Debenedetti e le arti figurative

di Maria Grazia Messina

Quando, nei quaderni del 1963-64, nell’ambito del corso sul romanzo del Novecento, Debenedetti invita ad accantonare per un momento l’autonomia della pittura e a servirsene quasi come « un’arte applicata ed ancella, che fornisce un utile materiale illustrativo ai testi letterari », sacrifica, in fondo, ai fini di una chiara esposizione didattica, quello che sembra essere un suo convincimento radicato, anche se non esplicitato: la paradigmaticità delle arti figurative per un discorso critico che si avvalga come struttura portante della metafora e del ribaltamento dei piani culturali – per usare i termini riferiti da Montale allo stesso Debenedetti nella prefazione al Romanzo del Novecento. (1) Già la scrittura di Debenedetti è vivida suscitatrice di immagini e di analogie, dalla qualità dell’aggettivazione alla fluenza dell’organizzazione sintattica: in questo egli fa proprio, rispecchia nella propria attività di interprete, quel problema che egli affronta come primario in ogni analisi del testo, e cioè la centralità della espressione, della traduzione adeguata del flusso del pensiero nello strumento del linguaggio. Se poi, sul piano ulteriore dei significati oggetto della comunicazione, artisti e romanzieri, come scrive ancora Debenedetti, sono mossi dal « bisogno di dare corpo e figura sensibili, tangibili alle idee », (2) ecco che l’attenzione alla pittura si impone di necessità, inducendo ad attingere similitudini dal suo repertorio iconico, nell’arco del suo complesso percorso storico, e certe procedure di analisi dalle sue modalità di registrazione e di trasposizione. Se « l’artista è un idolatra nel senso più nobile del termine », che « cerca l’immagine, a questa si attacca e, a proprio modo, l’adora », (3) altrettanto, nel nostro caso, sembra esserlo il critico riguardo le immagini che ci vengono dal patrimonio delle arti figurative, e non certo per le sole ragioni strumentali, connesse alla verifica di modelli multidisciplinari, richiesti da un aggiornato approccio metodologico. Come ci è noto, sia dalle testimonianze di chi ne condivise la vicenda di vita, sia da quelle, più frammentarie, degli amici, dei colleghi nelle attività editoriali, degli allievi nei corsi universitari, Debenedetti, come per la musica, rivolgeva un’attenzione tutta particolare ai fatti della pittura, indipendentemente da interessi e scelte letterari, dimostrando una sensibilità specifica all’indagine e alla valutazione dei linguaggi figurativi; una congenialità che poi nutriva con un’estesa gamma di letture nel settore compaiono nei saggi paradigmatici riferimenti o citazioni dalla storia dell’arte, da Venturi a Focillon, da Greenberg ad Haftmann ad Argan (4) – e, soprattutto, con la frequentazione di artisti e studiosi, a iniziare dagli anni torinesi, segnati dall’amicizia per Venturi e Casorati, così gravida di esiti per il futuro, sia sul piano di un’etica esistenziale, che per l’acquisizione di categorie interpretative, poi ritornanti e caratterizzanti la sua attività di critico.

A Torino, negli anni ’20, Venturi sembra offrire a Debenedetti la griglia teorica per quella che allora appariva l’unica via percorribile agli studi di estetica e di analisi del testo, letterario o figurativo che fosse, e cioè la possibilità di condurre un discorso in margine alla linea del Croce, che però da questa scaturiva e a questa riconduceva. Il rapporto con Casorati si pone, invece, per le sue conseguenze, sullo stesso piano della contemporanea lettura di Proust: è cioè l’esperienza del fatto artistico in sé, colto nella sua immediatezza e flagranza, al di qua degli schemi, che permette a Debenedetti delle intuizioni sottili e nuove, desunte dalla viva materia dell’opera, e che solo molti anni più tardi riceveranno nel suo pensiero una conferma e una legittimazione anche teorica, grazie alla conoscenza della filosofia di Husserl e del suo voler indagare il fenomeno indipendentemente da ogni Ideenkleid o abito mentale che ne occulti il senso proprio. La dettagliata recensione, nel 1927, del saggio di Venturi, Il gusto dei Primitivi, manifesta nel suo procedere per opposizioni di tesi e antitesi, ammissioni e negazioni, l’impasse, denunciato venti anni dopo dallo stesso Debenedetti, (5) di voler « uscire dal Croce per le strade da lui tracciate ». Viene rimproverata a Venturi una sorta di deviazione psicologistica per aver posto in esclusivo risalto le condizioni individuali da cui scaturisce l’ispirazione, riferibile alla sola sensibilità degli artisti; insieme si riconosce che questa accentuazione della persona è la via per far sì che il sentimento, assunto a contenuto dell’arte, si faccia effettivo sentimento morale, garanzia dell’universalità e liricità, già presupposte dal Croce come costitutive dell’opera compiuta. Venturi addita così al giovane Debenedetti, oltre che un esemplare rigore metodologico – la morale con cui egli conclude la recensione è « guai a chi accosta l’arte col sorriso del conoscitore » -, anche la possibilità di una nuova attenzione ai processi psicologici inerenti al fatto creativo, rinforzata, a sua volta, dalle coeve letture di Proust e di Bergson. (6) C’è un passo, poi, della recensione, importante per una prima definizione di una categoria interpretativa, in seguito costantemente approfondita da Debenedetti, laddove egli riconosce a Venturi il merito di aver introdotto nella coscienza di critici e pittori, al posto della « tirannide delle regole apprese ed instaurate », l’esperienza della “rivelazione”, unico possibile correttivo all’ “intellettualismo” imperante. Ed è proprio una sorta di “rivelazione”, anche se non esattamente nei termini intesi da Venturi, quella che Debenedetti vive in quegli anni nel guardare alla pittura di Casorati. Amico dell’artista, ne sostiene le iniziative, collaborando alle attività della Società di Belle Arti Antonio Fontanesi, di cui Casorati era presidente, e interessandosi al percorso dei più giovani pittori che il maestro aveva raccolto intorno a sé: del 1927 è la presentazione alla mostra ginevrina di Francesco Menzio, e del 1929 quella alla mostra del gruppo tenutasi a Milano, alla Galleria del Milione. (7) A Casorati stesso Debenedetti dedica una conferenza, tenuta a Firenze nel dicembre 1932, poi pubblicata ne “L’Italia letteraria”; (8) il testo è ripreso ed approfondito in un saggio del 1933, rimasto inedito fra le carte del critico. Lo scritto tradisce una sicura padronanza degli strumenti di analisi formale elaborati in seno alla metodologia purovisibilista e già impiegati in modo esemplare da Venturi; ma Debenedetti, grazie ad una personale, specifica sensibilità per le ragioni del fare pittura, sa andare al di là degli schemi di linea, plastica, colore, fruiti come categorie descrittive, e riesce a far parlare i segni effettivamente di per sé, in relazione alla coerenza con cui si strutturano, si organizzano nello spazio di un determinato quadro. Smentendo ogni possibile classificazione della semplificazione casoratiana sotto il registro della naiveté, Debenedetti esordisce dichiarando che l’arte di questi è « singolarmente priva di candore » e che, invece che un’ “`innocenza” di sguardo richiede la disciplina di un’ “inflessibilità critica”; la sua ragione d’essere risiede non nella messa in scena di un “dramma” come in Carrà, né di un “romanzo”, come in Soffici o Carena, ma in una sorta di silenziosa ed immota “apparizione” di figure umane e cose, astratte da qualunque affettività e oggettivate fino a farsi segni, giustificati dalla sola logica interna all’opera. Per spiegare il meccanismo dell’ “apparizione”, Debenedetti si avvale, invertendo per una volta le parti, dell’ausilio “ancillare” offerto da analogie riscontrabili in letteratura: e fa riferimento ai Sei personaggi di Pirandello, i quali impongono le ragioni di una vita propria, indipendente dalle intenzioni dell’autore, e coerente invece al luogo del loro presentarsi. Parallelamente, ne Lo studio, un grande quadro del 1922, poi perduto in un incendio,

I protagonisti sono i pezzi, gli elementi di “un quadro da fare” che egli (Casorati) aveva lungamente composti e ricomposti nel suo studio, come uno scenografo fantasioso che si crei da solo e per sé solo, per suo diletto, uno spettacolo. Sono gli elementi che egli aveva cercato di sfruttare pittoricamente. E, ad un tratto, questi elementi di “un quadro da fare” trovano da sé il proprio equilibrio: par che capiscano che la loro vera scena è quel luogo, nudo, dove essi avevano tentato di ordinarsi, in artificiose. scenografie e che il loro vero significato non può nascere da una favola artefatta che li coordini, bensì dal fatto stesso ch’essi si ritrovino lì raccolti, in attesa di una favola che è vano cercare, perché l’hanno già ritrovata; ed è la loro essenza di forme precise, viventi nell’aura di quel luogo di ricerca e di lavoro, dove sarà data loro esistenza pittorica.

Il successivo passaggio nell’opera di Casorati dall’apparizione alla rivelazione ripercorre, per Debenedetti, la via che segna l’avvento dell’arte moderna, nello scorrere da Balzac a Flaubert, da Delacroix a Manet. Con Flaubert – vedi l’evocazione del paesaggio fluviale in apertura a L’educazione sentimentale – « la frase non si limita più ad indicare le cose, è divenuta essa stessa una sensazione equivalente a quella che si sprigiona dalle cose »; a sua volta, in pittura, l’impressionismo – come Wagner in musica – « stabilisce il passaggio dal segno che serve strumentalmente ad esprimere al segno che direttamente e immediatamente esprime ». Nelle opere recenti di Casorati, fra cui Debenedetti cita il Ritratto di fanciulla, « il mito delle cose che fanno la pittura », che caratterizzava il lavoro precedente, « è divenuto il mito dei segni che sono la pittura, il mito della pittura »; nel ritratto considerato, « le linee di contorno, gli accenti di colore, i piani discriminatori della luce e dell’ombra si concertano stupefatti di rivelare l’evidenza irrefutabile, quasi paradossale di una figura umana ». È molto importante, nel definirsi della strumentazione metodologica poi impiegata da Debenedetti, questa prima consapevolezza, mediata da Venturi, che con l’impressionismo pittorico si sancisce l’autonomia di funzionamento dei significanti, al di là di significati intenzionalmente perseguiti; ma, insieme, la scoperta che l’opera, in virtù del suo farsi, della sua logica interiore, sprigioni anche una potenzialità di proprie, inedite, rivelazioni, sembra un’acquisizione derivata più che altro dalla concomitante lettura di Bergson e di Proust, cui Debenedetti dedica nel 1927 un saggio miliare, Commemorazione di Proust, incentrato sulle “intermittenze del cuore”, reviviscenze involontarie che scaturiscono di per sé dagli oggetti e dalle loro associazioni, avulse da un intervento dell’autore.
Negli anni successivi, il percorso di Debenedetti è segnato, come è noto, da un progressivo distacco dall’estetica crociana, in vista di un approdo a discipline diverse, ma correlate negli esiti, tali da dare adito a una metodologia critica contraddistinta dal confronto e dall’intersecarsi di più prospettive culturali. Una sintesi e un bilancio di questo processo sono offerti dallo stesso Debenedetti nel 1948, in Probabile autobiografia di una generazione, dove, ad esorcizzare definitivamente il modello crociano e l’assolutezza del suo formalismo, sono chiamati in causa Freud e il meccanismo di rimozione, Gramsci e la critica all’ideologia, e la fenomenologia conosciuta tramite lo scritto del 1939 di Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di HusserI, l’intenzionalità. A questo orizzonte disciplinare va aggiunta una rinnovata attenzione a Bergson, aggiornata sull’interpretazione che Merleau-Ponty ne aveva offerto in Elogio della Filosofia, presentato in Italia nel 1958 da Enzo Paci, amico di Debenedetti e suo coadiutore nell’attività di responsabile editoriale per il Saggiatore. (9) I corsi svolti da Debenedetti all’Università di Roma dal 1958 al 1966, e dedicati in successione alla poesia e al romanzo del Novecento, sono la testimonianza più vivida della complessità di spunti e di riferimenti di cui si avvale ora il suo discorso critico, pur in subordine a una straordinaria capacità intuitiva nel far proprie e “disoccultare” le ragioni del testo interpretato; e in questi corsi ricompaiono similitudini e citazioni dalla storia dell’arte, a volte con un’incidenza rilevante nel definire tracciati di lettura e di analisi.

Su un piano superficiale, di immediata evidenza didattica, il ricorso all’analogon della pittura vale, per Debenedetti, a chiarire la ricerca di senso, a rafforzare l’impatto di certi luoghi chiave dell’opera letteraria in esame. II procedimento con cui Klee titola i suoi quadri è ricordato in rapporto ad Ungaretti; una comune predisposizione a « fissare situazioni drammatiche » è riconosciuta sia a Saba sia a Chagall, in modo da evidenziarne l’autonomia e attualità di percorso nei confronti, rispettiva-mente, dell’ermetismo e dell’astrattismo; il paesaggio evocato e non descritto nelle poesie di Luzi riceve consistenza plastica dal richiamo alle vedute che chiudono il piano di fondo della Gioconda o della Leggenda della Croce di Piero della Francesca, dove « troviamo raccolti gli elementi di paesaggi diversi a formare un unico paesaggio, che sia come l’idea del paesaggio ». (10) A volte, le immagini pittoriche sono suggerite da Debenedetti con una ricchezza di linguaggio e una pertinenza dell’aggettivazione che sembra sostituirsi alla proiezione delle diapositive, non contemplata, e che, infine, tradisce le sue modalità di guardare la pittura, come un trasporsi e immedesimarsi in essa: vale il caso del Mattia Pascal, la cui vicenda, segnata dalla metamorfica interscambiabilità fra morte e vita, è assimilata dal critico a « una specie di kermesse dipinta da Ensor, col repertorio figurativo straziato, allucinante e deformato di quel pittore ma senza la sinistra, sbigottita, catastrofica allusività che egli vi infondeva ». (11)

A un livello più sostanziale d’indagine, viene da chiedersi perché, dalla fine degli anni ’50, Debenedetti tenda a reperire parallelismi alle sue analisi letterarie nel repertorio delle arti figurative e non più nella musica, precedentemente più volte chiamata in causa, specie attraverso gli esempi di Verdi e di Wagner. Questa rinnovata propensione alla pittura è da mettersi in probabile relazione con la progressiva centralità che acquista ora, nel pensiero critico di Debenedetti, il concetto di “epifania”, desunto dal metodo narrativo di Joyce e che sembra porsi come categoria interpretativa atta a spiegare gran parte delle direzioni assunte dalla letteratura nel corso del Novecento. In Joyce, situazioni o oggetti di per sé insignificanti si epifanizzano, pervengono a un potere manifestante; attraverso la sola presentazione la cosa rivela la propria quidditas, qualità essenziale. Si tratta, in fondo, dello stesso procedimento dell’apparizione/rivelazione che Debenedetti aveva riscontrato trenta anni prima nelle opere di Casorati, e che ora è verificato in un quadro di riferimento filosofico, la nozione husserliana di epoché, il mettere tra parentesi o sospendere invalsi abiti mentali, l’ovvietà del senso comune, per riconoscere al fenomeno nel suo stato aurorale una propria intenzionalità, un proprio, specifico senso. Se, allora, la staticità è inerente alla condizione di epifania e di epoché dell’oggetto, e se, come scrive Debenedetti, il romanzo nuovo elimina quasi del tutto la vicenda, « perché il suo più tipico assunto è di immobilizzare le cose per spremerne la rivelazione », (12) ne consegue che è la pittura ad offrirne un corrispettivo sensibile e pregnante, per il suo ritagliare ed isolare porzioni spazio-temporali, percepite nella loro flagranza di apparizione. Insomma, dato che il linguaggio ed il metodo critico di Debenedetti si distinguono, a parere unanime dei commentatori, per ricchezza e suggestione metaforica, la pittura sembra prestare agli ultimi svolgimenti della sua ricerca alcune delle metafore più convincenti; anzi, a volte, al di là della sintonia o corrispondenza data dalle immagini, la pittura stessa, certe modalità del fare pittura si fanno metafora, acquistano emblematicità. Così avviene nel caso di un artista creato dalla fantasia di uno scrittore, il Frenhofer di Balzac: il quadro della Belle Noiseuse, luogo di proiezione e di manipolazione di irrisolte tensioni espressive, e dove, in un contesto caotico e magmatico, emerge, come solo dato riconoscibile, ma vivo e sensuale, il piede della modella, resta, grazie a Debenedetti, l’affascinante cifra plastica della poesia ermetica, il cui risalto viene dall’ « evidenza sensibile, percettibile delle singole notazioni a contrasto con l’oscurità e la non obbligatorietà del significato ». (13) Ancora più esemplare è il caso del pittore espressionista Franz Marc, citato per le sue tele a soggetto animalista a proposito di Bestie di Tozzi. Al naturalismo, alla rappresentazione cioè degli animali come elementi di un paesaggio consueto, perché registrato in maniera omogenea, ad un sistema di assodate aspettative ed abitudini percettive, Marc oppone – sono parole sue – l’ « animalizzazione », un intuire e figurare gli animali coerentemente alla loro specifica intenzionalità, a quella vitalità che li muove, istintuale ed oscura, comunque direzionata, soggetto, questo della più alta, forse, delle elegie di Rilke, l’ottava. Marc forza e nega le apparenze: da qui la sua polemica contro l’impressionismo, per rendere in maniera emblematica, attraverso il tema dell’animale, il senso autentico e recondito del fenomeno, il suo essere al di là dei nostri schemi. Se, tornando alla letteratura, il compito più evidente di essa, e dell’arte in genere, è per Debenedetti quello di « illuminare dei tipici tracciati del destino umano, di rivelarci per immagini sensibili, figure e vicende concrete, il senso della vita », (14) e se, nell’arte moderna, ciò avviene lasciando che oggetti e situazioni sprigionino il loro senso in virtù della sola presentazione o epifania, ecco che il fare pittorico di Marc si pone come una sintetica metafora delle tendenze del romanzo nel Novecento, sia per i presupposti che muovono il pittore, sia per la sua tematica, gli animali, che al meglio prestano immagine ai fenomeni colti nel loro stato precategoriale, e autonomamente intenzionato.

Quando, poi, Debenedetti procede ad analizzare più in dettaglio le nuove strutture del romanzo, scegliendo l’angolazione del personaggio e delle sue deformazioni, ad iniziare da quelle estetiche, nel constatare l’ « invasione dei brutti », ecco che la pittura espressionista, da Munch alla Kollwitz, gli offre un’altra, potente metafora, tanto che si sarebbe quasi tentati di supporre, in via del tutto ipotetica, una certa suggestione di immagini pittoriche nella sua adozione di una lettura che muova appunto dalla problematica dell’homo fictus, dall’evoluzione che l’idea e la rappresentazione del soggetto uomo hanno avuto nella coscienza moderna. Se, infatti, la finalità del romanzo è divenuta quella di “disoccultare” un “oltre”, per dirlo nei termini che Debenedetti media da Husserl, la pittura espressionista prefigura e condensa, nel breve spazio del ritratto, le indagini dei narratori, mostrando sulle facce gli effetti deformanti dovuti alla pressione angosciosa di un “ignoto”, di un “oltre”, che proprio nel romanzo verrà svolto e riconosciuto nelle sue matrici e consistenza psicoanalitiche e sociologiche, e che, in pittura, è dato solo come presenza visibile, minacciosa, comunque emblematica e precorritrice, nella misura in cui arriva a corrodere la stessa figuratività e a postularne l’abbandono. Lo stesso riferimento che Debenedetti conduce alla psicoanalisi e a Jung in particolare sembra nutrirsi di questa cultura di immagini, per il fatto di isolare come paradigmatico il discorso che Jung fa sulla maschera, sulla contraffazione automatica di determinati ruoli, richiestici sia dall’io privato sia dal pubblico, e che viene ad alterare i tratti fisionomici in una smorfia involontaria. La facoltà manifestante dell’arte, che porta a consapevolezza pulsioni rimosse, conflitti irrisolti, viene ancora esemplificata dal critico con una citazione tratta dalla storia della pittura, la scelta primitivista delle prime avanguardie, dove l’attenzione di Picasso all’arte negra è vista in termini estremamente attuali, non motivata da ricerche di ordine formale, ma dal riconoscimento che nei manufatti tribali sono espressi contenuti psichici primari e istintuali, repressi nel percorso storico dell’uomo occidentale e che l’arte nuova non può più ignorare. (15)

Grazie alla sua sensibilità e capacità intuitiva Debenedetti riesce, dunque, a derivare dal patrimonio delle arti figurative delle metafore/chiave per alcuni nessi delle sue analisi critiche; c’è però un caso in cui il parallelo con la letteratura ha inciso all’inverso, in maniera riduttiva, sul giudizio di valore che egli dà di un fatto pittorico, l’impressionismo. A Torino, negli anni ’20, sulla scia di Venturi, egli aveva riconosciuto nell’impressionismo uno « stadio di visione » contraddistinto dall’emergen-za della « pura pittura », di « valori figurativi che sono paghi di per se stessi »: una prima affermazione cioè dell’autonomia dei mezzi espressivi, poi determinante sui futuri svolgimenti dell’arte. (16) Nelle lezioni sul romanzo, a una distanza di più di trent’anni, Debenedetti sembra invece condividere le tesi di Franz Marc e di Hermann Bahr che, fautori di un’arte di espressione, negano all’impressionismo ogni consistenza rivoluzionaria: senza cesure o antinomie, esso costituisce la coerente prosecuzione del naturalismo rinascimentale, nel senso che propone una percezione e una rappresentazione strumentalmente aggiornata di « un mondo – scrive Debenedetti – oggettivamente vecchio », la natura, i fenomeni, bloccati nella loro apparenza esteriore, così come sono colti dalla retina, e resi muti, privati di ogni autonoma qualità manifestante. Per l’impressionismo vale, insomma, il tagliente commento di Cézanne riportato da Debenedetti: « Monet n’est qu’un oeil, mais quel oeil! », laddove si sottintende che questa registrazione e financo spoglia di quelle coloriture affettive, di quell’ade-sione emotiva, ancorché narcisistica, riscontrabili nell’impressionismo letterario. (17) La valutazione negativa di quest’ultimo, perché frammentario, discontinuo, descrittivo, finisce col coinvolgere il suo corrispettivo pittori-co: e le ragioni di tale ripulsa vanno forse attribuite alla progressiva centralità che il problema dell’espressione assume in questi anni nel pensiero di Debenedetti, anche per il sopravvenire di ulteriori conferme dalla fenomenologia e da una rilettura di Bergson nei termini proposti dal citato saggio di Merleau-Ponty. Scrive, infatti, Merleau-Ponty che il bergsonismo segna un reciso passaggio dalla filosofia dell’impressione a quella dell’espressione, dato che la durata interiore, tradita da un linguaggio che si limiti a rubricare l’aspetto superficiale delle cose, nella loro chiusa individuazione spazio-temporale, trova, invece, un equivalente in una forma che si dia in immediata continuità al flusso di coscienza. La profonda condivisione di quest’assunto implica di necessità, per Debene-detti, una divergenza di percorso rispetto a Venturi e un ordine di scelte che questi non avrebbe, forse, sostenuto: la pittura espressionista, dove le deformazioni manifestano, con evidenza talvolta lancinante, il senso interno all’oggetto percepito, e la scrittura automatica surrealista fino alla gestualità dell’Action Painting, al dripping di Pollock, che, in una delle lezioni sul romanzo, vengono assimilate al monologo interiore di Joyce per la struttura aperta, la contiguità di esistenza e forma. (18)


NOTE

1. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento (1971), Milano, Garzanti, 1987, pp. 504-505 e p. XIII.
2. Ibid., p. 464.
3. Ibid., p. 502.
4. G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti. 1974, pp. 78, 80, 235-236 e Il romanzo, cit., pp. 3-4.
5. G. Debenedetti, Probabile autobiografia di una generazione (1948), poi prefazione a Saggi Critici. Prima serie, 1949, ora in Opere. I, Milano, Il Saggiatore, 1969, pp. 17-25. Sempre in Opere, I, cit., pp. 251-275, è il saggio Il gusto dei Primitivi in Lionello Venturi, pubblicato per la prima volta ne “II Convegno”. 1927.
6. G. Debenedetti. Amedeo (1926), Milano, Scheiwiller, 1967, nota introduttiva, in cui si fa riferimento a Les données immediates de la conscience.
7. Francesco Alenzio, in cat. Exposition d’artistes italiens contemporains, Genève, Musée Rath, 1927, cat. della mostra Casorati, Avondo, Bionda, Bonfantini, Marchesini, Maugharn, Mori, Cefàly, Milano, Galleria del Milione, febbraio 1929.
8. G. Debenedetti, Casorati e la critica d’arte, conferenza tenuta a Firenze il 23-12-1932, poi ne “L’Italia letteraria”, 15-1-1933.
9. Su questi temi si veda A. Granese, La maschera e l’uomo, Saggio su G. Debenedetti e la cultura europea del ’900, Salerno, 1976.
10. G. Debenedetti, Poesia, cit., pp. 235-236, n. 7, 131, 110-111.
11. G. Debenedetti, ll romanzo cit., p. 372. Si veda anche la citazione dell’iconografia della donna fatale in Moreau e Rops in riferimento a Novale di Tozzi, ibid., p. 207.
12. Ibid., p. 304.
13. G. Debenedetti, Poesia, cit., pp. 54 e 31-32. Anche la non “riconoscibilità” del cubismo di Picasso offre per Debenedetti degli spunti utiti al chiarimento della poesia ermetica. Alle tesi di M. Jardot, che, nel presentarne l’opera grafica, sostiene che « non c’è nulla da capire, ma tutto da sentire », oppone che, in tale contesto di non equivalenza realistica dell’opera, « noi dobbiamo almeno capire a qual modo, e perché, 1″opera d’arte prodotta fuori dai domini della intellegibilità e della ragione, sia ancora per noi opera d’arte ». Ibid., p. 53.
14. G. Debenedetti, Il romanzo, cit., p. 469. Su Marc v. ibid., pp. 85-86. Il volume F. Marc, acquarelli e disegni, a cura di K. Lankheit edito da II Saggiatore, nel 1959, porta a p. 41, sotto il disegno Cane davanti al mondo, citato da Debenedetti, la seguente frase di Marc: « Quanto povero e convenzionale è il nostro modo di situare animali in un paesaggio che appartiene ai nostri occhi, invece di sprofondarci nell’animo dell’animale per indovinare il suo mondo di immagini ».
15. Su questi temi si veda G. Debenedetti, Il romanzo, cit., Quaderni del 1963-’64, passim.
16. Manoscritto di una conferenza su Armando Spadini, conservato nell’archivio Debenedetti. La conferenza fu letta in occasione della mostra dedicata al pittore a Torino dalla Società di Belle Arti Antonio Fontanesi nel 1928.
17. G. Debenedetti, Il romanzo, cit., pp. 80-87 e 458-459 (sull’impressionismo).
18. Ibid., p. 76.