Debenedetti e la musica

di Fedele D’Amico

Non ho potuto scrivere il testo quindi faccio appello alla vostra buona volontà.

L’amica signora Renata, che ho consultato in questa occasione, mi ha fatto conoscere un manoscritto di Debenedetti che dovrebbe essere il suo primo saggio in materia musicale: è uno scritto che si intitola Dante e la musica e risale al 1916. Debenedetti aveva dunque soltanto quindici anni e difatti questo scritto, piuttosto lungo, è opera chiaramente di compilazione, non contiene idee originali; è tuttavia estremamente informata, diligentis-sima e soprattutto appassionatissima. Si nota benissimo una grande tensione su questo argomento che potrà forse anche essere stato un compito di scuola, non so, ma che comunque ha il tono di una cosa che è stata scelta dall’autore stesso.

Certamente questo è anche un fatto un poco simbolico: fin da allora Debenedetti metteva in relazione la musica con qualche altra cosa. È vero che quest’altra cosa non era propriamente la poesia, perché è visto qui non tanto il poeta quanto il pensiero di Dante sulla musica; è anche vero che Dante era il rappresentante di una cultura per definizione interdisciplinare, che non concepiva separazioni tra una disciplina e l’altra, tuttavia è un fatto che già a quell’epoca Debenedetti comunque frequentava la musica, era famelico di musica. Questo peraltro lo so anche perché me lo ha detto più volte.

Quel che non sono mai riuscito ad appurare è se Debenedetti ebbe un’istruzione propriamente musicale dal punto di vista tecnico, gramma-ticale. Certamente dal modo in cui ne parlava e ne scriveva si desume che una qualche educazione in questo senso l’aveva: sapeva che cos’era un pentagramma. Ed effettivamente nella conversazione faceva riferimento ad alcune nozioni musicali che solo una certa alfabetizzazione permette.

E questo per un intellettuale in Italia era allora, ma anche purtroppo per la nostra epoca, una rarità. Comunque l’aspetto più significativo era che per Debenedetti l’approccio alla musica avveniva non per vie teoriche ma attraverso l’ascolto, come esperienza musicale.

Debenedetti ha frequentato moltissimo la musica a Torino, città che era allora la roccaforte wagneriana in Italia e il wagnerismo rappresentava la punta della musica vista come cultura, vista in modo elevato, elitario. Frequentò moltissimo il Teatro Regio di Torino e anche i concerti della Pro Cultura e di altre istituzioni torinesi. È anche interessante ricordare che al Teatro Regio di Torino Renata e Giacomino si conobbero: dodici anni lei e diciannove lui. Renata studiava pianoforte e si sarebbe poi diplomata. Per di più c’è un fatto quasi simbolico: la rappresentazione di quella sera era I maestri cantori e Renata aveva in mano lo spartito.

Giacomino frequentò molto anche il Teatro di Torino, una istituzione mecenatesca che Torino aveva adottato nel 1925 e che visse per cinque anni, pionieristica e importantissima nella vita musicale italiana. È di lì che è nato il Maggio Musicale Fiorentino e anche una visione più moderna del repertorio della vita musicale, la cura data alla messinscena e lo stesso gusto delle riesumazioni: ad esempio la scoperta di opere che oggi a noi sembra di aver sempre conosciuto, L’Italiana in Algeri di Rossini e poi La Cenerentola ma anche tante cose moderne di Ravel, Stravinsky. Quindi anche questo fu un suo campo di osservazione.

lo ritengo che l’epoca di Torino sia stata il fondamento e quasi il cento per cento dell’esperienza musicale di Debenedetti, qualcosa che si è radicata nella sua coscienza, nella sua mente.

Quando venne a stabilirsi a Roma, nel 1936, la sua frequentazione dei concerti e dell’Opera credo fosse molto minore di allora. Ebbi spesso l’impressione, parlando con lui, che vivesse, quanto a esperienze musicali, soprattutto di ricordi. Non voglio esagerare, non è che una ipotesi, ma c’è qualche conferma. Ricordo che una volta, sarà stato nel 1939 o 1940, lo trascinai all’Oberon di Weber che si dava negli studi della RAI, quindi in forma di concerto diretto da Vittorio Gui e rimase piuttosto freddo. Io fui molto dispiaciuto di questo fatto: l’Oberon è un capolavoro straordinario, ma lui trovò che non era abbastanza pre-wagneriano. Ebbi l’impressione di un uomo che maturasse con difficoltà nel campo musicale quelle esperienze che non avesse maturato a suo tempo. Sta di fatto che nel campo della cultura musicale era tuttavia apertissimo a tante cose.

Ricordo che quando era direttore letterario del Saggiatore e aveva la responsabilità della sezione della cultura, io lessi e gli feci leggere un libro che lo interessò enormemente un libro di estetica musicale; si progettò di farlo pubblicare dal Saggiatore anche se purtroppo la cosa non andò in porto.

L’altro punto che va notato è in che modo egli viveva la musica, che cosa sentisse, che cosa lo interessasse della musica e perché.

Bisogna pensare che la musica per molti intellettuali – scrittori, pittori ecc. – è una specie di bella vacanza, di parentesi, nella vita che è dominata da altri impegni, altri lavori. Non era così certamente per lui, data la sua mentalità che vedeva la cultura come un fatto globale a cui tutto poteva e doveva collaborare.

Non è un caso che Debenedetti si laureasse in Lettere con una tesi su D’Annunzio, in Giurisprudenza con una tesi su Romagnosi, autore che evidentemente con D’Annunzio non ha nulla a che fare; non solo, ma che per tre anni frequentasse la facoltà di Ingegneria. Era assai colto nelle matematiche e nelle scienze fisiche e tutto questo si vede benissimo nei suoi scritti. Si vede benissimo che quello che dice anche di un romanzo non è semplicemente letteratura. Uomo estremamente sensibile ai fatti stilistici, tuttavia quando fa un’osservazione stilistica è sempre per intendere che cosa può significare quello stile piuttosto che un altro, che cosa c’è dietro; qual è l’uomo che c’è dietro. Quindi la musica è per lui qualcosa che entra in gioco con altre cose: la realtà non conosce tautologie e la musica non è qualcosa di ornamentale o di ripetitivo ma una cosa autonoma, che è solo se stessa e che pertanto va indagata come tale. È però un aspetto dello spirito umano che si può mettere a confronto per spiegare altre cose. Questa è la ragione per cui nei suoi scritti ricorrono continuamente fatti musicali, vale a dire fatti musicali nella loro specificità.

Debenedetti fa cadere. nel discorso una determinata musica, non un’altra né un’idea astratta della musica come poteva essere quella appunto che viene fuori dal giovanile scritto Dante e la musica.

Per esempio si sente anche dire che la melodia del Petrarca è soave, è dolce, che la melodia dei sonetti di Michelangelo è aspra, ma queste sono tutte metafore, tutti traslati; in realtà quella di Petrarca non è musica, non è melodia e così non lo è quella di Michelangelo. Per fare la musica, per fare la melodia, il ritmo non basta e tanto meno il suono, cioè il colore, il timbro, il colore del suono – quello che i tedeschi chiamano Klangfarbe. Perché non è questo? Perché sia il ritmo e tanto più il suono si rivelano nel mondo esterno, non sono solo attributi della musica. Il ritmo è nella natura e tanto più il suono è non solo nella natura ma anche nella vita, nel mondo esterno. Ciò che è specifico della musica, ciò che le fa fare un salto di qualità, non sono i suoni – non c’è nulla di più sbagliato che chiamare la musica arte dei suoni – ma le relazioni, certe determinate relazioni che passano tra suono e suono e sono determinate da rapporti semplici di frequenza del suono, di attacchi, vibrazioni al minuto secondo, e questi suoni si chiamano note. Una volta che noi cogliamo queste relazioni, ossia cogliamo i suoni come note, noi usciamo dal mondo esterno completamente. Facciamo un’altra esperienza che si trova in un’altra zona, cioè un’esperienza affettiva, una dialettica del nostro tempo interiore, della nostra affettività, che tuttavia è sganciata dal resto. Ora è precisamente questa musica che interessa Debenedetti. È chiaro che nei suoi scritti, anche nell’altro senso, ossia nel senso metaforico, le parole musica e musicalità ricorrono spessissimo ma ricorrono sempre in un modo molto raffinato, molto appropriato, nel modo che serve a chiarire e che diventa fatto stilistico: un fatto espressivo, di riuscire a dir tutto. Ma la cosa che lo interessa, la presenza della musica nella critica letteraria entra in quanto tale. Allora noi vediamo che leggendo i suoi saggi molto spesso la musica diventa descrizione di una certa musica, di un certo stile: certi fatti formali di un determinato musicista o la Weltanschauung di una certa musica gli servono per chiarire dei fatti letterari, per chiarire la poesia, ma al tempo stesso lo portano a indagare sul fatto musicale stesso. Gli scritti di Debenedetti sono disseminati di veri e propri saggi su certi autori, su certi punti della musica, che quindi si possono leggere anche indipendentemente dal resto e che sono in alcuni casi dei reali contributi – ha delle intuizioni, delle trovate che servono a tutti, che possono essere utilizzate proprio nel campo della storiografia musicale – e altri che magari non sono estremamente originali ma che riassumono una situazione di quello che la musicologia, gli studi musicali hanno elaborato, e li riassume con una raffinatezza e una eloquenza straordinarie, tali oltretutto da far vedere il pieno possesso di una esperienza vissuta in questo campo.

Questo è molto interessante e molto raro tra gli scrittori, soprattutto tra gli scrittori italiani.

Cerchiamo di capire questo punto che secondo me è fondamentale e cominciamo col fare un esempio particolarmente utile, quello di Saba.

Saba è probabilmente l’autore di cui Debenedetti si è occupato di più fin da giovane; se ne è occupato con un piglio estremo. Nella Prefazione ai suoi primi saggi critici, quelli del ’29, si parla di questo desiderio, di questa febbre di voler dire tutto su Saba, di voler andare fino in fondo. Questo fatto lo porta a molte cose interessanti da più punti di vista: è evocata la musica e le idee vengono fuori da più punti di vista.

Leggiamo questo passo: « [...] gli stessi sentimenti del poeta si raffigurano come esseri tangibili, come gesti, come movimenti, come voci: insomma prendono attributi da personaggi, da dramatis personae ».(1) È sintomatica questa affermazione che si trova nel volume postumo delle lezioni universitarie sulla poesia del Novecento: perché questo accento messo sul fatto che i sentimenti di un poeta si raffigurano come gesti, come movimenti, atti che suppongono dei personaggi nasce dal contrasto con gli altri poeti di cui si tratta. Gli altri poeti del Novecento di cui Debenedetti tratta sono, ad eccezione di Noventa, poeti ermetici per i quali questo fatto assolutamente non esiste. Quello che vien fuori dalla poesia ermetica, dalla poesia di Ungaretti, di Montale, di Luzi ecc., non sono assolutamente sentimenti attribuiti a personaggi che hanno un’anagrafe.

Ora: quello che interessa qui è che Debenedetti per chiarire questo fatto, questa affermazione, chiama in causa il melodramma intendendo di fatto l’opera italiana dell’Ottocento:

Ma il paragone col melodramma – dichiara Debenedetti – è persuasivo in quanto questa forma ci offre personaggi caratterizzati, che da situazioni personali, quelle che sono esposte e dialogate nei recitativi, salgono ai momenti assoluti dell’aria, della melodia che trasforma quella situazione personale in un toccante, memorabile proverbio del cuore appartenente a tutti, che tutti possono riprendere, ripetere, ricantarsi come se fosse nato per esprimere ciascuno di loro. Ma soprattutto l’accostamento col melodramma riesce illuminante per la poesia di Saba, in quanto il melodramma usa un mezzo artistico, la musica, come strumento per fissare certe situazioni drammatiche, non come fine a se stesso. E questo però non toglie che quella musica adoperata come strumento, valga poi anche per se stessa, proprio come musica. (2)

Questo passo va un poco analizzato.

Prima di tutto dobbiamo ricordare che questo fatto che i sentimenti di un personaggio si fissino in una melodia è un fatto ottocentesco dell’opera italiana. Non era così nel Settecento, se non nell’opera buffa. L’opera seria nel Settecento era una composizione nella quale quello che poteva caratterizzare i personaggi, comunque l’azione, era affidato totalmente al recitativo semplice, cioè a qualcosa che valeva per le parole, per il testo, per quello che veniva detto e che era tradotto in formule musicali molto convenzionali che potevano animarsi solamente in seguito alla recitazione, a una particolare recitazione dell’attore, del cantante, ma di per sé non avevano un valore musicale: quindi la musica non si impegnava affatto a dipingere un’azione drammatica.

C’erano poi le arie. Ma le arie erano un momento riassuntivo; non miravano affatto a esprimere un personaggio o un’azione; erano puri fatti lirici, che esprimevano quello che allora si chiamava un affetto, ma un affetto preso nella sua astrazione platonica, non legato a un determinato personaggio tanto è vero che era comune uso prendere l’aria di un’opera e trasportarla in un’altra: andavano tutte bene così come avviene con le scene in dotazione di certi teatri che rappresentano un cortile, un giardino, un palazzo. Questo è un fatto settecentesco. Debenedetti quindi intende dichiarare questo fatto che invece nell’opera dell’Ottocento non c’era.

Questa dichiarazione sull’opera dell’Ottocento può sembrare ovvia perché la natura dell’opera sta nel fatto che a un dato momento tutto si blocca, tutti si concentra in un’aria, in una melodia. Ebbene: questo è ovvio e chiaro a tutti quando ne parliamo, ma non sembra che sia ovvio per la normale storiografia musicale, la quale non fa altro che sospirare durante tutto l’Ottocento che ci si svincoli dalle arie e dalle forme chiuse, per arrivare a un declamato sempre più articolato, sempre più libero. Tutti i biografi di Verdi si esaltano moltissimo a vedere che Verdi a un certo punto non fa più le cabalette; a un certo punto la melodia si spezza e va avanti. Naturalmente questo è vero fino a un certo punto perché anche in questo processo di liberazione formale, Verdi serba sempre non solo il pezzo chiuso ma anche in seno al declamato crea delle sezioni che hanno la stessa funzione dell’aria; però sta di fatto che tutti sospirano questa liberazione e non capiscono che e la fine dell’opera, perché l’opera è precisamente quello che racconta Debenedetti: il giorno che noi usciamo da questo facciamo un’altra cosa. Ciò che è emozionante dell’opera è proprio quanto Debenedetti ha visto, cioè che la musica è usata come uno strumento per fissare delle situazioni drammatiche, non come fine a se stessa, ma al tempo stesso niente impedisce che questa musica, adoperata a questo fine come strumento, valga soltanto per se stessa, proprio come musica. Alla fine, in un certo senso, essa ritorna ad essere quella che era nel Settecento, ad avere la sua validità come musica, però in un altro modo, e diventa un proverbio. E qual è il fatto emozionante di tutto questo?

Il fatto emozionante è che noi abbiamo fissato nella memoria, come in un’immagine riassuntiva, direi quasi spaziale, qualcosa che per sua natura non è affatto spaziale ma è temporale, si svolge.

Prendiamo una melodia qualsiasi di Verdi: questa melodia si svolge; mentre nella nostra mente non si svolge più, è fissa; entra in noi questo fatto mobile che sta al di sopra de le parole ma le riassume; tutta l’emozione dell’opera sta lì; tanto è vero che noi diciamo opera lirica, perché è molto lirico che fissando il dramma essa lo rapprende e ci consegna alla memoria questo momento eccellente. Ma ciò naturalmente serve anche a capire Saba.

Perché? Perché Debenedetti vede nella poesia un dualismo tra quella che lui chiama legittimamente musica, vale a dire il verso e la musicalità del verso, di fronte a un linguaggio che invece di per sé sarebbe molto dimesso, molto prosastico, molto quotidiano. Debenedetti dice a un certo punto: « sono parole senza storia », intendendo dire senza dignità letteraria. Vale a dire: in Saba c’è un linguaggio poetico che usa una sorta di costrizione del linguaggio verbale, tanto è vero che ci sono delle locuzioni che sono letterarie, che sono illustri e queste locuzioni si dialettizzano, si nobilitano in qualche modo in questo tessuto: è lo stesso rapporto che c’è tra la musica di un’opera e il suo libretto. Questo avviene in Saba scrittore.

Nel melodramma – osserva Debenedetti – i personaggi, il coro, hanno trasformato la situazione individuale in una musica del dolore di vivere, valida per tutti gli uomini. Ecco perché la comunicazione di Saba ha sentito il bisogno di aggiungersi il rituale, il cerimoniale della poesia. Quindi c’è il suono della poesia, la musica della poesia che dialettizza con questo fatto. E può avvenire che questa costrizione che la musica del verso esercita sulle parole, sull’impianto verbale, faccia pensare all’opera del Settecento: prima scrivere la musica, poi le parole.

Debenedetti ritiene che in Saba avvenga spesso qualcosa del genere. Ma perché avviene?

Finora abbiamo citato dalle lezioni universitarie. Ma già nei primi saggi critici del ’29, dove questo concetto non si è ancora rivelato, tuttavia si legge che nei limiti in cui Saba ha accolto le musiche degli altri poeti, aspira a ritrovare il suono di quelle profondità.

Quindi qual è il tipo di traduzione a cui Saba si accosta, a cui crede letterariamente? Lui vuole riecheggiare il verso, la musica dei grandi poeti, non i loro contenuti. I loro contenuti sono messi lì dentro, come un libretto alla poesia.

In Saba [...] la parola è sempre quella domestica, la prima venuta: parole senza storia. Questo color cotidiano delle sue parole certo non basta ad appagare il poeta che cerca nell’arte sua l’eletto suggello di un sentimento tremante, delicato e schivo: per giungere a tanto le parole sposano la musica del verso.

E ancora:

Saba non è un pittore, è un musico del sentimento. (3)

E infine quando parla del Canto a tre voci dice che la sua risoluzione in musica, cioè il verso, diventa figurazione dell’invisibile, vale a dire la musica del verso porta dentro questa poesia l’invisibile.

Si pensa istintivamente alla siepe del Leopardi, l’invisibile delle morte stagioni « e la presente e viva, e il suon di lei ». Il poeta vede l’invisibile attraverso il suo suono, attraverso la sua musica. D’altra parte accade anche che questa costrizione della musica sul linguaggio abbia i suoi inconvenienti. Debenedetti nota delle sfasature, delle licenze poetiche forzate che portano a un linguaggio contorto perché si adegui alla rima e a delle necessità di questo genere. Come la scienza ha scoperto l’anatomia e la fisiologia umana attraverso le malattie – ogni volta che c’è una disfunzione si capisce che cosa combina un certo organo – è così che si capisce questa interna dialettica. Non solo: ma questa musica può esprimere anche una certa delusione in generale.

Per le Canzonette di Saba, Debenedetti scrive:

Sogni e scherzi; amarezze e tristezze; aspirazioni e figure sono travolti nell’incalzante tripudio dei suoni; con in fondo un poco di accoramento, come di chi pensi che in fondo le musiche son pur solo musiche e la loro malia nasce, forse, dall’irrevocabile dissolvimento in cui si sperdono non appena ne fummo accarezzati. (4)

Quindi vuol dire che in questa dialettica c’è anche un tratto moderno di accoramento e di scontento: non è una poesia antica.

L’aspirazione di Saba che altrove consiste per Debenedetti nell’entrare dentro la musica del verso fino a impossessarsene completamente, di solito è contrassegnata da questo dissidio. Ed è in questo senso che anche Saba è un poeta moderno come quegli altri, come gli ermetici che sulla carta sembrano così distanti da lui.

Vediamo qualche altro esempio di che cosa succede a questo desiderio di rievocare la musica per spiegare un’altra cosa.

Per esempio in Verga ci sono due cose preziosissime: una è il confronto del personaggio collettivo di Verga con quello di un’opera molto speciale, cioè l’opera di Musorgskij. Nel Boris di Musorgskij – l’opera a cui pensa Debenedetti – succede qualcosa di simile: il Verga dei capolavori raggiunge per conto suo una parte della grande narrativa europea, quella che mette in scena un personaggio nuovo, il personaggio che possiamo chiamare collettivo e che non è più il massiccio, globale addizionarsi delle voci in una sola frase dove ciascuna si perde nel “tutti”, ma porta la sua parola e la sua siIlaba uguale a quella degli altri come una nota nella verticalità e funzione dell’armonia, sicché il coro è un « camminare di accordi ». Già qui Debenedetti parla musicalmente per significar questo. Ormai invece, proprio perché la plebe è diventata popolo, il popolo non è un confondersi di esseri indifferenziati ma un concretarsi di individui, proprio per questo il coro nuovo è un distaccarsi di pensieri singoli su un fondo comune. In musica questo si vede nel dramma di Musorgskij dove, mentre la massa pronuncia il suo stato d’animo collettivo, le singole voci si incidono con la loro banale, profonda o dolorosa nota personale. Nei grandi romanzi di Verga il coro sta a questi interventi generici dei personaggi collettivi dei primi romanzi come una delle cosiddette scene corali del Boris sta ai cori degli armati del Trovatore o ai concertati della Traviata, vale a dire dal primo Verga al secondo c’è questo passaggio, come passare dalla Traviata, dove il coro è un fatto omogeneo al Boris dove invece non lo è. E su questo lui fa un’osservazione che riguarda invece precisamente la musica del Boris, molto notevole: l’uso di canti popolari in Musorgskij esiste ma è relativamente raro, in generale però c’è lo stile del canto popolare, c’è un’armonia tutta concepita in funzione di quello stile, e quindi ne deriva un linguaggio musicale diversissimo da quello della tradizione europea.

Debenedetti dice che in Boris si scopre un mondo sconosciuto che tuttavia noi riconosciamo come un fatto che c’è sempre stato: lui può ritrarre un certo mondo che la musica non ha mai ritratto ma che noi riconosciamo immediatamente come se fosse una pittura. Debenedetti scrive:

E, nella forma, c’è l’assimilazione del melos popolare, delle sue canzoni: che rimangono se stesse, eppure diventano vocaboli e modi sintattici di un linguaggio sgorgato attimo per attimo dall’urto, dal confronto di quella vita popolare con quella determinata situazione della vita. Il melos collettivo, il folklore – diciamo, per accostarci al caso nostro, il proverbio in musica – è come se nascesse in quel momento, dal riprodursi dell’emozione o della constatazione che l’aveva coagulato nel tempo dei tempi; e a noi non importa, cioè non ci accorgiamo se quel canto ci sia veramente nel repertorio popolare: siamo sicuri che somiglia all’intimo movimento di quel popolo. (5)

Se noi nel Boris ritroviamo spiccicato, nota per nota, un tema popolare, quello non è una citazione, mentre lo stesso tema è citazione in Beethoven: si sente questo temine messo lì, ma non evoca nulla, è un fatto di colore. Invece nel Boris non è più un fatto di colore.

Altri casi. Pascoli ad esempio.

Per spiegare l’impressionismo di Pascoli, Debenedetti ricorre a Debussy, ma lo fa citando Romain Rolland: « Invece di amalgamare i timbri per ottenere effetti di massa, Debussy libera l’una dall’altra le loro personalità o le sposa delicatamente senza alterarne la natura » .

Debenedetti esamina rapidamente come questo accada in Pascoli: « Non fa così anche il Pascoli col suono, il colore e perfino il significato d’immagine delle parole? ». (6)

Qui Debenedetti non cita Wagner in quanto compositore ma per il grande saggio L’arte di dirigere l’orchestra, vale a dire per quello che Wagner dice sull’interpretazione: « Wagner dà una grande regola: trovate nei passaggi musicali il movimento giusto, cioè il giusto stacco dei tempi, più o meno lento e veloce, e avrete il giusto melos, la giusta espressione » . E subito dopo aggiunge: « Ma è una regola enunciata con la spavalderia del genio: perché si completa con quest’altra: per trovare il giusto movimento, bisogna avere esattamente capito il melos, cioè il canto, e l’espressione ».

E ancora: « Ho citato però questa massima di Wagner sull’interpretazione perché proprio qui, con la sua acuminatissima sensibilità al movimento ritmico e alle differenze metriche il Pascoli modifica all’interno di ciascuna quartina proprio il melos, il colore e il senso del canto, cioè l’espressione ». (7)

Altra cosa importante, altro fatto molto grosso è quando Debenedetti osserva che l’Italia non è il paese della cicogna: in Italia non esiste una cultura dell’inconscio e tuttavia per Verdi si pone il problema: c’è in Verdi un fatto misterioso. Il problema che si pone Debenedetti è quello di vedere in che cosa consista, da che cosa venga questo mistero, che non è tuttavia quello dell’inconscio. Per poter fare questo Debenedetti si diffonde per molte pagine sul richiamo del sotterraneo, dell’oscuro, dell’inconscio che è in Wagner e che invece non è in Verdi, dove c’è un tipo di concretezza che è completamente diverso, estraneo a tutto ciò.

Questo è un altro punto in cui si vede chiaramente come le cose che vengono collegate siano le stesse, per cui quello a cui si mira sono i diversi tipi di civiltà, ma senza semplificazioni.

Debenedetti ha detto certamente cose fondamentali, essenzialissime su Verdi, che rimangono nella critica verdiana. Ma vorrei citare anche un altro punto molto importante; è nel saggio su De Sanctis, quando dice che

a conti fatti, il genio e lo spirito della seconda metà del secolo scorso, in Italia, rimangono affidati a due monumentali solitari: i melodrammi di Giuseppe Verdi, quelli più traboccanti del decennio sul Sessanta, e la Storia della letteratura italiana. (8)

Assimilare De Sanctis a Verdi, un critico a un compositore è allora un fatto assolutamente inedito:

Verdi – scrive Debenedetti – è uno che ha bisogno di molto peccare nello strato dei corpi opachi, truccati, variopinti e fallaci [...] per poter salire alla sostanza intelligente e translucida. Lui sì che. veramente, positivo e concreto com’era, indovina la vita facendo il gioco delle carte: e come in un mazzo di carte, i grandi tipi umani, le eterne « posizioni » della sorte, le perenni immagini del destino gli si annunciavano sotto l’araldica massiccia dei segni e dei colori, dietro l’ammiccare complice e bislacco delle figure vestite di rosso, di verde, di oro. Ma quando, fulmineamente, Verdi ha attraversato le maschere e scoperto l’uomo, allora tu li vedi, quei ritratti in musica, quelle vicende raccontate per cantilene, accenti della frase e melodie. E se vuoi dire a te stesso perché quelle musiche ti abbiano persuaso così nel profondo, ti accorgi che la parola « bella » non ti serve più e devi adoperare la parola che vale anche per i ragionamenti giusti. Devi dire che sono vere. (9)


Nota. Il testo, non rivisto dall’autore, è la trascrizione della sua relazione, senza tagli o modifiche. Purtroppo la parte conclusiva non è stata registrata; tuttavia si è ritenuto opportuno pubblicare ugualmente il contributo del compianto critico musicale, proprio in quanto costituisce una tessera importante e nuova della bibliografia debenedettiana.


NOTE

1. G. Debenedetti, Saba, in Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 130.
2. Ibid., pp. 130-131.
3. G. Debenedetti, La poesia di Saba, in Saggi critici, Prima serie. I ed. “Solaria” 1929, ora: Venezia, Marsilio, 1989, p. 104.
4. Ibid., p. 99.
5. G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Milano, Garzanti 1976, p. 412.
6. G. Debenedetti, Pascoli. La rivoluzione inconsapevole, Milano, Garzanti 1979, p. 159.
7. Ibid., p. 188.
8. G. Debenedetti, Commemorazione del De Sanctis, in Saggi critici, Seconda serie, I ed. O.E.T. 1945, ora: Venezia, Marsilio, 1990, p. 6.
9. G. Debenedetti, Personaggi e destino, a c. di F. Brioschi, Milano, Il Saggiatore Studio, 1977, p. 116.