di Mario Petrucciani
I casi più pertinenti di possibili fruizioni scientifiche restano quelli di Debenedetti, Calvino, Primo Levi, anche a causa, se è lecito dirlo, di quanto esorbita dalla loro opera per porsi come prototipo problematico.
Curando di non smentire troppo i dati diacronici, nel pensiero di Debenedetti sul rapporto scienza-letteratura potremmo distinguere tre momenti.
II primo, confermato ancora negli anni dell’immediato dopoguerra, (1) non è soltanto quello generico dell’assunzione della psicoanalisi come una delle chiavi necessarie per intendere più strettamente la genesi della letteratura moderna tra il XIX e il XX secolo e per spingere più a fondo da inedite angolature l’interpretazione dei testi: in questa direzione la cultura critica occidentale era già in cammino, anche se Debenedetti resta tra noi un pioniere. È piuttosto il momento in cui lo studioso piemontese utilizza specificamente una linea di forza del sistema freudiano – il conflitto con il padre – per spiegare la nascita del romanzo moderno come “salto” storico-epistemologico rispetto alla stagione del naturalismo: “salto” provocato dalla « perdita del padre ». (2) La medesima diagnosi sarà poi estesa a far luce sulla commutazione storico-formale, tra i due secoli, dell’idea di poesia. (3)
Comincia da qui a prender corpo quel dramma o meglio metadramma emblematico di cadute, di gesti insensati e lucidissimi, di situazioni al limite, di grida soffocate e di sterminati silenzi, a tratti fulmineamente sciabolato dai lampi dell’utopia, che è probabilmente il capolavoro del Debenedetti: quello che egli, adottando la terminologia di Forster, vedeva come unità inestricabilmente composita di homo sapiens, nato di donna, e homo fictus, l’uomo nato dalle innumerevoli parole della letteratura; insomma quel “personaggio-uomo” che egli ha inseguito passo passo dal mito di Sisifo alle sgomentanti traiettorie della letteratura dell’assurdo, per i melmosi cunicoli del labirinto della coscienza, lungo le cieche strade dell’inferno del secolo: di una “società senza padri”. Si sa come Debenedetti abbia poi identificato in Joyce, Proust, Pirandello, Kafka i quattro cavalieri di questo sovvertimento di stato. Contemporaneamente vengono lumeggiate le connessioni di opere e teorie degli esistenzialisti con temi freudiani: (4) temi che si riconducono ancora alla « perdita del padre » equivalente a « perdita dei modelli », dato che il padre è appunto il depositario dei modelli. Ma il figlio abbandonato ha tratto proprio dal suo viatico di dolore il coraggio ultimo della rivincita, quasi di una disperata ritorsione: (5) in termini geometrici:
[...] è che lui, arrivato sugli orli donde si apre quell’altro spazio, quello spazio non più euclideo, ha guardato senza accusare le vertigini, e non ha più chiesto riferimenti alle forme, figure e solidi della buona, inservibile geometria che misurava la Terra. (6)
Nel secondo momento, come il terzo maggiormente immerso in tinte fenomenologiche, Debenedetti persino mettendo talvolta la sordina al suo freudismo o apportandovi storicistici correttivi, avverte sempre più incalzante l’esigenza di ampliare la ricerca, smantellare cartelli e stanghe di confine. Potremmo far rientrare in questa fase da una parte le polemiche frecciate contro certe inadeguatezze del metodo sociologico nella critica letteraria, dall’altra i riferimenti alla pittura contemporanea – Picasso per Tozzi -, o la civetteria di leggere L’isola di Arturo attraverso la musica del terzo atto di Lohengrin, (7) o magari, per Saba, il richiamo alla doppia equazione – che per la verità ci lascia alquanto perplessi – di Barthes, (8) secondo il quale:
Se chiamo prosa un discorso ridotto al minimo dei segni, il più economico veicolo del pensiero, e se indico con a, b, c certi particolari attributi del linguaggio, inutili ma decorativi, quali il metro, la rima o il rituale (che però qui io preferirei chiamare il cerimoniale) delle immagini, tutta la superficie delle parole si stabilirà sotto questa doppia equazione: Poesia = Prosa + a + b + c
Prosa = Poesia – a – b – c
Ma non è qui il punto: piuttosto va cercato in quell’ora topica della cultura italiana alla fine della guerra che fu contraddistinta dalla famigerata parola d’ordine « superare il Croce! » e di cui Debenedetti discorre in Probabile autobiografia di una generazione, del 1949, (9) per confessare: « Noi controlliamo oggi un errore di omissione. Nei vari tentativi di superare l’Estetica del Croce, avevamo rigorosamente trascurato le indicazioni delle scienze cosiddette positive ». (10)
Si ripropone il confronto letteratura-scienza e nel finale del saggio Debenedetti ripete la battuta con cui, dopo uno scambio di conclusioni col fisico Bohr, lo psicologo Jung esclamò (e non era tipo proclive alle esclamazioni): « Siamo come le due squadre di operai del tunnel. Già si sentono i colpi di piccone da una parte e dall’altra » . (11)
Anche Debenedetti portò nel tunnel il contributo del suo carico di mine. Una delle più grosse, anche se il marchio di fabbrica non ne garantisce l’esclusiva assoluta, è l’equazione storico-epistemologica, traducibile per omologie nei termini dello strutturalismo genetico, con cui sconfessando la poetica naturalista si annuncia la nascita della narrativa moderna e contemporanea. Adattando sintagmi debenedettiani, essa potrebbe enunciarsi nel modo seguente: a) come, fino all’affermarsi della teoria di Einstein, tutta la fisica si fondava sulla interpretazione meccanicistica dei fenomeni naturali e cercava di ogni effetto la causa unica e misurabile, supponendo per ogni fenomeno una forza specifica di cui possiamo formulare la legge, mentre oggi la fisica pensa che i fenomeni siano una serie di eventi nei quali si manifesta una energia e, identificando energia e materia, ha rinunciato all’idea di legge per sostituirla con quella della cosiddetta onda di probabilità; b) così il romanziere tradizionale credeva all’idea classica, meccanicistica di forza e quindi nella legge che presiede al prodursi di ogni evento particolare, per cui il romanzo naturalista è fondato sulla chiara e rigorosa concatenazione di cause ed effetti, mentre nel romanziere di oggi vige l’idea dell’onda di probabilità, la quale permette soltanto di constatare dei comportamenti di corpuscoli (cioè di personaggi) che vengono a contatto perché esiste statisticamente la probabilità che tale contatto si verifichi. (12 )
È sviluppando questo enunciato che Debenedetti ha esperito il terzo momento – il più originale, il più arrischiato – della sua ricerca. Nel 1965 troviamo un asserto deciso:
In breve, la nostra tesi è che oggi la narrativa e la scienza sembranti trasmettere, con due codici diversi, lo stesso tipo di informazioni su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del mondo. (13)
Quello che ormai attira irresistibilmente il nostro critico, (14) e forse lo abbacina, è lo stupefacente miraggio di una “nuova simbiosi”, (15) la istituzione di una serie di convergenze e coincidenze che si ponga come statuto di una equivalenza globale. Basti ricordarne le dichiarazioni più lampanti: (16)
[...] l’insospettato parallelismo tra il campo di esplorazione della narrativa e il viaggio della fisica verso il mondo delle particelle.[...] il contegno del fisico di fronte alle particelle [...] divenne il modello sconosciuto e operante del romanziere nei riguardi dei suoi personaggi.
[…] noi ora assistiamo alla metamorfosi del personaggio-uomo nel personaggio-particella. (17)
Su questa equivalenza globale Debenedetti ha fondato la sua teoria del romanzo e, sia pure come abbozzo, la descrizione antropologica del nuovo personaggio, o meglio dell’anti-personaggio. È una interminabile moltitudine di inetti, disadattati, fuorviati, stralunati, provocatori, imputati che non hanno mai ricevuto neppure l’avviso di reato, condannati senza la benché minima parvenza di processo, ora monomaniaci sedentari in attesa, ora vagabondi, eccentrici, arrabbiati. Il loro destino (la voce ha un alto tasso di occorrenza nella prosa debenedettiana) si vanifica in una esistenza depauperata, degradata, amputata, marcata di orrida solitudine: un isolamento glaciale, rotto d’improvviso dai frammenti di « dialoghi falotici, da “manuale di conversazione” ». (18) Quindi, nei rapporti con il mondo, e con gli oggetti: in comunicabilità, ossia impotenza a trasmettere e ricevere informazioni, incapacità di presa sulle cose, coscienza della paralisi, estraneità, inautenticità, insignificanza.
Connotati già noti: qui il critico svolge prevalentemente un lavoro di rilevazione, con qualche aggiustamento e aggiunta: la sua vera, puntigliosa fatica consiste nel decifrare quei connotati secondo principi di scienza, soprattutto di fisica delle particelle. Prolungando la traccia di Adorno che aveva fregiato Proust e Joyce delle dovute benemerenze di capostipiti narrativi della « dissoluzione della coscienza in elementi disparati », di antesignani della « non-identità » intesa quale « dissoluzione storica dell’unità del soggetto », Debenedetti non ha paura di servirsi del ciclotrone per interpretare i loro romanzi come « un susseguirsi ininterrotto di esplosioni ». Gli è pertanto agevole condensare la loro poetica – le intermittenze del cuore, la memoria involontaria della Recherche, le epifanie dell’Ulisse nella metafora dell’ « esplodere verso » con cui Sartre ha tradotto l’idea husserliana dell’intenzionalità: quel Sartre medesimo che nell’analisi dell’ anti-romanzo della Sarraute anziché alla microfisica era ricorso alla microbiologia. (19) Alla microfisica si riconnette il Piovene delle Furie. (20) (Sembra un po’ curioso che Il romanzo del Novecento, che si apre nel nome di Einstein, insieme con quelli di Planck e Freud, quasi ignori Buzzati: eppure, ne I sette messaggeri è stato uno dei primi scrittori italiani ad usare l’interazione strutturale – fisica, e quindi narrativa – movimento-tempo-spazio).
Ancora un passo avanti, e l’avventuroso critico interverrà su Kafka con la fisica dei quanti e vorrà estrapolare dalle supreme leggi naturali quella di conservazione e dal mondo delle particelle il principio di proibizione per dimostrare come ne abbiano beneficiato il teatro e il romanzo dell’assurdo e Ionesco e Beckett.
Un passo ancora, verso il punto più luminoso del miraggio: verso quel principio di indeterminazione che nella fisica moderna ha sconfitto la vecchia legge di causalità, equivalente nel romanzo naturalista al meccanico ingranaggio causa-effetto, conquistando alla dinamica delle particelle gli interminati spazi dell’ipotesi, la riserva inesauribile delle possibilità: è
il famoso principio di indeterminazione, scoperto da Heisenberg: h, la costante di Planck, onnipresente e onniresponsabile, è il prodotto di due coefficienti di incertezza: sulla posizione della particella e sulla sua velocità. (21)
L’estremo sforzo di Debenedetti è stato quello di far coincidere il destino del personaggio-uomo con la sorte del personaggio-particella. Gli esempi sui quali ha puntato quasi tutte le sue carte sono due: Moravia, che in un dialogo tra Dino e Cecilia nella Noia ha optato per il principio della probabilità statistica facendo centro su « una delle innumerevoli conflagrazioni di atomi che possono prodursi »; Pasternak che nel Dottor Zivago racconta come il protagonista e Lara si ritrovino, lontanissimi da Mosca, in una città sperduta dell’Asia, dove entrambi capitano, senza sapere l’uno dell’altra, ad abitare nella Casa delle Figure, e come in questo incontro dopo tanto tempo si dichiarino il loro reciproco amore: (22)
Ebbene, tutto questo si può tradurre con una metafora che forse supera la semplice portata metaforica, in un linguaggio di fisica nucleare [...]. Pasternak ci fa assistere all’urto degli atomi, ci dà [...] lo spettacolo e gli effetti della reazione a catena.
È qui che dobbiamo interrompere l’audizione. «Tutto questo si può tradurre con una metafora che forse supera la semplice portata metaforica. » Ma allora, non sarà tutta una faccenda di traduzione, di metamorfosi, di linguaggi trasposti? La metafora riuscirà davvero a superare la semplice portata metaforica? Nella sua ardita escalation teorica Debenedetti non si sarà ambiziosamente, generosamente, spinto troppo avanti? Forse converrà tornare indietro, sui nostri passi e sui suoi, per collaudare il percorso del nostro prototipo e ricavarne qualche riflessione che, trascendendo il caso singolo, possa illuminarci più in generale sul rapporto scienza-letteratura. Innanzitutto si sa che Debenedetti parla spesso per citazioni, per aneddoti, per volteggi intellettuali e frastici, per paradossi, per miti, e soprattutto per metafore. Nella Prefazione 1949, la discussione con Croce, investito delle funzioni di “guardiano del faro”, passa attraverso un paravento psicologico, una lettera senza francobollo, un cornetto acustico, un cordone sanitario, un ago magnetico e un cacciavite. (23) La Commemorazione provvisoria si presenta anche come un ricco e brillante catalogo di « figure » suscettibili di lausberghiane tabulazioni e di lacaniani scrutini. (24) Potrebbe dunque non essere del tutto illegittimo il dubbio che anche il personaggio-particella, la conflagrazione degli atomi, la reazione a catena risultino, nella esegesi di Proust Joyce Pasternak Moravia, null’altro che metafora. La quale, come Debenedetti certo sapeva per bocca di Robbe-Grillet, « non è mai una forma innocente ». (25)
Così, nella nostra verifica a ritroso, emergono altre riserve. Le fonti consultate da Debenedetti si restringono al manuale di divulgazione, sia pure di altissima fattura. Tra gli esempi addotti, alcuni potrebbero rappresentare casi isolati e malamente generalizzabili, altri appaiono insufficientemente approfonditi, altri infine soffrono di iterazioni. (26)
Basteranno queste difficoltà e labilità o ambiguità ad indurci ad abbandonare la partita? Al contrario. Di alcune di esse, intanto, Debenedetti per primo è stato serenamente consapevole: come, quando ricordando la sua giovinezza di studente nella Torino intellettuale e operaia confessa che coltivava « le matematiche severe con un amore stranamente estetico », sì che i nomi di certe entità algebriche e geometriche lo « rapivano proprio per il loro valore magico e incantatorio di eventi verbali »: (27) e altrove ha celebrato « la musica dell’algoritmo ». (28) Oppure quando l’ex studente, passato ormai dalla parte dei maestri ma di altra dottrina, nell’atto stesso di rivitalizzare questa dottrina mediante i contraccolpi della fisica nucleare, pronuncia definizioni della critica letteraria che suonano – con deliberata disattenzione? – all’opposto di ogni apparenza tecnicistica, di ogni lessicografia matematizzante, e anzi con un loro timbro immaginoso quasi sull’orlo compiaciuto, un po’ carezzevole, della dilettazione narcisistica. Per lui il critico resta sempre colui cui « spetta di decifrare [...] l’oracolo perpetuamente inciso nell’arte » e che pertanto « rifà il cammino di Orfeo », perché « non riporta nel mondo la viva Euridice, riporta vivo invece il racconto di come l’ha perduta, e la bellezza del proprio pianto » (29) e la critica resta anch’essa « una ricerca del tempo perduto », la « lotta notturna di Giacobbe » fino al tornare della luce, la lotta con l’Angelo. (30)
O quando, infine, dopo aver enunciato la sua tesi della metamorfosi del personaggio-uomo nel personaggio-particella, introduce immediatamente il fisico ad obiettare che l’analogia « è cervellotica »: al che egli ribatte che la cultura è per sua natura « ecumenica » e « contagiosa ». (31)
Su questa traccia, anche valutando con moto alterno i risultati parziali raggiunti nei tre momenti prima descritti, è possibile riconoscere quasi in una quarta prospettiva la sostanza vitale della sua lezione: piuttosto che la fantasmagoria delle metafore, un più perfezionato e meglio documentato « metodo analogico » : (32) non tanto una ardua « nuova simbiosi »,quanto, più prudentemente, almeno per l’attuale status quaestionis, la ricerca paziente e problematicamente apertissima di quel « punto d’intesa » che fu espressione a lui cara e alla quale noi crediamo competa una irradiazione polisensa. « Intesa » non soltanto tra i due blocchi ideologici, tra Est e Ovest, sul terreno di una comune episteme scientifica (33) e – come poi è avvenuto – sulla sincronizzazione tecnologica e umana della ricerca spaziale, ma intesa fenomenologica tra il sapere scientifico e il sapere letterario, tra romanzieri e scienziati, tra poetiche musica arti figurative nei reciproci rapporti – e fisica nucleare, ricerca junghiana degli archetipi, sociologia di C. W. Mills, psicocritica alla Mauron, biochimica. Per questo poderoso sforzo omni-unificante con cui Debenedetti cercò nel diverso l’organicità di un primum et unum che gli consentisse sul flusso senza fine dell’onda di probabilità la fondazione globale di pensiero scienza arte, il Mattesini ha giustamente parlato di utopia. (34) Ma Debenedetti potrebbe replicare – o assentire? – adducendo il passo del De Sanctis:
L’arte non rappresenta la vita in un modo assoluto, ma la vita come è concepita e spiegata in questo o quel tempo. È la scienza che ti dà il significato della vita; e la vita artistica di un tempo corrisponde alla scienza di quel tempo. (35)
NOTE
1. Cfr. soprattutto G. Debenedetti, L’avventura dell’uomo d’Occidente, “Comunità”, 1946, n. 1, p. 10, ora in Saggi critici. Terza serie, Milano, Il Saggiatore, 1959, e G. Debenedetti, Personaggi e destino, « Janus Pannonius », 1947, ora in Saggi critici. Terza serie, cit. Naturalmente per la meditazione di D. sulla narrativa moderna e contemporanea si tenga sempre presente G.D., Il romanzo del Novecento (Quaderni inediti), Milano. Garzanti, 1971.
2. Con Freud infatti si apre l’avventura, sua è la prima mossa [...] E stato lui a prendere d’assalto la centrale dei divieti », ma aveva anche messo l’uomo di fronte ad una nuova situazione: « tu sei questo, cioè tu sei solo. Come nella saga, il padre si era perduto durante la caccia selvaggia, e tutto intorno c’era la foresta. II padre sapeva il sentiero, prendeva per mano, raccontava la buona fiaba che promette un asilo al termine del cammino era il depositario della norma per comportarsi tra le terribili apparizioni e renderle familiari. Adesso che lui non c’è più, bisogna rivolgersi alla foresta, interrogare le apparizioni: la risposta che si riceve dalla natura, fino a nuovo ordine, è un innaturale silenzio»: G.D., L’avventura dell’uomo d’Occidente, cit., pp. 132-134.
3. G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento (Quaderni inediti) Milano, Garzanti, 1974, pp. 61-62.
4. Nell’ambito di quella che Sartre ha appunto chiamato « psicoanalisi esistenziale, come ricerca dei motivi che portano ciascuno alla propria « scelta », al proprio « progetto » : ma spesso questi temi, ad esempio senso di colpa, senso di inferiorità, sono collegati a quello della perdita del padre.
5. Qui si apre per il romanzo moderno un altro capitolo: « La scoperta della psicoanalisi, una tra le prime imprese del figlio abbandonato, riconosce – sotto il nome di nevrosi il viatico di dolore che accompagna l’orfano lungo le vie della sua avventura: una obbedisce anche a motivi di rivincita, quasi di ritorsione »: G.D., Personaggi e destino, cit., p. 151.
6. « In altri termini, è il figlio che ha perduto il padre, e della propria orfanezza e degli squallori e sgomenti di questa solitudine fa la sua nuova condizione umana, con uno spietato, desolato coraggio ultimo, che non cerca compromessi nella nostalgia. Sa che ormai tutto quello che vede, tutto quello che può ancora capitargli, non vale di andarlo a dire all’ombra del padre: il padre non capirebbe più »: ibid., p. 150.
7. G. Debenedetti, A proposito di “Intermezzo “. “L’Approdo letterario”, 1967. , n. 39, pp. 17-18.
8. G. Debenedetti, Poesia italiana de/ Novecento. cit., p. 159. Poco oltre (pp. 167-168) vedi anche le due formule che Debenedetti costruisce assegnando « ai tre addendi a, b, c, i nomi concreti dei fatti di cui Saba più vistosamente si vale per dare fisionomia poetica alla propria poesia: a sia la musica, b la rima, c siano gli scarti del linguaggio dalla normalità della nomenclatura e del discorso»:a
a +b+c = costante
a+b+(-c) = a+b-c.
9. Letta al Congresso del PEN Club. Venezia 1949. Pubblicata con il titolo Prefazione 1949. in Saggi critici. Prima serie. Milano, Mondadori, 1952 (2); ora Milano, li Saggiatore, 1969 (3).
10. Ibid., pp. 29-30. Finanche il Croce, se avesse consentito che filosofia e scienza si guardassero serenamente in faccia. avrebbe dovuto constatare la « somiglianza di sguardo mentale », certe simmetrie storiche, « una identità di impulsi e di presupposti »: ibid., p. 32.
11. Ibid., p. 35.
12. Cfr. A proposito di “Intermezzo”, cit.. p. 14. Su fisica moderna e narrativa moderna, in particolare sull’onda di probabilità, cfr. G.D., Il romanzo del Nocecento. cit., p. 124 e pp. 423-425.
13. G. Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, “Paragone” – Letteratura. 1965. n. 190, ripubblicata nel vol. di Aa.Vv., Avanguardia e neo-avanguardia, Milano, Sugar, 1966 (sulla stessa tematica in una angolatura generale vedi G.D., Il romanzo del Novecento, cit., pp. 417-420 e pp. 619-624: su homo sapiens e homo fictus, « uomo fabbricato, uomo inventato », pp. 436-440), ora si legge in G.D., Il personaggio-uomo, Milano, Il Saggiatore, 1970: per la citazione cfr. p. 16.
14. Il primo stadio, ancorato alla psicologia del profondo, appare adesso respinto in periferia e persino sospettato, non senza un giusto fastidio, per la stanchezza iterativa che si annida nelle sue risposte rozzamente volgarizzate, sempre più stereotipate: « L’infra della psiche, inquisito con le varie pratiche freudiane, postfreudiane, parafreudiane e antifreudiane, si e’ ridotto a risposte sempre piu stereotipate: nella psicologia del profondo l’età delle grandi scoperte sembra segnare un punto di arresto: gli usi sempre più spuri che se ne fanno, la psicoterapia da weekend, ne sono la prova »: ibid., p. 24.
15. Ibid., p. 16.
16. Ibid., pp. 24-25.
17. Ma non si daranno eccezioni, ad esempio, in alcuni esemplari del recente romanzo americano? Particelle anch’esse, ribatte Debenedetti, con la sola specialità di appartenere alla famiglia di quelle che Kenneth W. Ford ha classificato come « particelle strane »: Ibid., p. 33.
18. Ibid., p. 36.
19. Ibid., pp. 18-19, p. 23, p. 36. Su Proust e Joyce, Sartre e Husserl, per l’« esplodere verso», vedi in G.D., Il romano del Novecento, cit., pp. 300-305.
20. G. Debenedetti, Un punto d’intesa nel romanzo moderno?, “L’Europa letteraria”, 1963, n. 22-24, ora in G.D., Il personaggio-uomo. cit., p. 61.
21. G. Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uorno, cit., p. 27.
22. A proposito di “Intermezzo”, cit., pp. 11-13. Ma già nei Quaderni inediti del 1961-62: « Pasternak ci fa assistere all’urto degli atomi che scatena la reazione… »; analoghe anticipazioni per l’esempio Moravia: cfr. G.D., Il romanzo del Novecento, cit., p. 114 sgg. (la citazione a p. 115). Cfr. pure Commernorazione provvisoria del personaggio-uonzo, cit., pp. 23-24. In tutti questi luoghi l’argomentazione coinvolge pure Joyce e Proust: così anche nel finale del cit. Un punto d’intesa nel romanzo moderno?
23. G. Debenedetti, Probabile autobiografia di una generazione, cit., pp. 23-32.
24. Si distinguono le sindacali (Robbe-Grillet segretario della Confindustria trascinato sulla piazza del comizio; e già in Personaggi e destino si era assistito alla dichiarazione dei diritti del personaggio e addirittura allo sciopero dei personaggi di Proust); le motoristiche-meccaniche (un’avaria della psiche), quelle di utensileria corrente (il frullino), quelle di patologia discografica (il disco rotto che gira sempre sullo stesso solco).
25. Tanto che lui stesso, a proposito di Proust, non aveva dimenticato di precisare che si tratta di « atomi psicologici o figurativi o figurali »: Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, cit., p. 25, p. 20.
26. Nella Commemorazione provvisoria, cit., pp. 34-35, il preteso dialogo tra un fisico e un romanziere degli anni Sessanta, Kenneth W. Ford da un lato, dall’altro Alain Robbe-Grillet poi sostituito da Jean Bloch-Michel, luogo deputato all’incontro decisivo, e dunque avamposto piu avanzato del sistema strategico debenedettiano, è piuttosto una abilissima giustapposizione di assiomi abbastanza eterogenei ritagliati dai libri di due monologanti.
27. G.D., A proposito di “Intermezzo”, cit., p. 7.
28. G.D., Probabile autobiografia di una generazione, cit., p. 30.
29. Ibid., p. 35.
30. A proposito di “Intermezzo “, cit., p. 15, p. 18.
31. Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, cit., pp. 25-26.
32. Quello con cui Debenedetti « procede per via sperimentale e con positivo senso di ricerca. ove le intuizioni, i presagi, gli accostamenti, assumono valore di “prove”, di “tentativi” »: F. Mattesini, La critica letteraria di G.D., Milano, Vita e Pensiero, 1968, p. 224.
33. Un punto d’intesa nel romanzo moderno?, cit., è infatti la relazione tenuta da Debenedetti alla Tavola rotonda sul romanzo tra scrittori dell’Occidente e dell’Oriente europeo, organizzata dalla Comunità europea degli scrittori nell’estate del 1963 a Leningrado.
34. F. Mattesini, La critica letteraria di G.D., cit., pp. 217-224.
35. Ibid., p. 222. Il passo desanctisiano è in F.D.S., Zola e «L’assommoir»: cfr. nel vol. (XIV delle Opere a cura di C. Muscetta) L’arte, la scienza e la vita, a cura di M.T. Lanza, Torino, Einaudi, 1972, p. 445.