Debenedetti e Joyce

di Agostino Lombardo

La critica joyciana si è negli ultimi decenni sviluppata, anzitutto negli Stati Uniti, ma di fatto in Europa e nel mondo, in misura eccezionale, e persino abnorme. Un recente (1988) congresso svoltosi a Venezia e a Trieste annoverava alcune centinaia di partecipanti che in decine di relazioni, comunicazioni e interventi anatomizzavano ogni pur minimo spesso del tutto marginale, aspetto dell’opera di Joyce. In tutte le Università del mondo (e naturalmente anche a Roma) fioriscono corsi, seminari, esercitazioni. Non mancano le riviste specializzate ma saggi, articoli, note, osservazioni su Joyce compaiono a ritmo costante in ogni possibile luogo, così come compaiono libri, in una bibliografia che è già ora sterminata come quella shakespeariana. Siamo insomma di fronte a una vera e propria industria joyciana, che le recenti tecniche tipografiche e l’avvento del computer hanno ulteriormente incrementato – al punto che è con qualche sgomento che si guarda al futuro.

Lo sgomento, naturalmente, non deve impedire di riconoscere che tanta furiosa attività, se ha prodotto (e produce, e produrrà) confusione, parcellizzazione, distorsioni, perdita dei valori stessi dell’opera joyciana, snaturamento dell’analisi critica, ha anche prodotto autentica conoscenza sia biografica (basti pensare al lavoro di Richard Ellmann ) sia filologica (tutti i testi sono stati riesaminati, anche se a volte in modo discutibile, come sembra il caso della nuova edizione di Ulysses curata da Hans Gabler) sia culturale e critica (importante, ad esempio, è la ricerca intorno a Finnegans Wake ). Del resto, proprio il volume introduttivo all’edizione italiana, ideato da Giacomo Debenedetti e comparso nel 1967 (Introduzione a Joyce, Milano, Mondadori) è chiara testimonianza della validità di molti scritti (basti ricordare qui quelli di Svevo e Levin, di Curtius e Edmund Wilson): validità che è anche di molti contributi italiani: e penso agli scritti di Giulio De Angelis, Praz, Melchiori, Marengo Vaglio, F.R. Paci, Pugliatti e altri, fino a quello che a me sembra il libro più importante comparso in Italia su Joyce e dovuto a Franca Ruggieri, allieva anche di Debenedetti (Maschere dell’artista. Il giovane Joyce, Roma, Bulzoni, 1986).

Si direbbe che in un paesaggio siffatto il contributo di un critico, e di un italianista, come Giacomo Debenedetti, dovesse essere addirittura cancellato, e tanto più che gli anni sono trascorsi e che la scrittura del critico non è più accompagnata e sostenuta da quella fisica presenza, da quella ricchezza di sollecitazioni e intuizioni, suggerimenti e consigli che la sua stessa conversazione riversava su chi come me (specie a Milano, negli anni del “Saggiatore”) aveva la periodica fortuna di incontrarlo. Ma invece così non è, e io sono qui a parlare, sia pur brevemente, del contributo di Debenedetti non perché sia doveroso esternargli comunque un riconoscimento, ma perché è doveroso effettuare un primo (così credo) tentativo di individuarne i caratteri.

Tra i quali il più evidente, certo, è l’edizione italiana delle opere di Joyce da lui avviata e che ha reso possibile la penetrazione del grande scrittore irlandese presso un pubblico più vasto di quello degli specialisti. Evidente ma insieme impalpabile, non definibile con precisione, perché possiamo solo immaginare (ma forse un epistolario potrebbe fornire dati più concreti) la quantità di spunti, suggestioni, idee che vivono dietro e dentro quella memorabile e meritoria impresa editoriale, che, cominciata nel 1960 con la traduzione di Ulysses, ha costituito la base di tutte le pubblicazioni, traduzioni e analisi successive (e qui è stato fondamentale il lavoro di Giorgio Melchiori). In effetti, anche nel caso di Joyce va rilevata la discrezione di Debenedetti, sempre presente e tuttavia invisibile, garbato deus ex machina di tante imprese e, appunto, anche di questa. Così, le pagine di presentazione del volume introduttivo di cui s’è detto non sono firmate (ma sono certamente sue) e appaiono come “Avvertenza dell’Editore”: un editore, comunque, che ha la finezza di Debenedetti, la sua capacità di sintesi. una penetrazione tanto più sottile quanto più aliena da quello che viene chiamato « il terrorismo degli esegeti e ammiratori che di quelle opere sembra vantare soprattutto l’astruseria » (op. cit., p. XX). Più tangibile, in ogni modo, la ricchezza del contributo di Debenedetti nei saggi raccolti in Il personaggio-uomo e in Il romanzo del Novecento. (1)

Ed è soprattutto su questo libro – prezioso, rigoroso e insieme amoroso frutto delle cure di Renata Debenedetti – che vorrei qui soffermarmi, sia per esigenze di tempo e spazio sia perché i risultati degli altri saggi sono già tutti in queste davvero straordinarie “lezioni”, in cui è possibile ritrovare (restituita a noi come per miracolo) l’arte critica di Debenedetti, le sue qualità di “meraviglioso metaforista”, per usare i termini di Gianfranco Contini, la sua capacità di fare della critica un’arte di secondo grado, come osserva Montale nell’Introduzione. Tutte unite però alla sua passione didattica, al suo costante colloquiare con gli studenti: e poiché Debenedetti non leggeva, in classe, le lezioni pur puntigliosamente preparate ma da esse partiva per un discorso più immediato, ci si chiede quale altro incalcolabile patrimonio critico egli affidasse alla parola detta (e certo, per me, il tornare su Debenedetti che il Convegno ha sollecitato si è anche identificato con la scoperta del Debenedetti “professore”).

Di Joyce il professore parla molto, in questi corsi dedicati al romanzo del Novecento, così come molto parla di Proust, e ciò perché con loro fa cominciare veramente la storia che intende tracciare: da quando, cioè, « l’orizzonte della narrativa era invaso da due presenze sconcertanti e inevitabili, che avevano tutta l’aria di essere venute a sovvertire le abitudini, i gusti, i dulcia vitia dei lettori di romanzi: erano Proust e Joyce ». E così continua:

I loro libri mettevano risolutamente in crisi la possibilità di leggere i romanzi standosene in poltrona, pantofole ai piedi e plaid sulle gambe, con la tranquilla, bonaria sicurezza di sentirsi raccontare una storia, magari drammatica, anzi quasi sempre drammatica, che permettesse tuttavia di dimenticare i propri guai, di fronte allo spettacolo, fortunatamente immaginato, dei guai degli altri. [ ... ] Era cominciata, anche nella lettura dei romanzi, l’età dell’Insicurezza. [ ... ] Il tabù minacciato dai due nuovi romanzieri era in primo luogo il genere romanzo nella sua fisionomia acquisita di bene di consumo tra i più godibili, col suo intreccio drammatico congegnato come una molla capace di catapultare il lettore dall’inizio alla fine e, nel frattempo, di creare in lui un trasporto affettivo, spesso viscerale, di amore o di odio verso i personaggi che vivevano o agivano o pativano quell’Intreccio. (2)

Ma se dei due scrittori scrive (o parla) mettendoli insieme, sempre Debenedetti ha chiarissimo il senso della loro diversità: e un luogo del libro va invero ricordato in cui si condanna decisamente la “confusione”, I’ “annebbiamento”, di chi rende uguali fenomeni tra loro diversissimi (e a Proust e Joyce s’aggiunge qui il nome di un altro protagonista del romanzo del Novecento, Freud):

In comune, essi hanno solo di rispecchiare la stessa situazione di fondo: lo sgretolamento dell’uomo borghese, della concezione unitaria e coerente che egli ha di se stesso. E se tutti e tre smascherano questo sgretolamento e arrivano a scoprire l’agente [ ... ] le vie lungo cui si manifestano sono differentissime [ ... ] Proust e Joyce partono da due poetiche del tutto e inconsapevolmente parallele, ma arrivano a forme e risultati di poesia tra di loro lontanissimi E quanto a rapporti e influssi concretamente dimostrabili, è certo che Jovce tiene conto di Freud, mentre Proust, se anche non lo ignora del tutto, certo non ne applica direttamente le dottrine. (3)

Ed era importante citare queste parole, perché la rete di rapporti, di allusioni, di intersezioni, che costituisce il discorso di Debenedetti potrebbe indurre a vedere sfumate distinzioni che sono invece nettissime. Proprio questo, anzi, rende possibile, pur a costo di un qualche schematismo, isolare, almeno in un primo momento il discorso intorno a Joyce – e cioè estrapolare (pur avendo sempre presenti la ricchezza e varietà e coerenza del discorso globale) le indicazioni particolari che Debenedetti offre.

E la prima riguarda l’ “epifania” joyciana, un elemento al quale Debenedetti attribuisce giustamente straordinaria importanza, fino a farne il dover essere del romanzo moderno (un romanzo che – ed è qui il senso dell’intero libro – può apparire naturalistico ma che dal naturalismo, consapevolmente o inconsapevolmente, si distacca sempre di più). Al punto, anzi, da farlo cominciare, il romanzo moderno, con una pagina del primo, incompiuto romanzo di Joyce, Stephen Hero (riscoperto di recente, e pubblicato in Italia col titolo: Stefano Eroe, 1950, e Le gesta di Stephen, 1974) – la pagina, da lui riprodotta, in cui Stephen cammina, in preda a tumultuosi pensieri, per Eccles’ Street (che diventerà poi la strada di Leopold Bloom in Ulysses), osserva una scena banale (un giovane, una ragazza), sente un frammento di dialogo: « Questa banale scenetta lo fece pensare alla possibilità di raccogliere molti di quei momenti in un libro di epifanie ». (4) Notiamo fin d’ora, scrive Debenedetti, che le “epifanie” costituiscono il metodo narrativo di Joyce: « Ci importa questo fenomeno di seconda vista per cui la cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualche cosa d’altro ». (5) E il critico spiega con le parole stesse di Joyce che cosa intende: « Per epifania Stefano intendeva un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso, o in un gesto, o in un giro di pensieri, degni di essere ricordati ». (6) E ricorda le parole che Stephen rivolge all’amico Cranly a proposito dell’orologio della Dogana:

Non puoi immaginare gli sguardi che gli do, quasi che il suo fosse il frugare nel buio di un occhio spirituale il quale cerca di mettere a fuoco la propria visione, e nel momento che questo fuoco è raggiunto ecco l’oggetto è epifanizzato. E’ appunto con l’epifania che si tocca il terzo, supremo stadio della sua bellezza. (7)

Che è lo stadio, dirà più avanti, in cui

l’anima, l’identità di un oggetto balzano verso di noi, fuori dai veli dell’apparenza. L’anima dell’oggetto più comune, la struttura del quale ha preso così forma, è stata così calettata, ci appare radiante. L’oggetto compie la sua epifania. (8)

E la comparsa di questa visione. dell’oggetto che sembra a Debenedetti – in uno dei momenti decisivi del libro – identificarsi con la “grande svolta” compiuta dal romanzo del Novecento. Se nel romanzo tradizionale gli oggetti contano « per la loro funzionalità nella vicenda o nella costruzione del personaggio », (9) in Joyce, invece (già nella “scenetta” in cui Stephen scopre « qualcosa che ci riguarda tutti [ ... ] una verità universale »),

gli oggetti non appaiono come propulsori o testimoni o fautori nella meccanica dell’azione [ ... ] Le cose dicono qualcos’altro da ciò che è scritto nella loro immediata presenza; quell’altro, quel segreto, quella realtà seconda è la sola qualità che le rende degne di essere raffigurate. A noi importa che si senta l’esigenza di rivelare quella realtà seconda. E’ il tema nuovo del romanzo. (10)

E dopo aver sottolineato l’affinità tra le epifanie joyciane e le “intermittenze del cuore” di Proust, Debenedetti, gettando così luce non solo su Joyce e Proust ma sull’intero romanzo moderno, scrive che

i due grandi romanzieri che inaugurano il romanzo del Novecento e gli danno l’impronta (fino a loro si erano vedute repliche del romanzo precedente) perseguono, per vie diverse, analoghi metodi di conoscenza della realtà con cui tessono e costruiscono le loro narrazioni [ ... ] Le une e le altre (epifanie e intermittenze) stabiliscono che la rappresentazione delle cose ha valore, interesse poetico narrativo solo in quanto quella rappresentazione riveli la quiddità o l’anima infusa nelle cose, come avrebbe detto Joyce, il segreto che costituisce la verità permanente delle cose, come avrebbe detto [ ... ] Proust. (11)

Ben si rende, conto, il critico, dei problemi che questo metodo (per cui tutto l’Ulisse è un’epifania) comporta sia per Proust sia per Joyce, se il romanzo non deve essere come una successione di fotogrammi immobili. Anche sulla scorta di Harry Levin ma andando oltre, Debenedetti parla allora di una « struttura aperta, cioè soppressione del meccanismo, del congegno della vicenda » e di « tessitura chiusa, cioè creazione di un luogo e di un tempo che servono di supporto al succedersi delle epifanie, o addirittura dramma intrinseco di queste epifanie, di questi attimi che si mettono a fuoco fino a scoprire la loro anima e identità sostanziale ». E ancora:

Anche nell’Ulisse noi troviamo la soppressione fondamentale dell’intreccio, sostituito da un muoversi e mutare del tempo e dello spazio: cioè dal succedersi delle ore o dei luoghi di una giornata del protagonista Leopold Bloom. Tutto questo a beneficio di una fortissima straripante costellazione di epifanie, perché anche ciascuno degli episodi dell’Ulisse è un’epifania di epifanie. (12)

E va detto che raramente è dato di trovare un’analisi altrettanto lucida e penetrante del “metodo” joyciano, e tanto più che esso è messo in rapporto (e non meccanicamente) con la narrativa e la cultura europea. Si veda ad esempio la connessione istituita con Sartre e Husserl, con l’idea del conoscere come “esplodere verso”, correre di là da sé, intenzionalità in quanto esistere della coscienza come coscienza d’altro da sé:

Nelle concezioni di Proust e Joyce c’è l’idea di un esplodere verso. Proust e Joyce paiono supporre un’intenzionalità anche degli oggetti, che devono esplodere verso di noi, parlarci e quasi riconoscerci nel momento stesso che si fanno conoscere. Un loro prendere coscienza di noi che li guardiamo, che vorremmo esplorarli. E tutto questo presuppone un mondo sconosciuto che esiste dietro i segni del mondo visibile. Il compito è di dissigillare quei segni. Il mondo che interessa è quello che sta nel retroscena del visibile: di quel visibile, che la narrativa precedente si è preoccupata soprattutto di inventariare [ ... ] Ora c’è anche un ignoto del personaggio, simile a quello degli oggetti che aprono a Proust la loro scorza o si epifanizzano per Joyce.(13)

Parole, queste, che si allacciano a uno dei grandi temi, forse il più caro a Debenedetti (e lo confermeranno i saggi raccolti nel volume già citato), di questo lavoro, e cioè quello del personaggio-uomo – tema che percorre l’intero libro e di cui anche Montale sottolinea l’importanza: « Secondo Debenedetti non si tratta di crisi di un genere letterario, ma di “sciopero dei personaggi”. Le figure create dai grandi naturalisti, i personaggi maggiori o minori del Verga che conta, hanno ancora uno stato civile, un’identità. Appartengono al loro mondo anche se non sono sempre in sintonia con quel mondo. Ma i burattini di Falsi monetari, gli eroi borghesi dell’Ulisse, sono già sfuggiti dalle mani del loro autore » . (14)
E’ naturale che del problema si tratti molto a proposito di Pirandello, ma in realtà se ne parla a proposito di tutti gli autori del Novecento, da Tozzi a Joyce, e ciò perché questo è, per il critico,

il fatto centrale di tutta l’arte moderna, che, consiste in una metamorfosi del personaggio “uomo” e nel nuovo, drammatico confronto che a questo personaggio si impone col proprio destino [ ... ] personaggio che [ ... ] sembra aver disimparato a vivere, nel senso che egli si trova in uno stato cronico di perplessità circa il proprio essere, di dubbio o addirittura di incredulità circa il proprio potere di comunicare con gli altri e col mondo [ … ] (15)

- parole dietro le quali sembra di poter scorgere Amleto, o il Prufrock eliotiano. E più avanti, dopo aver esaminato tale personaggio attraverso E.M. Forster (i cui Aspetti del Romanzo sarà lui a far pubblicare dal “Saggiatore” nel 1963) – e andrà detto che c’è in Debenedetti una conoscenza rilevante di cose inglesi e americane e che il solo romanziere di cui qui si avverte la mancanza è Henry James (presente comunque attraverso le teorie narrative di Percy Lubbock, a lui ispirate), più avanti, dicevo, aggiunge che questo homo fictus (contrapposto all’homo sapiens) risulta “prezioso” come indizio della necessità, da parte dell’arte moderna, e in specie della narrativa,

di disoccultare qualcosa di cui il naturalismo non aveva avvertito, o solo pochissimo la presenza, tanto che si era potuto imitare a una descrizione dell’uomo visibile, [ ... ] mentre il romanzo moderno è tormentato (come si è già visto in Tozzi e in Pirandello) dal bisogno di epifanizzare quell’uomo, di scoprire l’invisibile che si annuncia attraverso il visibile, ma insieme cerca di sottrarsene.(16)

E sarebbe utile seguire Debenedetti nel suo discorso sull’imbruttirsi del personaggio (p. 440 sgg.), sulla deformazione, legata all’espressionismo, operata da « quell’oltre, il di là di’ se stesso che abita dentro il personaggio in una simbiosi pericolosissima, perturbatrice ». Ma preme sottolineare, qui, che la trattazione del romanzo non poteva non fermarsi a lungo sulla psicanalisi di Freud ma anche di Jung, alla quale va il merito di aver scoperto

la dualità di lo e Altro entro la personalità apparentemente ente unitaria dell’uomo [ ... ] L’arte non fa che constatare, in un momento successivo, gli effetti dolorosi di quel dualismo divenuto discorde, i drammi che, appunto, si possono leggere, tra l’altro, nel vistoso sintomo della deformazione fisionomica patita dai personaggi Freud è giunto a scoprire che la causa, l’agente che determina il sintomo cioè l’Altro che dal di dentro si scatena contro l’Io: ha dato un nome a questo Altro. l’ha chiamato Inconscio. (17)

E ancora:

In sostanza, la nascita della psicanalisi mette in evidenza, con parecchi mesi di anticipo sull’arte, che è, cominciata una epoca nuova: quella in cui la coscienza comincia a svilupparsi in senso verticale, anziché orizzontale. E che altro abbiamo visto finora, nel nuovo romanzo, se non la ricerca, appunto, di un oltre, l’esigenza di epifanizzare un oltre, di aprire gli oggetti e i personaggi come scorze perché si renda visibile un oltre, che non si può raggiungere se non esplorando in senso verticale?(18)

Il discorso sulla psicanalisi sostanzia e, sostiene, com’è giusto, quello su Italo Svevo (oggetto del corso 1964-65). Ma questo è anche discorso su Joyce e soprattutto sul monologo interiore. Altri, in questo Convegno, ha detto su Debenedetti e Svevo e sulle pagine, a mio parere straordinarie, che il critico dedica alle opere di uno scrittore compreso tardi, come Joyce, dalla critica perché

Svevo, coi suoi romanzi, presenta l’immagine dell’uomo che la nuova narrativa cerca e persegue […] Anche i suoi romanzi, come tutti i romanzi moderni, sono romanzi interrogativi. Interrogano per cercare, forse invano, di sapere, il significato della vita, il senso del destino di un uomo dissociato, dilacerato. (19)

Qui, in ogni modo, vorrei osservare che mentre le notazioni generali su Svevo riportano comunque a Joyce, Debenedetti esamina a fondo (specialmente attraverso la ben nota conferenza joyciana di Svevo, riportata nel volume di Introduzione a Joyce) il rapporto, anche personale, tra i due scrittori e soprattutto il rapporto, e la differenza, tra le due espressioni narrative (ciò che vien fatto anche a proposito di Svevo e Proust). E anzi, sorvolando qui sull’esposizione dei legami personali e sull’affinità che Svevo scorge nel loro destino, vorrei dire che l’intera discussione di Debenedetti sul monologo interiore di Joyce viene svolta attraverso Svevo (e attraverso la negazione che Svevo lo usi), in un davvero affascinante insistere, da parte del critico, sul perché Svevo, parlando di Joyce, non parli mai di monologo interiore (e invero si direbbe che il “narratore” Debenedetti veda, jamesianamente, il personaggio Joyce attraverso la coscienza del personaggio Svevo). Debenedetti si vale, nella sua ricerca, di altri critici, di altre testimonianze: Pound, Valéry Larbaud, Percv Lubbock, Rodolfo Wilcock. Si vale dello stesso Joyce che, attribuendo a Les lauriers sont coupés di Dujardin la propria fonte, dice, che ivi

il lettore si trova immesso, fin dalle prime righe, nel pensiero del personaggio principale, e lo svolgimento ininterrotto di questo pensiero, sostituendosi alla forma abituale del racconto, ci informa di quello che il personaggio fa, e di quanto gli accade. (20)

Ma si veda come subito Debenedetti intervenga per rilevare, giustamente, che quelle parole si attagliano più a Dujardin che a Joyce, il quale

sa che quanto risulta alla coscienza solo in parte esprime ciò che esprime, mentre in parte simboleggia in modo irriconoscibile ciò che non può diventare conscio. La genialità di Jovce consiste, proprio nell’aver creato i simboli di un inconscio altrui, che per lui viceversa era noto, e nell’avere serbato intatta la nativa pregnanza di quei simboli, la loro inconsapevolezza di quanto simboleggiano. (21)

Ma Debenedetti si vale soprattutto di Svevo, di quello che dice e di quello che non dice, e attraverso la spiegazione del perché non dice, gradualmente definisce (siamo di fronte ad una ricerca in atto) il monologo interiore. Si veda la, prima spiegazione:

Una poetica diversa da quella del naturalismo Svevo non era arrivato a rendersela esplicita, anche, se di fatto la praticava nelle proprie opere [ ... ] su di essa commisurava anche i romanzieri della propria fase, compreso se stesso e naturalmente anche Joyce. (22)

E più avanti:

Svevo si trova davanti a un elemento che, per un seguace del naturalismo, rappresenta un’incognita: il “flusso di coscienza”, cioè il monologo interiore, cioè l’onniscienza di ciò che avviene nel personaggio di un romanzo dove il personaggio autobiografico è vicariato da altri personaggi rappresentati col metodo dell’impersonalità. Questo è il vero nodo che si presenta a Svevo [ ... ] tra l’altro, egli ha l’aria di ignorare, o di voler ignorare, persino il nome del procedimento che tutti, in quegli anni, avevano ormai imparato a chiamare “monologo interiore” […] Egli giudica il Dedalus coi criteri del naturalismo. (23)

Debenedetti insiste su questa “rimozione” da parte di Svevo – ma l’insistenza, secondo il procedimento adottato, gli serve per la sua ricerca. La rimozione avviene perché Svevo « esorcizza l’aspetto sconcertante, alogico, privo di nessi del monologo interiore; lo naturalizza, ne fa la trascrizione naturalistica, per così dire, in una confessione organizzata e deliberata ». E ancora:

Il personaggio che entra nel monologo interiore è abbandonato a se stesso: l’autore non può più farci nulla, non sa nulla di ciò che egli dirà. A una simile impostazione Svevo è, talmente refrattario che, secondo lui, quei personaggi monologanti “comunicano direttamente col lettore”. Ora, nelle sue caratteristiche essenziali, il monologo interiore prescinde completamente dalla comunicazione: ignora, o addirittura sopprime, qualsiasi presenza di testimoni [ ... ]
    Tutta la difficoltà poetica è di creare il monologo come se il personaggio si trovasse senza spettatori, dargli tutta l’autenticità del flusso di coscienza non arginato da nulla e da nessuno: quegli spettatori abusivi assistono allo svolgersi in atto del monologo, ma vi assistono come se fossero stati chiamati dopo, e non durante. (24)

E davvero non saprei chi abbia meglio e più finemente e profondamente definito il procedimento. Ciò che è vero di quella oggettività e impersonalità che va ben oltre, come Svevo per Debenedetti non vede, quella dei naturalismo:

    La suprema oggettività lodata da Svevo è, appunto quella raggiunta dal monologo interiore: a guardare le cose in faccia, Joyce è oggettivo, non ha bisogno di intromettersi, perché arriva, da artista, a identificarsi proprio con ciò che sfugge alla vista e alla censura, allo sguardo esterno e interno, cioè, l’inconscio dei personaggi.
    Il monologo interiore mette a contributo tutti i dati, contenuti e processi che emergono attraverso l’analisi freudiana: ma con qualche cosa di più, e che appartiene in proprio all’artista. Perché l’analisi freudiana disocculta l’inconscio di un essere reale, il quale si riscopre attraverso [ ... ] la confessione psicanalitica. Il monologo interiore è la mimesi di quella confessione rilasciata da un essere immaginario, che non si confessa per bisogno di guarirsi, perché un medico lo induce a farlo. Se la confessione psicanalitica è il vero reale e storico di ciò che esiste nella psiche di un paziente in carne e ossa, il monologo interiore è il verosimile, in un senso artistico e creativo, di ciò che avviene in un essere di immaginazione. Per constatare i più perfetti raggiungimenti di oggettività da parte di Joyce, Svevo deve portare ad esempio quei raggiungimenti del verosimile psichico. E perche’ non dice, non ammette che, la via è il monologo  interiore? (25)

Queste pagine del corso del 1964-65 contengono numerose altre osservazioni sulla storia e sulla natura del monologo interiore e dunque sull’arte di Joyce – e per esempio, a chi, come Wilcock, parla della mente come della zona da cui scaturisce il flusso, Debenedetti risponde che

il flusso non può considerarsi pensiero, perché il pensiero è per definizione sintattico, mentre il flusso è indifferente alla sintassi, la sua necessità e verità non è controllabile in base, al rigore mentale dell’enunciazione, all’osservanza dei nessi [ ... ] lo splendido paradosso del monologo interiore è di produrre in una materia che somiglia a quella del pensiero qualcosa che si sottrae alle categorie del pensiero: un vissuto, nell’attimo in cui lo si vive e prima che la facoltà di pensare intervenga a distruggerne l’apparente anarchia e capricciosità. (26)

Il che consente a Debenedetti di scorgere l’assenza di vero monologo interiore, oltre che in Svevo, in Virginia Woolf, dove a suo avviso assistiamo a una intensificazione più “selettiva”, più “infinitesimale” del romanzo tradizionale; e altresì in Dorothv Richardson e in Faulkner. Giudizi in qualche misura discutibili ma pur sempre stimolanti; come lo sono le osservazioni sulla differenza tra monologo interiore e soliloquio, e, soprattutto, quelle sulla capacità dei monologo interiore di rappresentare il sogno:

il monologo interiore allinea figure, episodi, sconnesse sconnessioni quali appaiono nel sogno notturno, conferisce ad essi la medesima densità e ignoranza della loro portata simbolica di mascherature dell’inconscio. (27)

Così come, altrove, quelle su Finnegans Wake, « il romanzo onirico per eccellenza […] che potrebbe essere (non siamo ancora in grado di deciderlo) il supremo capolavoro e il supremo e straordinariamente splendido disastro della narrativa moderna ». (28)
Ma la mia voleva essere soltanto una prima esplorazione di un tema che merita ulteriore approfondimento – e la proposta, insieme, di una antologia che raccolga le pagine joyciane di Debenedetti (e non solo quelle, naturalmente, che si sono qui in parte citate) e che costituirebbe, pur nell’oceano bibliografico di cui dicevo all’inizio; un vero e proprio faro critico cui riferirsi nel difficile viaggio nell’opera di James Joyce. E tanto più che tali pagine sono sostanziate da una dimensione storica (in cui si scorge con chiarezza la cifra desanctisiana) che è generalmente assente nella critica joyciana e che è invece tra i contributi maggiori che gli studi italiani possono dare (e si veda il libro, già ricordato, di Franca Ruggieri). Dimensione cui s’aggiunge un’altra lezione che Debenedetti, critico e professore, impartisce: la lezione comparatistica nel senso più alto e più ricco del termine, e cioè nel senso di una critica comparata che va molto al di là dello studio di particolari rapporti ed influssi per individuare I’unità, e l’intersecarsi, delle diverse tradizioni letterarie e linguistiche nel corpo della letteratura. La quale, malgrado i molti nessi con la cultura scientifica che Debenedetti è tra i primi in Italia a riconoscere, rimane sempre al centro del suo discorso: per questo « incomparabile virtuoso di testi », come lo definisce Montale, « immergersi nel vasto mare della letteratura restò sempre un fatto vitale ». La letteratura, per usare termini suoi, è la sua vocazione e il suo destino.

NOTE

1 G. Debenedetti, Il personaggio-uorno, Milano, li Saggiatore, 1970, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti. 1971.
2 G. Debenedetti, Il romanzo del Nocevento, cit., p. 529.
3 Ibid., p. 536.
4 Ibid., p. 288.
5 Ibid.
6 Ibid.
7 Ibid., p.. 289.
8 Ibid., p. 290.
9 Ibid., p. 291.
10 Ibid., p. 295.
11 Ibid., p. 300.
12 Ibid., p. 303.
13 Ibid., p. 305.
14 E. Montale, Presentazione di: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. XII.
15 Ibid., p. 417.
16 Ibid., p. 439.
17 Ibid., p. 463.
18 Ibid., p. 465.
19 Ibid., p. 517.
20 Ibid., p. 597.
21 Ibid., p. 598.
22 Ibid., p. 569.
23 Ibid., pp. 569-570.
24 Ibid., p. 574.
25 Ibid., p. 583.
26 Ibid., p. 604.
27 Ibid., p. 616.
28 Ibid., p. 439.