egli stende una coltre tranquillizzante, anche se trasparente, di razionalità. Questo atteggiamento si trasferisce del resto, al livello della narrativa manniana, nel rapporto tra lo scrittore e i personaggi, ch’egli domina e penetra a fondo. ma come Dio conosce senza riserve le sue creature, senza esserne coinvolto. Un rapporto da romanzo tradizionale in cui “i vapori interposti lungo la galleria” non ottenebrano comunque il “tutore di cristallo” degli specchi. Anche qui si esprime mia riserva d’imperturbabilità. un bisogno d’intrigarsi con dissidi e passioni ed esperienze anche sconvolgenti, ma di parlare dall’alto della soluzione ottenuta, da una zona di serenità impenetrabile, con strumenti espressivi già collaudati. Ben diversa, e fraterna, è la strada di Proust che si mette continuamente a rischio e che si sforza eli trovare la luce nel viluppo inestricabile della vita di cui si sente parte non distaccata, così che la forma stessa del romanzo subisce con lezi un revirement decisivo. (La lotta con l’angelo. Giacomo Debenedetti critico letterario, Venezia, Marsilio 1989, p. 244).
Se così fosse, Debenedetti anticiperebbe qui di qualche anno quella crisi della “presenza” di Mann, del suo essere “nostro contemporaneo”, che inizia intorno al 1955-1956 per toccare l’apice nel 1975 (cfr. la prima parte dell’inchiesta 11 Was halten Sie voti Thomas Mann? Achtzehn Autoren antworten, a cura di M. Reich-Ranicki, Frankfurt am Main, 1986, pp. 9-82). Sono ali anni. per di più, in cui Georg Lukàcs – proponendo una insostenibile alternativa tra « Franz Kafka o Thomas Manna Decadenza artisticamente interessante o realismo critico veritiero? » (ll significato attuale del realismo critico, trad. it., Torino, Einaudi, 1957) – contribuisce non poco, almeno in Italia, al maturare di tale crisi. D’altro canto proprio il 1975, con gli studi e i convegni sollecitati dal centenario manniano, avvia una (parziale) inversione di tendenza nel senso eli una riflessione nuova sull’opera dello scrittore tedesco, stimolata anche – a cominciare col 1977 – dalla pubblicazione dei Diari: essi introducono infatti elementi nuovi e determinano spostamenti di accenti talora significativi che per un verso confermano – in Mann – lo sforzo di rimozione del “”rischio
personale, ma per l’altro portano alla luce una dimensione di problematicità anche drammatica, di inclinazione al “contagio” della « vitalità [...] caotica » dell’esistenza. Certo, la successiva tesi debenedettiana che Mann affronti i tenù più inquietanti ma, sempre, da una “distanza di sicurezza”, producendo su questi temi musica eseguibile in qualsiasi sala da concerto (cfr. La Manzini, l’anima e la danza, 1956 e 1959, in Intermezzo Milano. Mondadori, 1963, pp. 133-13-t), resta ancora ben viva, se solo pensiamo al recente intervento di Karl Heinz Bohrer, La rimozione del male nella coscienza tedesca (trad. it. in “Lettera internazionale”, a. 1V, n. 18, ottobre-dicembre 1988, spec. pp. 12-14). E tuttavia il « bisogno d”imperturbabilità interiore » che ha spinto il nostro critico ad accostare questo aspetto di Mann al « sereno e disinfettato soliloquio > di Croce (cfr. Probabile autobiografia di una generazione, Prefazione 19’19 ai Saggi critici. Prima serie, Milano, Mondadori, 19693, p. 29), esce – da tutto quello che abbiamo sin qui detto e più avanti diremo fortemente ridimensionato. Del resto, lo stesso Debenedetti – come si vedrà – non sempre resta prigioniero di un cosiffatto schema critico, a nostro parere riduttivo. In questo senso la ricostruzione della Borghesi (lasciando da parte il discorso su Croce, soprattutto sul tardo Croce, al quale non è affatto estraneo il fondo oscuro della vitalità) andrebbe, rispetto a Maim, corretta e integrata [febbraio 1990].
2 G. Debenedetti, Confronto col Diavolo, cit. p.159.
3 Ibid.
4 Ibid., p. 167.
5 Ibid., p. 172. A proposito di questa tensione-crisi in Thomas Mann, scrive Debenedetti:
C’è una frattura tra il inondo storico e il mondo, se così possiamo dire, delle immagini dominabili coi mezzi espressivi: un divorzio orinai irreparabile tra la matrice inconscia collegata col senso delle cose e gli strumenti consapevoli con cui è dato di manifestarsi .> (Ibid., p. 161). L’”inibizione – vale a dire il patto col Diavolo elle i due, autori hanno sottoscritto, incatenando la vita « per conseguire l’arte » – è il risultato di una siffatta inconciliabilità tra le forme del mondo e il mondo delle forme. Cfr. anche Il personaggio-uomo nell’arte moderna, in “Questo e altro”, n. 5, novembre 1963, pp. 5-10 (poi in Il personaggio-uomo, Milano, Il Saggiatore, 1970, pp. 67-80, qui 1>. 79).
6 Ibid.
7 Ibid., p. 170.
8 Ibid., p. 149.
9 K. Kerényi-T. Mann, Romanzo e Mitologia, Milano, Mondadori, 1967, p. 10.
10 K. Kerényi-T. Mann, Felicitò difficile, Milano, Mondadori, 1963, p. 10.
11 Ibid., p. 13.
12 K. Kerényi-T. Mann, Romano e Mitologia, cit., p. 8.
13 T. Mann, Tagebiicher 1935-1936, a c. di P. de Mendelssohn, Frankfurt ani Main, 1978, p. 23 (Vienna, 29 gennaio 1935).
14 Il romanzo del Novecento, Milano 19872, p. 607 (= quaderni del 1963 -1964).
15 « Con molta attenzione lessi un libro elle non apparteneva direttamente all’argomento, ma con le intelligenti analisi mi dava conto di molte cose riguardanti la situazione nel romanzo e la mia propria posizione nella sua storia: James Joyce di Harry Levin. Siccome mi è precluso l’accesso diretto all’opera linguistica dell’autore irlandese, sono costretto, per studiare il fenomeno, a fare assegnamento sulla mediazione dei critici e devo dire che opere coane quella di Levin e il grande commento di Campbell a Finnigan’s 11 ake mi hanno chiarito parecchie insospettate relazioni e, nonostante la grande diversità della natura letteraria… persino qualche affinità. Nutrivo il pregiudizio che, accanto all’avanguardismo eccentrico di Joyce, la mia opera dovesse fare l’effetto di un fiacco tradizionalismo. Vero è che il legame tradizionale, anche se tinto di parodia, consente una più facile accessibilità e comporta la possibilità di essere più popolare. Tuttavia è più questione di atteggiamento che di essenza. “Poiché l’argomento rivela la decadenza della classe media”, scrive Leviti, “la tecnica di Joyce passa i limiti del romanzo realistico. Né il Portrait of the Artist né Finnigan’s Wake sono, a rigore, romanzi, mentre Uli-sses è un romanzo destinato a chiudere l’epoca dei romanzi”. Ciò vale non meno per la Montagna incantata, il Giuseppe e il Doktor Faustus e la domanda di T.S. Eliot, “se il romanzo, dopo Flaubert e James, non abbia cessato la sua funzione, e se Ulysses non sia da considerarsi un’epopea”, corrispondeva esattamente alla mia domanda se, a quanto pare, nel campo del romanzo valga oggi soltanto ciò elle non è più romanzo » (Th. Mann, Romano di un romanzo, trad. it. in Scritti minori, Milano Mondadori, 1958, pp. 161-162.)
16 K. Kerényi-T. Mann, Felicità difficile, cit., p. 11.
17 T. Mann, Saggio autobiografico (1930), trad. it. in Scritti minori, cit., p. 100.
18 Il romanzo del Novecento, cit., pp. 468-469.
19 Ibid., p. 463. Cfr. anche Il personaggio-uomo, cit., p.73, dove peraltro alcune anticipazioni della psicanalisi sono individuate, più che in Wagner (e in Nietzsche), nella medicina, « se è vero che le cose si incominciano a capire quando si possono chiamare col loro nome».