Debenedetti e Proust

di Jacqueline Risset

Tra il 1925 e il 1960, Proust appare ripetutamente negli scritti di Giacomo Debenedetti, e vi appare in modo tale da poter esser definito, rispetto all’insieme di questa sua opera critica, ad un tempo come oggetto privilegiato e come modello interiore.

Il lungo saggio Rileggere Proust, del 1946, giustamente posto dagli editori in testa al volume postumo di saggi proustiani uscito nel 1982, si apre con queste righe:

Oggi, passati quasi 25 anni, rileggere Proust significa non solo mettere a confronto la sua gloria – quale si è consolidata – con la sua fama, quale brillò repentina, con una dolce, ineluttabile e perfino calamitosa prepotenza, nel cielo letterario, e umano anche, in cui apparve quella cometa dalla lunga chioma [ ... ]. (1)

E questa apertura, con la sua andatura mimetica, che include l’uso proustiano dei tre aggettivi e la fioritura – ugualmente proustiana – di metafore venute dal regno della natura a rappresentare l’universo intellettuale, con il suo slancio rimandato dalle successioni degli incisi, sarebbe già sufficiente a, rivelare la centralità dell’autore della Recherche per la scrittura del grande critico italiano.

Quando Debenedetti scriveva i primi saggi su Proust, Le Temps retrouvé non era ancora pubblicato; e quando scriveva gli ultimi, mancavano ancora le opere incompiute e preparatorie (Jean Santeuil, Contre Sainte-Beuve); solamente in questi anni del resto si sta completando la pubblicazione, con le edizioni di Gallimard e di Flammarion arricchite dai brani inediti. Ma, dal ’25 ad oggi, ogni nuova pubblicazione proustiana ha portato nuove conferme alle sue intuizioni e analisi, la cui sicurezza e originalità spiccano nel panorama, della critica italiana del tempo.

La critica proustiana inizia in Italia, occorre dirlo, molto presto, con il saggio di Lucio D’Ambra del dicembre 1913, sulla “Rassegna contemporanearanea”. D’Ambra ha il merito di percepire, profeticamente, cosa rarissima anche in Francia in quegli anni, la dimensione “futura” di un autore considerato allora per lo più “mondano” e “manierato”: « Ricordate questo nome e questo titolo: Marcel Proust e Du cóté de chez Swann. Tra cinquant’anni i nostri figlioli li ritroveranno accanto a Stendhal e alla Chartreuse. Il libro (Swann) è peraltro manifestazione impressionante d’un’intelligenza meravigliosamente limpida e libera ». (2)

Nell’aprile del 1914, un articolo non firmato della “Voce” descrive Du cóté de chez Swann come un’opera interessante, ma secondaria: « un bel libro francese – francese e non parigino – folto, fitto, ombroso… un bel libro, ma che non ci dà una sensibilità nuova, una lirica rinnovatrice». (3)

D’Annunzio nota nello stesso anno: « [ ... ] L’arte è lontana da certi trattati quasi scientifici fondati sulla memoria fallace », e si esclama con violenza, in francese: «Son oeuvre n’est qu’un monceau de papiers, de chartes et de titres, pondu par un archiviste maniaque et tousseur dans l’antichambre armoriée d’une vieille marquise qui entretient un très vieux pédéraste blèse et babillard». (4)

Un giudizio così negativo rappresenta per altro un fatto isolato nella critica proustiana, in Italia e fuori d’Italia. Ma Giacomo Debenedetti poteva scrivere, nel 1925 – dopo la morte di Proust, quindi, e prima della pubblicazione del Temps retrouvé:

Il vezzo, adesso, è di stroncarlo quasi che il romanzo (il Proust debba considerarsi come una nuovissima versione dei Misteri di Parigi, rovesciata sullo sfondo del faubourg Saint-Germain. (5)

E, in quell’anno ancora, così acerbo per la vera critica proustiana (il saggio più acuto del periodo – a parte il bellissimo saggio di Jacques Rivière su Proust e Freud che rimarrà per tutto il secolo, o quasi, ignorato, (6) – sarà quello di Walter Benjamin nel 1929 [7]), Debenedetti rivela già un pieno possesso del proprio giudizio sull’opera, che si manifesta nel modo in cui descrive, e spiega « la grande docilità con cui l’opera di Proust si assoggetta ad essere smembrata in morceaux choisis, malgrado il carattere di continuità che presenta per il lettore il suo ininterrotto, e quasi fatale, fluire ». La frammentabilità della Recherche non risulta, come pensava Valéry (Debenedetti riporta una conversazione di quest’ultimo con Emilio Cecchi), dal fatto che, come per l’esperimento che i ragazzi fanno con i vermi, il frammento della Recherche sarebbe identico all’insieme:

La Recherche può paragonarsi a quelle curve di cui i geometri sanno ricostruire l’andamento, quando ne sanno un solo tratto: perché, come dicono, ciascun tratto vale a denunciare la legge, e la ragion del moto, onde la curva fu descritta. (8)

Se si pensa che non era ancora noto Le Temps retrouvé, dove viene enunciata dettagliatamente la legge di composizione dell’opera, si coglie la profondità e il rigore con i quali il giovane critico aveva letto e percepito il nuovo romanziere.

Profondità e rigore che si trovano immediatamente confermate, nelle pagine seguenti, dal rapporto centrale che viene stabilito, con sicurezza, tra la scrittura di Proust e la musica di Wagner. In ambedue,

la cifra vuole mantenersi in una complessità insolubile, e rifiuta di essere distesa in figure particolari e discorsa per elementi analitici. Non si dipana, ma ha virtù di ricreare per noi, in un fiat, tutta intera l’opera del maestro. (9)

Tale intuizione del ’25 verrà pienamente confermata negli anni Ottanta dalle analisi di un altro grande proustiano italiano, Giovanni Macchia, che ritroverà l’orma wagneriana nella struttura d’insieme della Recherche come nei suoi particolari (a partire dalle “Jeunes Filles en fleur”). (10)

Ma la chiave musicale dell’opera proustiana viene estesa da Debenedetti all’insieme dell’opera:

Quando si legge nella prima riga del Du cóté de chez Swann: « Longtemps je me suis couché de bonne heure», si ha l’impressione che il colpo di bacchetta di un invisibile direttore di orchestra abbia smossa la cellula sonora; che propagherà la sua vibrazione indefinitamente, come un sasso lanciato dentro un’acqua calma.” (11)

E la presenza, o piuttosto la predominanza della musica, – « la vasta sinfonia che fascia tutto il romanzo di Proust », e che include anche « la brume doucement sonore » di Debussy – si afferra appieno solo quando si capisce la sua natura di “anima”, che qua e là – « intorno a ogni realtà che in essa cada » – si manifesta, « come, nelle favole antiche, si affacciava fuor delle grotte sonore, per chi sapeva destarla, la Ninfa abitatrice ». (12)

Ma il segreto di questa “aura musicale” così necessaria, per mezzo della quale Proust scava, come Wagner, davanti alla scena un suo “golfo mistico”, Debenedetti lo trova nelle Journées de lecture, che sono la « prova avanti lettera della Recherche » e che risuscitano l’età dell’oro della lettura, cioè a dire l’infanzia. Allora, « agli amabili inviti del mondo reagivano strati inconsapevoli della coscienza»; (13) di modo che ciò che costituiva allora l’oggetto unico dell’attenzione, il libro – oramai smarrito, dimenticato – ha lasciato passare, e ha trasmesso alla memoria senza che se ne accorgesse « l’atmosfera che lo circondava ». Tutta la Recherche, scrive Debenedetti, è costruita così:

sempre, l’autore parte in cerca di un’antica attenzione che ha smarrito il suo oggetto primitivo e che non ritrova se non la musica nella quale, senza darsene per intesa, si era allora lasciata calare. (14)

Con lievità, con grazia musicale a sua volta – e con impressionante sicurezza – il critico indica in queste pagine due elementi effettivamente fondanti dell’opera proustiana, l’inconscio e l’à cote. (15) Ma non solo: nella seconda parte di questo saggio del ’25, contesta anche l’operazione piu corrente della critica proustiana, e non solo di quel periodo, «il fare della memoria la preponderante facoltà di Proust ». (16) In realtà, Proust è “poeta delle idiosincrasie”, (17) e, come tale, “inventore”, o scopritore, di un nuovo continente della letteratura: le idiosincrasie « o meglio, quelle che, prima di lui, solevamo considerare sterili e incomunicabili idiosincrasie»: quelle popolazioni che abitano – come scrive Debenedetti con il lessico dell’epoca, che non ha ancora assimilato Freud ma lo incontra per vie traverse – il “subcosciente”. Proust ha detto il segreto delle idiosincrasie; e, nello sforzo mirabile per catturare con il linguaggio critico la fisionomia particolare di questo “atto del dire” proustiano, Debenedetti usa anche la parola “inconscio”, preceduta da un “quasi” che ha valore di litote: « Proust si è inventato una frase lenta, volubile e insinuante, che si tuffa nell’ombra del quasi inconscio ». (18) E a questo punto, con gesto caratteristico, intensamente e musicalmente mimetico, la frase del critico si fa straordinariamente simile alla frase “dal collo lungo e sinuoso” che Proust stesso descrive come caratteristica della musica di Chopin, che Debenedetti riconosce come proustiana e prolunga come ”debenedettiana”:

Si sorprende quasi sempre, nella cadenza, lo scatto del polso che, rovesciando la mano, porta la preda, ormai rassegnata alla sua dolce cattività, dall’ombra alla luce. (19)

Nei saggi degli anni seguenti (Proust e la musica, Commemorazione di Proust, ambedue del ’28) che sono saggi carichi, quasi fino ad esplodere, di intuizioni felici e di sorprendenti colpi di luce, l’assoluta novità e modernità di Proust viene riaffermata e accostata a quella corrente che sarebbe sbocciata, molto più tardi, nei testi del nouveau roman e che Debenedetti chiama, pittorescamente, “lo sciopero dei personaggi”; mentre – altra anticipazione, questa volta riguardante le future direzioni della critica del Novecento – interroga lo statuto del personaggio che dice je nella Recherche; ne indica la complessa stratificazione (è volta per volta “lo schermo, il diaframma lirico”, “l’organizzazione dell’azione”, “una specie di compare di rivista”, “l’infallibile corifeo”). (20)

l saggio del 1946 che dà il titolo al libro postumo, Rileggere Proust, percorre tutta la storia della critica proustiana fino a quel momento, e interroga da vicino singoli episodi del romanzo – il rapporto tra Swann e Odette, avvicinato ad un « interrogatorio di gelosia » – i vari momenti di brusca “accelerazione”, la struttura costruita su «una immediatezza incalcolabile e come irreale di apparizioni», le quali a diversi gradi ci rimandano a questo “altro da noi” che è l’inconscio, « che si esprime con un suo rozzo e raffinato, primordiale e aggiornatissimo vocabolario di immagini». (21)

Torna anche, questo saggio, sulla “passività” dell’operazione  quel « vero e proprio sforzo, tenace applicazione per ridursi in uno stato  di passività »: si tratta di « esporsi a farsi cercare dall’essenza delle rose». Il  lavoro di ricerca è ascolto musicale, quasi inoculazione dell’essere dell’al-tro. La sensibilità critica di Debenedetti, la sua libertà da ogni forma di schematismo o gabbia ideologica consiste in questo caso nel mettere direttamente in rapporto aneddoti biografici come quello delle rose del Bengala raccontato da Reynaldo Hahn (22) o “brouilles” dolorosamente vissute e sapientemente orchestrate nell’epistolario, o “singeries”, come le imitazioni (ad esempio dei modi di gestire di Robert de Montesquiou), e prove letterarie come i “pastiches”, nei quali si tratta, per liberarsi dall’ossessione musicale di un autore (dall’ “idolatria”, dirà Proust) di passare attraverso l’estrema passività, di « annegarsi in quell’autore », fino all’esperienza centrale, quella che Debenedetti chiama delle “intermittenze”.

Georges Bataille, in un saggio del 1948 su “Critique”, definirà « il rigore con il quale Proust riduce la sua ricerca alla trovata involontaria: [...] non si tratta più di cambiare il mondo, ma di afferrarlo, e di lasciare che liberamente ci afferri », e aggiungerà inoltre: « Se il mondo non cristiano definisce un giorno le forme della sua vita spirituale, questo volto potrebbe somigliare a Proust ». (23)

La penetrazione intuitiva di Debenedetti nei rapporti con il suo oggetto si rivela e si esercita in sommo grado, paradossalmente, a proposito di un suo errore terminologico. Nello sforzo di descrivere l’esperienza centrale di Proust egli aveva proposto, nei primi saggi, il termine di “idiosincrasie”. Nei saggi seguenti adotta il termine. “intermittenze”, che usa come una sorta di sinonimo delle “epifanie” joyciane.

L’espressione “intermittences du coeur” è ben nota. Proust la usa quando racconta, in Du cóté de Guermantes, come, diversi mesi dopo la morte della nonna, nel bel mezzo di questo “tempo di oblio” che segue a volte la morte delle persone che abbiamo amato di più, slacciandosi un giorno il bottone dello stivaletto, fu bruscamente invaso da una “presenza sconosciuta e divina” che indicava, senza alcun dubbio, l’improvviso riaffiorare del ricordo, e prosegue: « car aux troubles de la memoire sont liées les intermittences du coeur »: (24) queste interruzioni – questa discontinuità della memoria – provocano dei momenti in cui « le ricchezze dell’anima sono indisponibili ». Debenedetti, alla ricerca di una definizione d’insieme per quegli istanti privilegiati e trasfiguranti che formano il cuore, e il vero motore di tutta la Recherche, sceglie di interpretare positivamente e non negativamente questo concetto di intermittenze, indicando con questo “errore” due verità: che manca un termine unico che indichi l’essenza dell’esperienza proustiana, e d’altra parte la discontinuità fondamentale di tale esperienza.

Ma questo momento in cui il critico interpreta erroneamente il suo oggetto è forse il momento in cui gli è più vicino. Proust ha, nella Recherche, commesso due errori, l’uno anatomico, – che gli fu severamente rimproverato da Gide e che costituì, in qualche modo, uno dei motivi del suo rifiuto alla pubblicazione di Swann presso Gallimard – l’altro grammaticale, che non è stato a mia conoscenza mai notato. Ambedue corrispondono esattamente all’atteggiamento di Debenedetti: sono causati dall’urgenza della definizione, della conoscenza, e sono, in misura diversa, scopritori di verità.

Il primo sta nell’espressione « les vertèbres [...] du front de ma tante » (25) nel momento in cui Proust descrive questo personaggio malato e prossimo alla sua morte che è la zia Léonie. Si comprende facilmente che in realtà Proust sta parlando delle ossa rese visibili sulla fronte della vecchia signora dall’estrema magrezza, ossa minute e separate come delle vertebre: ciò che Proust afferra con questa visione se si vuole infantile e imperfetta è la percezione della continuità dello scheletro, una presenza quasi da danza macabra sotto la figura composta, dolce e vestita.

Il secondo “errore” è contenuto nella frase delle Jeunes Filles en fleur che descrive, a proposito di Albertine incontrata davanti al mare a Balbec insieme alla “petite bande”: « nous croyons aimer une jeune fille, et nous n’aimons, hélas! en elle que cette aurore dont leur visage reflète momentanément la rougeur». (26)

Il passaggio, grammaticalmente scorretto, da “une” jeune fille à “leur visage”, indica chiaramente lo scivolare dall’ogetto di desiderio alla generalità, a “les jeunes filles”, secondo un procedimento metonimico caratteristico di Proust e con il quale Jacques Lacan – a partire dalla teoria freudiana – definisce precisamente il movimento del desiderio nella psiche. (27)

Proust, ni un saggio pubblicato da “Le Figaro” prima della morte, difendeva Flaubert contro chi lo accusava di commettere errori di grammatica, dicendo: « Il y a une beauté grammaticale qui n’a rien à voir avec la correction ». (28) Vi è una sovranità nella scrittura che va ascoltata, e l’ascolto di quella musica coinvolge l’orecchio e molti altri strati della sensibilità. L’urgenza che Debenedetti legge nell’interrogatorio della gelosia inflitto da Swann a Odette come nel desiderio di conoscenza di Marcel, la esprime anch’egli nell’intensità del suo deciframento: le “intermittenze” debenedettiane, questo negativo che diventa positivo, e che si accordano con la sua lettura della realtà di Proust come corposità, come seguito di apparizioni di personaggi “di sbieco” (nelle quali si riconoscono anche gli angeli baudelairiani), trovano una sorprendente conferma in questa descrizione di Maurice Blanchot: « Proust découvre que ces instants privilégiés ne sont pas des points immobiles, mais que, de la surface de la sphère à son centre, ils passent et repassent, allant, incessamment quoique par intermittence, vers l’intimité de leur réalisation véritable. (29)


NOTE
1 G. Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, p. 11.
2 L. D’Ambra, in “Rassegna contemporanea”, 10 dicembre 1913.
3 In “La Voce”, 28 aprile 1914.
4 Pubblicato da G. Mirandola, Pirandello e Proust, in “Letture italiane”, ottobre-dicembre 1968.
5 G. Debenedetti, op. cit., p. 79.
6 J. Rivière, Quelques progrès dans la connaissance du coeur humain: Proust et Freud, in “Cahiers de l’Occident”, 1927. pubblicato da M. Lavagetto in Italia sotto il titolo Proust e Freud, Pratiche editrice, 1985, attualmente nei “Cahiers Marcel Proust*’, Paris, Gallimard, 1987.
7 W. Benjamin, Pour un portrait de Proust, in Mythe et Violence, Denoel, 1970.
8 G. Debenedetti, op. cit., p. 81.
9 Ibid., p. 82.
10 G. Macchia, Il silenzio su Parsifal, in Proust e dintorni, Milano, Mondadori, 1989,1). 69 sgg.
11 Ibid.,p.83.
12 Ibid., p. 85.
13 Ibid., p. 87.
14 Ibid., p. 88.
15 Cfr. G. Macchia, L’Angelo della Notte, Milano, Rizzoli, 1984, passim; J. Risset, Théorie et Fascination, “Paragone”, ottobre 1971, ripreso in L’Invenzione e il Modello, Roma, Bulzoni, 1973; e Desiderio, profanazione e fuga, in Aa. Vv., Il gioco, Cosenza, Lerici, 1976.
16 G. Debenedetti, op. cit., p. 91, cfr anche G. Poulet, L’Espace proustien, Paris, Gallimard, 1970.
17 G. Debenedetti, op. cit., p. 91.
18 Ibid., p. 94
19 Ibid., p. 95.
20 Ibid., p. 130.
21 Ibid., p. 68.
22 Ibid., p. 136; cfr. l’analisi di M. Lavagetto in questo volume.
23 G. Bataille, Proust, in “Critique”, novembre 1948, ripreso in Oeuvres complètes, XI, Paris, Gallimard, 1988.
24 M. Proust, A la Recherche du Temps perdu, Paris, Gallimard, 1954. p. 52. Sul tema dell’ “errore” in Proust, cfr. anche l’interessante saggio di M. Lavagetto, Stanza n. 43 (Un lapsus di M. Proust), “Paragone”, agosto 1987.
25 Ibid., p. 849.
26 M. Proust, op. cit., 1, p. 846.
27 Cfr. J. Risset, Desiderio, profanazione e fuga, cit., J. Lacan, L’instance de la lettre dans l’inconscient, in Ecrits, Seuil, 1966; M. Bowie, Freud, Proust, Lacan, La théorie comme fiction, Denoel, 1988.
28 M. Proust, À propos du style de Flaubert,, “Nouvelle Revue Française”, gennaio 1920, ripreso in Chroniques, Paris, Gallimard, 1927.
29 M. Blanchot, L’expérience de Proust, in Le livre à venir, Paris, Gallimard, 1959.