Debenedetti e la modernità

di Remo Ceserani

Avverto subito, perché chi mi ascolta non si spaventi, che non intendo affrontare, in tutta la sua problematicità, la questione della periodizzazione storica della letteratura del Novecento e la controversa definizione terminologica della “modernità”.

Dovrei infatti, se volessi affrontare a fondo questa questione, risolvere prima una serie di problemi non piccoli. Come per esempio quello del rapporto fra il generale e accidentato percorso delle concezioni e pratiche letterarie del secolo e quello dei molti movimenti artistici e letterari, fra cui ce n’è anche qualcuno che si è fregiato del nome di “modernism”, tutti parziali o addirittura occasionali e variamente combinati o in contrasto con movimenti vicini: impressionismo, post-impressionismo, simbolismo, espressionismo, cubismo, futurismo, imagismo, vorticismo, dadaismo, surrealismo ecc. O il problema del rapporto fra le molteplici e varie esperienze letterarie e la serie abbastanza numerosa di prese di posizione intuitive o di più impegnate ricostruzioni storiografiche, specie in campo anglosassone, che hanno stabilito di chiamare con un nome come “modernism” un intero periodo della sensibilità, della cultura, della concezione e produzione letteraria del Novecento. (1)

Dovrei forse anche risolvere l’intricata questione terminologica, che ha visto la varia fortuna, in campo internazionale, di termini come “il movimento moderno”, “l’età moderna”, “il modernismo”, “la modernità” o, sulla spinta di un uso diffuso in Germania, probabilmente iniziato dalla pubblicazione nel 1883 dei saggi del critico danese Georg Brandes, la scelta dell’aggettivo sostantivato “il moderno”. Le cose sono in ambito italiano, francese e di altri paesi cattolici rese ancor più complicate dal fatto che il termine letterario e artistico “modernismo”, usato ormai internazionalmente, incontra l’ostacolo di una casella semantica già occupata dallo stesso termine in uso per designare un importante movimento religioso all’interno del cattolicesimo (il movimento di Tyrrel, Loisy, Blondel, Buonaiuti, solennemente condannato nel 1907 da papa Pio X con la nota enciclica Pascendi dominici gregis).

Dovrei allora spiegare abbastanza a lungo perché, tutto considerato, non mi piace l’introduzione del termine “modernismo” in italiano introduzione, d’altronde, che è già stata ampiamente compiuta, soprattutto per iniziativa di colleghi anglisti, che sono anche amici, come Giovanni Cianci e Franco Moretti. L’iniziativa non mi piace, e preferisco l’uso di un termine come “modernità”, e l’uso parallelo e affiancato del termine “contemporaneità”, per il quale avrei, semmai, anche il conforto proprio di un critico come Giacomo Debenedetti. (2) Non mi piace perché preferisco che sia tenuto ben distinto il movimento letterario da quello religioso, ma soprattutto perché, nella nostra tradizione storicistica, forte e dura a morire, un termine che finisce in “ismo” porta con sé una irrefrenabile tendenza: 1) a porsi a metà fra il piano della storia degli stili e quello della storia delle idee (con possibile scivolamento sul piano della storia dello spirito); 2) a divenire rigido, impositivo, reificato, a costruire dei canoni e delle tradizioni basate su valori considerati universali (onde diventano “moderni” scrittori della classicità come Catullo, o medievali come Villon, o seicenteschi come Donne e i metafisici), e 3) a tirarsi dietro la discutibile pratica di procedere a ulteriori suddivisioni dei periodi storici in sottoperiodi – quasi si trattasse di tagliare un salame in tante fette o di costruire un lungo drago cinese di carta -: il paleomoderno, il protomoderno, il neomoderno e, lasciatemi pronunciare la parola già anch’essa ampiamente inflazionata, il postmoderno.

Preferisco, invece che addentrarmi troppo in queste questioni di lana caprina, stipulare un contratto provvisorio con il mio pubblico e partire dall’intesa di massima che c’è stato un periodo storico della cultura letteraria del Novecento cui per convenzione si è dato e si può dare il nome di “modernità”, che questo periodo storico si caratterizza come uno dei più decisamente “rivoluzionari” nella storia dei sistemi letterari del passato, e che, sulla base delle definizioni e descrizioni di alcuni degli stessi protagonisti e poi dei cronisti e degli storici, è possibile indicarne alcuni dei tratti caratterizzanti comuni e diffusi, sul piano dei comportamenti sociali, delle adesioni culturali, delle strategie retoriche e stilistiche.

Detto questo, vorrei proporre qui un’addizione all’elenco manualistico di quelle che sono considerate le “città” della modernità o del moderno: e alle solite Parigi e Londra e New York – asse principale dell’esperienza “moderna” – e alle altrettanto importanti e variamente situate Berlino, Vienna, Praga, San Pietroburgo e Copenhagen, vorrei aggiungere almeno alcune città italiane: Milano e Torino, anzitutto, e poi anche, in modo più o meno spiccato, Firenze, Roma e Trieste. Sulla legittimità di queste candidature non è il caso qui di discutere e dare motivazioni in dettaglio. Basterà, per quel che riguarda Torino, e soprattutto la Torino dell”immediato dopoguerra, ricordare i dati fortemente contraddittori e per questo dinamici e movimentati di una struttura economica-sociale di base con aspetti tradizionali e arretrati investita, a partire dal 1903, da un rapido processo di trasformazione, che la mutò in pochi anni in città industriale e operaia, o, sul piano degli atteggiamenti collettivi, la doppia spinta verso un nostalgico attaccamento al “piemontesismo” ottocentesco e verso spregiudicate innovazioni e aperture in molte direzioni o, sul piano delle culture di massa o di élite, la presenza di circoli accademici con forte sopravvivenza del positivismo e scientismo ottocentesco e, accanto, centri di spiritualismo a volte esoterico o di socialismo umanitario, o centri di solida cultura storica ed economica (si pensi a personaggi come Gaetano De Sanctis, Achille Loria, Luigi Einaudi, Francesco Ruffini e Gioele Solari), o gruppi, nati dentro l’accademia ma con energici impulsi interiori di rinnovamento spirituale e morale e forte capacità di apertura e collegamento con altri strati sociali o con altre realtà nazionali: i gruppi di giovani seguaci di Benedetto Croce (lui stesso legato per molte ragioni al Piemonte), quelli riuniti intorno all’iniziativa politica di Antonio Gramsci, quelli riuniti attorno alla figura di organizzatore culturale di Piero Gobetti. Inutile aggiungere dati importanti come l’apertura proprio a Torino nel 1902 dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna, la presenza a Torino di una originale corrente del futurismo, lo svolgimento a Torino di una fase importante della storia del cinema, l’importanza dell’automobile. È una descrizione che è stata ormai tentata tante volte e che certo può legittimamente fare di Torino uno dei centri principali in Europa della modernità.

Ma vorrei anche, a questo punto, che mi consentiste di aggiungere, sia pure in modo ipotetico e problematico, al canone degli autori tipici della modernità, stranieri e italiani, anche il nome di un critico italiano, quello di cui qui oggi parliamo con impegno conoscitivo e cercando di evitare la retorica celebrativa. Vorrei cioè, insieme con voi, provare a considerare la figura di Giacomo Debenedetti sotto questo aspetto, provare a considerarlo un critico della modernità, usando il complemento di specificazione sotto il doppio aspetto di specificazione soggettiva o di provenienza (Giacomo Debenedetti come critico appartenente, per esperienza, inquietudini, letture alla modernità) e di specificazione oggettiva o di argomento (Giacomo Debenedetti come critico che si applica, per scelta di gusto, ai testi della modernità).

Comincio, allora, con il richiamare la vostra attenzione su una data, quella del 1922: una data che almeno uno dei prestigiosi studiosi del “modernism” inglese e comparato, Harry Levin, ha proposto di considerare come data cruciale, addirittura punto culminante nella storia dell’intero fenomeno. (3) Altri studiosi, devo subito aggiungere, fanno notare che l’esplosione della “modernità” si è avuta parecchi anni prima e che all’inizio degli anni Venti si assiste, in molte città europee, alle sue manifestazioni più tarde, o attardate.

Ma vediamo questo anno 1922. Ciò facendo, compiamo un’operazione analoga a quella che lo stesso Debenedetti ha compiuto almeno due volte, per gli anni 1937 e 1958, sulla produzione letteraria italiana uscita in quegli anni, con il proposito di « vedere, come quando si taglia un tronco di albero e se ne guardano gli anelli, le linfe che vengono dal disotto, dal prima, e tendono a salire verso il poi » (4) – cioè guardiamo un po’ anche all’anno precedente e a quello successivo. Il 1922 è, nell’esperienza letteraria europea, l’anno “miracoloso” che ha visto la pubblicazione di Ulysses di Joyce e della Waste Land di Eliot. Ed è anche l’anno delle Duineser Elegien e dei Sonette an Orpheus di Rilke (che saranno pubblicate l’anno seguente), della seconda parte di Sodome et Gomorrhe di Proust (preceduta nel 1920 da Le cóté de Guermantes e nel 1921 dalla prima parte di Sodome et Gomorrhe), di Jacob’s Room di Virginia Woolf, di Aaron’s Rod di D.H. Lawrence, di Siddharta di Hesse; l’anno in cui Kafka scrisse Das Schloß. È l’anno di esordio di Bertolt Brecht, con Baal e Trommeln in der Nacht; l’anno del primo congresso internazionale degli artisti d’avanguardia a Dusseldorf, del viaggio in URSS di Georg Grosz e della pubblicazione, seguita da processo, della cartella di disegni Ecce homo. È l’anno di pubblicazione di Durée et simultaneité di Bergson e del Tractatus di Wittgenstein, di Untergang des Abendlandes di Spengler. È l’anno immediatamente successivo a quello dell’inizio della radiodiffusio-ne. Nel cinema è l’anno di Doktor Mabuse der Spieler di Fritz Lang, che teneva dietro a Das Kabinett des Doktor Caligari di Wiene, uscito nel 1921; è l’anno del primo numero del cinegiornale di Dziga Vertov Kino-Pravda e anche l’anno del giro trionfale di Chaplin in Europa con i suoi film recenti fra cui, importantissimo, Il monello, del 1921; l’anno successivo alla prima rappresentazione di Wozzeck di Berg e del Mistero buffo di Majakovskj. Sempre per il teatro è l’anno di Anna Christie di 0′Neill, della prima rappresentazione a Londra e New York dei Sei personaggi di Pirandello (messi in scena in Italia l’anno prima) e di quella da noi di Enrico IV. È anche l’anno, in Italia, dell’Esposizione d’arte italiana futurista, dell’Appello agli intellettuali di Vinicio Paladini (uscito successivamente all’articolo di Gramsci, sull’ “Ordine nuovo” del 1921, che si apriva con la domanda Marinetti rivoluzionario?).

E come si colloca, quest’anno 1922, nella cronologia della letteratura italiana? L’anno prima, nel 1921, sono usciti Rubé di Borgese e il Canzoniere di Saba. In questo anno 1922 Svevo ha finito di scrivere la Coscienza di Zeno, che uscirà l’anno successivo. Nel 1922 escono Moscardino di Pea e il libro di Stuparich su Scipio Slataper. Nel 1923 esce La Velia di Cicognani. Nel 1923 Borgese raccoglie i suoi saggi sulla letteratura contemporanea usciti nei due anni precedenti nella rivista di Treves “I libri del giorno”, con la parola d’ordine “tempo di edificare” e la segnalazione dell’opera di Tozzi, lo scrittore morto nel 1920 e i cui Ricordi di un impiegato furono pubblicati proprio da Borgese nel 1920 e i romanzi Tre croci nel 1920, Il podere nel 1921 e Gli egoisti nel 1923. Nelle lezioni romane degli anni Sessanta proprio in questi anni 1921-’22 Giacomo Debenedetti porrà l’inizio di quella sua storia del “romanzo italiano moderno”, descrivendo quegli anni come il momento in cui il genere narrativo si svincolò « dalla non-narrazione, dalla pseudonarrazione, o addirittura dal sabotaggio alla narrativa », (5) ma anche quello in cui, a ridosso della riscoperta di Verga, « il romanzo e il racconto si svincolavano a fatica dagli schemi della narrativa veristica ». (6) E, come si sa, il 1922 è un anno importante e cruciale anche per la storia della “poesia moderna” italiana: è l’anno di esordio di Eugenio Montale, con i sette componimenti di Accordi e la poesia Riviere, pubblicati proprio in “Primo tempo”, la rivista torinese fondata in quell’anno dai giovanissimi Sergio Solini, Giacomo Debenedetti, Mario Gromo ed Emanuele F. Sacerdote.

E infatti il 1922 – a questo volevo arrivare – è anche l’anno del vero e proprio esordio critico di Debenedetti, che proprio in quell’anno, oltre a fondare “Primo tempo” e a scrivere i suoi primi saggi (sullo stile di Croce, su Saba, su Montale, su Boine, su Michelstaedter), ebbe i primi importanti contatti con scrittori e intellettuali fuori Torino e ai primi del 1923 scrisse Amedeo. Alla qualità “miracolosa” di quest’anno nella produzione lettera-ria e artistica europea possiamo far corrispondere un fatto che anch’esso sembra, e ancor più, “miracoloso”: la straordinaria sicurezza con cui il giovane critico cresciuto nell’ambiente torinese fa le sue scelte di gusto e indica a sé e agli altri quali sono gli eventi, gli autori e le opere davvero importanti della letteratura del suo tempo. Si rivela, come critico, perfettamente all’unisono con i fenomeni allora emergenti della modernità. Franco Brioschi parla, a proposito di questa sicurezza precoce, di un “estro” da rabdomante. (7)

Di quegli anni, delle esperienze fatte allora da Debenedetti, dei rapporti con gli ambienti intellettuali torinesi sappiamo già molto, un po’ per merito di pagine autobiografiche dello stesso Debenedetti, un po’ per merito delle ricerche degli studiosi (alcuni qui presenti). Qualcos’altro forse ad alcuni di noi potrebbe far piacere di sapere: per esempio quando e cosa egli lesse allora di Joyce e quando e cosa di Freud; e a me personalmente piacerebbe sapere di più del contenuto degli incontri e scambi con Mario Fubini a cui allude più volte nei suoi scritti.

Mi sembra più importante, qui, indicare sommariamente alcune delle ragioni che mi hanno spinto a sottolineare la qualità “moderna” o “modernistica” del lavoro di critico di Debenedetti già a cominciare da quell’anno inaugurale del 1922.

L’elemento che pone Debenedetti in immediata consonanza con il gusto e la sensibilità “moderni” sta nella sua acuta consapevolezza della necessità che i romanzi e la poesia moderni diano espressione, attraverso pratiche costruttive, retoriche e stilistiche, coerenti e l’uso dei correlativi oggettivi adeguati, alle tipiche esperienze conoscitive ed esistenziali della modernità: quelle che possiamo identificare con il “sentimento della lacerazione”, la “dissociazione della sensibilità”, la perdita di compattezza e peso specifico del soggetto e la sensibilità esasperata del “dettaglio”.

Usando il termine “dettaglio” mi riferisco qui di proposito alla distinzione, che è divenuta abbastanza comune negli studi di ermeneutica letteraria, tra frammento e dettaglio; essendo l’uno, il frammento, un modo antico, archeologico, naturalistico, di vedere le cose e l’altro, il dettaglio, un modo tipico della modernità. Il gusto del frammento non è solo tipico, nella letteratura, dei tanti romanzi naturalistici, impressionistici, simbolistici della fine dell’Ottocento; ma anche, come è noto, della prosa d’arte impressionistica primonovecentesca che è stata definita appunto “frammentismo”.
La concentrazione sul dettaglio è, invece, il procedimento tipico delle strategie conoscitive della nuova fisica, biologia, cosmologia, linguistica e storiografia, di una scienza psicologica nuova come il freudismo, della nuova sensibilità, dei nuovi codici e generi artistici – come il cinema -, della nuova letteratura.

La lacerazione fu esistenziale ma anche sociologica e filosofica, e si manifestò come strappo rispetto al gruppo chiuso degli amici e dei maestri pur raffinati, rispetto al canone dei testi da leggere (con la rapida costituzione di un canone alternativo, che comprendeva tutti i grossi scrittori della modernità, identificati con uno straordinario fiuto da segugio), rispetto ai modelli di pensiero da seguire e al grande modello dominante, quello crociano. In questa chiave vanno lette le pagine rievocative della Prefazione 1949, così spesso citate, per il loro tono suggestivamente autobiografico e narrativo, dagli studiosi:

    Mattini dell’Università di Torino, dei quali posso testimoniare di persona: sotto i portici del cortile, vaporassero le nebbie dell’inverno col loro sapore di seltz, o il sole degli aprili e dei maggi levigassero di ceruleo le colonne, o fiammeggiasse quello estivo sui giorni d’esame, chi ora con la macchina del tempo potesse tornare a quei mattini sentirebbe di che cosa si discorreva. Croce e Gentile, Gentile e Croce, il grande duello […]    In una fase di maggiore maturità, questa situazione si vede rispecchiata nei Quaderni del carcere di un più anziano di noi, Antonio Gramsci. Lui aveva già distaccato, dal fondo comune dove ancora le nostre adolescenze si arrovellavano, una sua autobiografia, e con che segno incisa. Eppure, quando si trovò in prigione, solo col proprio cervello, sul punto ormai di formulare la sua autonoma filosofia della prassi, anche lui constatò la necessità di pagare un pedaggio al Croce. E per quanto concerne le questioni dell’arte, nelle Lettere dal carcere si noterà che se la materia dei giudizi è tutta di lui, Gramsci, la struttura invece di quei giudizi, il modo di motivarli risentono ancora lo strumento crociano. S’è detto Gramsci: cioè un uomo che intimamente aveva già attuata la « rottura ».

    « Rottura » sarebbe stata anche per noi la parola, ma la conoscevamo male e non sospettavamo che si potesse applicare alla nostra situazione di giovanotti divisi tra l’amore dell’arte e l’assillo di trovare la ragione sufficiente di questo amore. (Amare senza capire ci sarebbe parso libertinaggio, un perdere la vita, noi che eravamo nati per giuste nozze. Si traggano le conseguenze, anche biografiche, di una simile situazione). I più anziani e i più saggi, il curato e il barbiere, ci chiamavano, con garbata impazienza, problematisti. Effettivamente, come succede a coloro che si spendono in una serie di gesti coatti e maniache superstizioni, perché incapaci di commettere il gesto che corregga i loro rapporti con la vita, così anche noi ci esercitavamo a volgere tutto in problemi, a suscitare da tutto un problema, per deficiente coraggio di quella rottura, che era il nostro vero problema, tutt’insieme tipico e immaturo. [...]

    L’estetica crociana esplicava ancora magnificamente le sue funzioni di buon governo. In noi, nel nostro intimo, c’era un movimento vitale, di base, verso qualche cosa d’altro; mentre sopravviveva, sempre nel nostro interno, una classe dirigente, bravissima in astuzie e arrendevolezze verbali per non esacerbare quelle richieste, senza peraltro doversi dimettere dal potere. Non riuscire a dirci la parola « rottura », pur facendone ogni tanto la mimica, fu il grande lapsus della nostra generazione.

    L’appello ci veniva dalle penombre che fasciano il fatto dell’arte, come l’ha circoscritto il Croce: dall’infinito, perenne mormorio della foresta intorno alla radura illuminata. Ci veniva dalla febbre di addentrarci nel mormorio, di captare la voce dell’usignolo, vicina e perdutamente misteriosa tra i rami del bosco, inesauribile; dalla voglia di identificarci con la punta estrema dell’individuo, che il Croce si era virilmente rassegnato a confinare tra ciò che non è dato di tradurre nel nostro linguaggio. [...] Eppure anche il Croce, come tutti quanti, cercava e cerca nell’opera d’arte gli appuntamenti ultimi, la schiarita emotiva nella quale l’organico sembra saldarsi con lo spirituale, ma perde il nome nell’istantanea felicità in cui crede di averlo trovato. Di lì ci veniva l’appello: cioè dall’illecito, cioè dalle zone che il Croce aveva proscritte, come appartenenti ad altre « forme » dello spirito, e dunque forniti di errore per la « forma » estetica dell’artista, per la « forma » logica del critico. L’errore non è, secondo il Croce, confusione e rimescolamento delle « forme »?

    Chiamavamo tentativi di « superare » l’Estetica crociana gli sforzi di portare nell’intelligenza quei messaggi provenienti da regioni non bene catalogate, ma forse circonvicine alle radici dei sensi. L’idea di « superare » conteneva già la propria condanna. Ci consentiva infatti il famoso trucco di ostentare diligenza per scansare l’impegno. Con fatica spettacolare, scrivevamo la lettera a cui, per un meccanismo notissimo, ci si dimentica di mettere il francobollo. Un autoinganno del genere era senza dubbio rintanato in quel programma di « superamento ». Volevamo infatti uscire dal Croce per le strade da lui tracciate; che viceversa, nella impeccabile euritmica mozartiana armonia del suo sistema, concludevano già mirabilmente il loro giro. Non è stato il Croce medesimo a constatare la circolarità della Filosofia dello spirito? Che può anche voler dire l’impossibilità, per chi parta da quel centro, di evadere lungo la direzione di qualsiasi raggio; la condanna a proiettarsi nel vuoto, nel difuori, se si prenda una tangente; l’inevitabilità di girare intorno. Circolo: uno splendore di metafora, ma subito diventa un emblema scoraggiante. (8)

Già in Amedeo, il “racconto critico” del 1923, come lo chiamò, suscitando l’approvazione dello stesso Debenedetti, Edoardo Sanguineti, (9) il bisogno della “rottura”, o della “lacerazione” invade alla fine, non si sa se veramente o velleitariamente, si presume velleitariamente, il breve giro della giornata del protagonista, “uomo accidioso” – una specie di Prufrock adolescente -, sotto la forma di un messaggio dall’esterno, o dal destino, che egli riceve, la lettera circolare che giunge dall’America. Ma egli rimane chiuso nel cerchio stretto della sua coscienza, dei suoi comportamenti dominati dalla coazione a ripetere, dell’immagine che gli altri hanno di lui e che lui stesso ha di sé, del suo “destino immanente”:

    Nulla per ora autorizzava Amedeo a uscirsene, con aria spassosa e canzonatrice, dai quadri di una stretta e osservante vita morale. Gli ironici controlli della nostra sorte convengono solo quando essa è già domata e riconosciuta; altrimenti avvelenano e inacidiscono i necessari, seppure mortificati, presupposti di fede.    Lacerata la circolare, Amedeo uscì di casa, nuovamente ragionando dentro di sé circa le possibili liberazioni dal suo stato presente. Appena fuori della porta, strappò una manciata di fieno da un carro che passava. Infine, l’equilibrio poteva cominciare domani; anzi poteva già essere cominciato, senza avvertire. (10)

Impotente, sradicato e disorientato (tanto che « gli pareva, a un tratto, di trovarsi a passeggiare per un paese straniero » [p. 21] – e infatti il narratore proprio in un paese straniero lo reincontrerà, in Amedeo II, a Parigi), Amedeo si muove nel mondo come un tipico personaggio senza coerenza interiore e senza adesione alle aspettative degli altri, e tantomeno a quelle del suo creatore, autore della sua storia e suo narratore, attuando così, come tante creature pirandelliane, lo “sciopero del personaggio”. (11) Egli è giustamente rappresentato come una

comparsa svagata e immemore tra i commerci degli uomini e il difficile egoismo delle cose [p. 29].

Personaggio della modernità, Amedeo si concentra sul singolo dettaglio e sul singolo episodio degli accadimenti che lo circondano e perde ogni significato complessivo:

    Il tempo non contava: quel tempo eguale, dentro cui nessun fatto notevole era accaduto che stabilisse tappe e punti di riferimento. [p. 22]    Della possibilità dell’amore o di una qualunque vita sentimentale, nemmeno parlarne: non aveva né l’animo, né il tempo di disperdersi. Inseguendo l’episodio, s’era scordata la necessità di inserirlo in un destino. [p.23]

Un personaggio-fratello di Amedeo, lo Stefano di Riviera, amici, conosce anche lui, drammaticamente, la dissociazione della sensibilità:

sempre un tentacolo dell’attenzione di lui si serbava, purtroppo, libero da ogni fissa occupazione: e, indolente, e disponibile alle più impensate metamorfosi, poteva a sua posta imprestarsi i poteri dell’udito quando fosse mestieri di segnalare una scampanellata del telefono, o duelli del frivolo odorato per compiacersi di un sentore errante per l’aria: come poc’anzi aveva assunta la tenera sensualità della vista, ad incantarsi di quel tramonto invernale. (12)

La dissoluzione della compattezza del personaggio in una quantità di dettagli è da Debenedetti non solo rappresentata nei suoi tentativi narrativi, ma analizzata nelle opere degli scrittori, e in particolare dei grandi scrittori della modernità che gli sono cari. Fra le molte dichiarazioni cito una delle più stringenti, nella quale ricompare l’immagine del circolo:

    II personaggio classico, omogeneo, compatto, dalla sagoma d’ingombro balzacchiana, era sostituito da un succedersi di atomi psicologici e figurativi o figurali, dotati di una straordinaria autonomia, anche se venivano imputati a quel luogo geometrico, o emblema collettivo, o comune denominatore, che sembrava conservare i diritti, le patenti, l’investitura del personaggio classico.    [... È cominciata], per il personaggio-uomo, una vita grama: lo si trova intatto solo nel punto in cui il circolo chiude il circolo e l’inizio coincide con la fine. Egli appare, gli viene imposto un nome e uno stato civile, poi si dissolve in una miriade di corpuscoli che lo fanno sloggiare dalla ribalta, è richiamato solo nel momento in cui serve incollare i suoi minutissimi cocci. (13)

Questa fenomenologia è avvertita e studiata in tante delle opere e anche delle autobiografie di scrittori prese in esame: in Proust e Joyce e Svevo e Musil. E anche in Pasternak, per esempio: nei destini separati e negli incontri dominati dalla legge del caso dei due personaggi di Zivago. Quando essi si incontrano, Pasternak non si preoccupa di spiegarci quali forze li hanno di nuovo spinti a incontrarsi:

    Tutto questo si può tradurre. con una metafora che forse supera la semplice portata metaforica, in un linguaggio di fisica nucleare. Dire che Pasternak ci fa assistere all’urto degli atomi che scatena la reazione, ci dà, in meravigliose pagine lirico-paesistiche, la localizzazione del punto di urto, in meravigliose pagine drammatiche e narrative, lo spettacolo e gli effetti della reazione a catena; non può darci la traiettoria descritta dagli atomi che vi concorrono, il percorso che essi hanno compiuto per giungere a scontrarsi; perché, proprio come nella fisica, quella loro traiettoria sfugge al calcolo e ricostruirla per via di congetture sarebbe un lavoro superfluo ai suoi fini. L’importante è che si siano scontrati. (14)

La stessa fenomenologia, sorprendentemente, è colta in uno scrittore dell’Ottocento recuperato, uno scrittore che a prima vista, per le sue adesioni ideologiche, sembra lontanissimo dalle esperienze della modernità, ma che per le sue contraddizioni interiori, le sue manifestazioni biografiche, i suoi slanci, le sue rigidezze, i tentativi della sua scrittura Debenedetti riesce a trasformare in una specie di grande avo barbuto degli scrittori della crisi moderna, Niccolò Tommaseo (e, sia pure in modo diverso, in un altro grande “recuperato”: Vittorio Alfieri). Tommaseo è uno scrittore « senza destino », un uomo « a disposizione delle circostanze », (15) la sua vita è una vera odissea, « ma un’odissea con tanti approdi e senza un vero approdo a Itaca ». (16) Le sue Memorie poetiche lo pongono accanto al Joyce di Dedalus, a Dylan Thomas, a tanti altri moderni: e il critico, per strappare il segreto di quella vita, deve porsi alla caccia di dettagli, di indizi, di spie, di lapsus freudiani, di irrefrenabili coazioni a ripetere, per strappare il segreto, identificare il dettaglio che spiega un inspiegabile tutto.

Ma, come ogni grande scrittore e interprete della modernità, Debenedetti conosce, esplora, inventa strategie per superare la lacerazione e la dispersione della vita e dei destini in innumerevoli dettagli. Anche i modi per procedere a una almeno provvisoria ricostruzione sono attinti alla grande letteratura moderna.

Ne citerò alcuni: a) la memoria come luogo in cui si proiettano e ricostituiscono in unità i dettagli o “le intermittenze del cuore” di scuola proustiana; b) lo spazio ermeneutico e l’esperienza dell’epifania, di scuola joyciana, che sublima il dettaglio e lo innalza a significato assoluto; c) la struttura di supporto alla varietà e disparità dei dettagli offerta dalla storia mitologica, secondo un insegnamento anch’esso joyciano, non più però del Joyce dublinese e del Portrait, ma da quello di Ulysses; d) il modello di interpretazione marxistica della storia, che dà ai singoli dettagli il significato grandioso e drammatico della lotta fra le classi; e) il poema sinfonico e il dramma musicale emanante dal golfo mistico, secondo il modello wagneriano, che riconduce l’esplosione catastrofica dei dettagli dentro l’intreccio tematico-musicale del “rombo del destino”.

Gli esempi relativi a ciascuno di questi procedimenti sono numerosi e percorrono tutta quanta l’opera critica di Debenedetti, confermandone la straordinaria, persistente qualità “moderna”. Non posso qui, purtroppo, darne una documentazione esaustiva. Mi limiterò a fare, alla rinfusa, alcune citazioni, con l’intento di richiamare l’attenzione su alcune pagine che suonano, anche nello stile, straordinariamente “moderne”.

    I loro romanzi [di Proust e di Joyce] sono un susseguirsi ininterrotto di esplosioni: esplodono gli oggetti, esplodono i personaggi. Ciascuno di quei romanzi è un’esplosione di esplosioni. Le essenze cercate dai due scrittori paiono diventate accessibili, comunicative solo nei frantumi abbastanza infinitesimali, corpuscolari, prodotti da quelle esplosioni. Il miracolo di Proust è nel continuo ricupero della rosa, della sua bellezza intatta, così ostinatamente e incantevolmente esistenziale, proprio mentre la fa esplodere per captarne il segreto. La dolcezza dolorante, sinuosa, intricata del suo tono trascrive le inflessioni, la tattica, i rimorsi per farsi perdonare dalla rosa seviziata.    Joyce, a prima vista, ha meno bisogno di reintegrare gli oggetti, perché è più ligio (salvo che nel Finnegans) a un trattamento naturalistico del proprio materiale. Ma l’estremo rallentamento di certi episodi anche più narrativi, l’inizio dell’Ulisse, per esempio, porta i singoli istanti, per dare tempo a ciascuno di mettersi a fuoco, quasi al limite del discontinuo, cioè ad una quasi frantumazione del tessuto temporale e spaziale. Chi voglia, di queste constatazioni così empiriche, una copertura in oro filosofale, la troverà in Adorno, dove si riconoscono a Proust e a Joyce le dovute benemerenze di capostipiti narrativi « della dissoluzione della coscienza in elementi disparati », di antesignani della « non-identità », intesa quest’ultima sia come « la dissoluzione storica dell’unità del soggetto », sia come « il presentarsi di ciò che non è di per sé soggetto ». Ma forse un osservatore meno iniziato noterà che i frantumi dell’esplosione raggiungono, se così si può dire, un’identità più intensa di quella che si è dissolta. (17)
    Lavoravo sull’Isola di Arturo, il bellissimo romanzo di Elsa Morante. I risultati a cui, bene o male, sono arrivato, si trovano ora sul mio libro. Ma allora, durante la lettura preparatoria, tentavo da ogni parte quel romanzo per individuarne il carattere, scoprirne il senso. […] D’improvviso, tornando sulle ultime pagine, mi parve di sentire echeggiare in me la musica primaverile e primaticcia, soffusa e nitida, straziante e consolatrice del terzo atto di Lohengrin, nel momento in cui il cavaliere, sul punto di lasciare la sposa, le affida i tre doni per Goffredo: l’anello, la spada, il corno. Anche nel romanzo della Morante, Nunziata, la piccola matrigna, sembra mandare tre doni ad Arturo, quando egli lascia per sempre l’isola. E tutto il romanzo si ricostruì da solo, trovò il suo senso più persuasivo, grazie a quelle revivescenze di un Lohengrin, giunto certamente per i tramiti della memoria involontaria. (18)
   
Genio e fortuna è raro che vadano disgiunti. II Croce ebbe la vocazione di nascere, e la fortuna di mettere in chiaro la sua problematica, in un tempo in cui il problematico sembrava immunizzato dal rischio di cadere nello shocking. Emblema del quale shocking potrebbe essere, ancora una volta, il pescecane dei Figli del Capitano Grant: quello che, dopo secoli di rastrellamento dei mari, si permette di condurre la sua formidabile e disgustosa vitalità, lo sbadiglio della fame primordiale, i pazzi colpi di pinne e di coda fino in vista delle rive incivilite. Lo scandalo del refrattario, dell’irriducibile, del non assimilabile ai sani e rassicuranti sistemi della ragione pareva tacitato. Erano gente ammodo, i nostri padri [...] L’età di cui il Croce, grande epigono, esprime l’uomo medio con la lucidità, la coerenza, il fascino del genio, fu un’età sostanzialmente non tragica. I chierici, i legislatori e le altre guide potevano credere in buona fede che gli eroi del secolo avessero trafitto con la spada i pescecani o i draghi della terra e del mare, e che, perfusi di quel sangue, avessero appreso il linguaggio degli alati sugli alti rami; cioè più o meno la risoluzione della Storia nell’Idea. A noi è toccato di nascere dopo: e con noi sia concesso di mettere anche Proust e Kafka, di mettere anche i critici disperati, quelli degli esperimenti cruciali, condotti sul limite, come Gundolf per esempio, o Du Bos. Non già che certe crepe non si fossero aperte, o continuassero ad aprirsi, attraverso le quali i mostri facevano sentire la loro voce: non occorre nemmeno pensare ai soliti mauvais maitres, all’elenco dei quali vorremmo aggiungere Flaubert, il nostro tragico Verdi, e perfino Francesco De Sanctis, chi si decida a leggerlo in chiave non crociana. Parli invece l’austero lbsen con i suoi appunti, poniamo, per Rosmersholm e i vari abbozzi di questo dramma fino alla stesura definitiva. Ma questa è gente che toccò il tabù, e fu espulsa dal clan e scomunicata o almeno tenuta in quarantena, secondo i metodi di allora, espertissimi nel creare cordoni sanitari, nell’organizzare intorno ai refrattari un successo di indesiderabili, facendo “come se” i loro messaggi non contenessero pericoli, recitando con le più amabili cerimonie la commedia della sordità. Quelli erano i gabbiani trasvolanti sul presagio della bufera. Alla generazione di cui discorriamo, alla nostra, non fu necessario di essere gabbiani per accorgersi del fortunale. La nostra critica dovette molte volte rassegnarsi a un sincero, patito compromesso tra l’annuncio del gabbiano e la barcarola dell’uomo del faro. Guardiano del faro, naturalmente, era il Croce. Eravamo nella situazione dei vecchi musicisti che, bisognosi di una nota dissonante, superstiziosamente la segnavano come acciaccatura accanto alla nota di più scrupolosa armonia. (19)


NOTE

1. Cito, fra i numerosi studi in proposito, il libro per molti aspetti riassuntivo Modernism, ed. by Malcolm Bradbury and James McFarlane, Harmondsworth, Penguin Books, “Pelican Guides to European Literature’”, 1976.
2. G. Debenedetti, “La nozione di contemporaneità”, in Il romano del Novecento. Quaderni inediti, con una presentazione di E. Montale, Milano, Garzanti, 1971, nuova ediz. 1987. pp. 1-7.
3. Harry Levin, What was Modernism?, in Refractions: Essays on Comparative Literature. New York and London, Oxford University Press, 1966.
4. G. Debenedetti. A proposito di “Intermezzo” in “L’Approdo letterario”, XIII, 39, luglio-settembre 1967; in ,Saggi, a cura di F. Contorbia, Milano, Mondadori. 1982, p.52.
5. G. Debenedetti. Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, con una Presentazione di Eugenio Montale, Milano, Garzanti. 1987 (prima ediz. 1971), pp. 60-61.
6. Ibid.,  p. 112.
7. F. Brioschi, Introduzione a G. Debenedetti, Personaggi e destino. La metamorfosi del romanzo contemporaneo, Milano, Il Saggiatore, 1977, p. IX.
8. G. Debenedetti, Prefazione 1949 a Saggi critici: Prima serie, Milano, II Saggiatore, 1969. pp. 20-23.
9. E. Sanguineti, Cauto omaggio a Debenedetti. in “Aut Aut”, VI (1956), e poi in Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1970, pp. 183-193: Cauto omaggio a “Amedeo”, in Aa.Vv., Giacomo Debenedetti 1901-1967, a cura cit C. Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 118-123.
10. G. Debenedetti, Amedeo, Milano, Scheiwiller. 1967, pp. 30-31.
11. Su questo fenomeno torna spesso Debenedetti, per esempio nella Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo (in Personaggi e destino, a cura di F. Brioschi, cit., p. 166): « Forse è stato Pirandello a dichiarare questo sciopero più fuor dei denti… ». La metafora dello “sciopero” fu come è noto, usata letteralmente dallo stesso Pirandello.
12. G. Debenedetti, Amedeo e altri racconti, a cura di E. Ghidetti, Roma. Editori Riuniti, 1984, p. 57.
13. G. Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, cit. pp. 164 e 166.
14. G. Debenedetti, A proposito di “Intermezzo”, cit., p. 57.
15. G. Debenedetti, Niccolò Tommaseo. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1973, p. 19.
16. Ibid., p. 123.
17. G. Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, cit., p. 164.
18. G. Debenedetti, A proposito di “Intermezzo”, cit, p. 62.
19. G. Debenedetti, Prefazione 1949 a Saggi critici. Prima serie, cit., pp. 26-27.