Debenedetti e il Novecento

di Walter Pedullà

Il Novecento letterario di Giacomo Debenedetti comincia con un cazzotto. Coi cazzotti futuristi dati o minacciati da Marinetti? No, col cazzotto che, secondo il critico, all’improvviso il protagonista dei romanzi di Svevo si sente dare dalla vita. Era una reazione imprevedibile, fuori da ogni regola, comunque contraria alla legge meccanicistica di causa ed effetto. Fu il primo segnale della fine del naturalismo e da esso si poteva intuire che stava nascendo un secolo violento e capace di ogni sorpresa.

La letteratura del Novecento era avvertita. Quel cazzotto sveviano cambiava il suo destino. D’ora in poi la vita si sarebbe messa a dare ai personaggi colpi duri e fulminei che solo molto più tardi si sarebbero potuti giudicare non gratuiti. Cosa avevano di nuovo? Essi arrivavano non dall’esterno, donde erano sempre arrivati numerosi (e certo i conflitti sociali e politici non cessavano di darli), bensì dall’interno, cioè dall’inconscio. E’ con Svevo che l’inconscio comincia a suonarle all’uomo del Novecento. E d’ora in poi sarebbe stata questa la musica, un’altra musica rispetto a quella così armonica o sinfonica dell’Ottocento. Oltre che all’occhio, attenti dunque all’orecchio: si erano rotti accordi che sembravano eterni.

Il cazzotto di Svevo inaugura la storia di personaggi che si colpiscono da sé senza sapere perché lo fanno. Alcuni vanno k.o., a cominciare da quel kappaò che è il suicidio di Alfonso Nitti. E lui il primo ad averlo subito così, ad esserselo inflitto in quel modo.

E di Svevo il primo micidiale cazzotto alla struttura della narrativa dell’Ottocento. E così inaugura quella struttura narrativa del Novecento nella quale si procede “a pugni” in testa.

Ecco la nuova struttura: la vita per manifestarsi aveva necessità di emozioni forti e inattese. Inutile stare in guardia: la vita colpisce duro dove e quando uno meno se l’aspetta. Si sarebbero viste le stelle, cioè ci sarebbero state delle rivelazioni. La vita avrebbe svelato il senso solo a chi aveva delle folgorazioni. Un fulmine a ciel sereno, e si sarebbe potuti rimanere bruciati per sempre. C’è pure chi rinasce a seconda vita, quella che conta, quella che esplode a ciel sereno: l’epifania di Joyce, un narratore che conta molto, secondo Debenedetti, per la nascita della struttura narrativa del ’900.

Forse a Debenedetti, che considera Pirandello e Tozzi i primi narratori italiani moderni, non sarebbe piaciuto sentir dire che il Novecento comincia con Svevo, con un autore cioè al quale nel suo primo saggio sveviano aveva mollato il cazzotto di un giudizio che stende sino alla conta finale « piccoli romanzi di un grande narratore ». Invece è solo l’Inizio di un incontro di pugilato che avrebbe avuto tante altre riprese.

Quando Debenedetti tiene il primo corso di lezioni, all’Università di Messina, il tema è Svevo. Ed è Svevo anche l’ultimo tema delle lezioni universitarie di Roma. Si potrebbe dire che muore parlando del Vecchione di Svevo. Usiamola ancora la parola più pregiata del vocabolario di Debenedetti: destino. C’è il destino nel rapporto conflittuale che il critico intrattiene, fino alla morte con Svevo. Sul narratore ebreo triestino Debenedetti scrive il suo saggio più bello, certamente tra i più belli su un autore, e insieme il più avaro verso la bellezza di una narrativa che sa grande. Il più “vero” nell’analisi e il più “falso” nel giudizio. « Un grande narratore », pensava ad alta voce qualche mese prima di morire., «eppure… ». Un rovello che dura tutta la vita di Debenedetti. Un cazzotto di Svevo a Debenedetti.

C’era stato un momento in cui Debenedetti si era identificato col narratore triestino. L’intermediario era stato Otto Weininger, che in Sesso e carattere aveva descritto i connotati fondamentali dell’ebreo. Nella sua descrizione Debenedetti aveva riconosciuto i personaggi sveviani e indiret-tamente il loro autore. Com’era l’ebreo di Weininger e di Svevo interpretato da Debenedetti?

[ ... ] diseredato di ogni felice istinto del vivere e privo di abbandono, a paragone col tipo antitetico dell’ariano; inoltre una instabile molteplicità del fondo morale lo renderebbe plastico, disponibile e deformabile a tutti gli urti; femminilmente passivo [ ... ] (1)

Se questo è l’ebreo come conferma Debenedetti, è così anche il critico, che è ebreo quanto Weininger e Svevo. Plastico, deformabile, passivo come una donna: in attesa che arrivi l’evento forte che lo conquisti, e gli restituisca, sia pure per poco, il piacere di vivere. Ecco: un uomo in disponibilità. Come era stato Tommaseo, il Tommaseo del primo corso universitario romano di Debenedetti.

Anche Debenedetti è un uomo e un critico e uno scrittore “disponibile” a qualcosa che può arrivare da un momento all’altro e da un luogo imprecisabile. Come i1 cazzotto con cui si manifesta la vita a Svevo, agli ebrei, al personaggio di romanzi del Novecento, compresi quelli di Kafka, e non escluso il personaggio del cinema che è l’ebreo Charlot. E tuttavia Debenedetti continua a dire di no a Svevo. Il “reticente” Schmitz si era nascosto sotto lo pseudonimo di Svevo e il critico non glielo perdona. Poteva creare un mito, il segno della grandezza proverbiale, e non aveva osato.

Se si decide di cominciare il nostro secolo con lo scrittore più caro a Debenedetti, cioè con Proust, la fisionomia del Novecento non cambia. Proust dinanzi alla crisi del naturalismo cosa fa? Propone un’operazione chirurgica: che è un’azione radicale quanto il cazzotto di Svevo. E’ scesa, dice Proust, una cataratta sull’occhio dello scrittore naturalista ed essa va eliminata, se si vuole tornare a vedere chiaro. Ovviamente non piu come i naturalisti, che col loro occhio hanno già visto quanto si poteva, ma diversamente.

Quando il trattamento è finito, ci dicono: Adesso guardate. Ed ecco che il mondo, che non è stato creato una volta per tutte, ma lo è tutte le volte che sopraggiunge un nuovo artista, ci appare – pur così differente dall’antico – perfettamente chiaro. (2)

Parola di Proust, il narratore che è sempre il primo e massimo modello di conoscenza e di scrittura per Debenedetti. Che sul romanziere francese ha visto più chiaro di tutti. Sarà come un cazzotto per lui avere la sorpresa di capire che le proustiane intermittenze del cuore sono sorelle naturali delle epifanie di Joyce. Anzi, pure l’imprevedibile cazzotto della vita di Svevo apparteneva alla stessa famiglia. Intermittenza, epifanie e “cazzotti ” a tradimento sono nomi diversi per indicare “probabili” movimenti della psiche, o della materia. Si chiami ironia della sorte quella per cui Debenedetti vide due grandi narratori dove tutti ne vedono tre. Una cataratta sull’occhio di Debenedetti?

Proust per vedere chiaro nell’uomo va a cercare la crisi nell’organo privilegiato dei naturalisti, l’occhio, e ci fa sopra dell’ironia, strizzando il proprio occhio. Debenedetti ricorda l’episodio proustiano dello scrittore naturalista, il quale, essendogli stato domandato cosa facesse al ricevimento mondano, rispose arrotando la r: « Osservo ». Proust comincia così anche lo smascheramento di quell’osservazione naturalista, che verrà derisa e dileggiata per tutto il Novecento e che sarà il bersaglio preferito di tutte le correnti letterarie del nostro secolo, non esclusa la replica neorealista. Fanno ormai ridere i naturalisti per come ricordano. Ci voleva un po’ di umorismo e parecchio sarcasmo per rendere ridicola e far fuori la cultura che sino allora aveva trionfato. Dunque anche il riso come terapia piu radicale, la comicità come operazione al cervello. Come dire una chirurgia che va sempre più a fondo.

Il Novecento comincia anche quando gli scrittori con gli occhi e con la mano e con la bocca deformata dal riso, aggrediscono e sbeffeggiano i naturalisti. Debenedetti, che non è un violento e che non ride mai, si ferma a guardare e, da “vecchio”, ha una rivelazione: la sua operazione di cataratta, il suo vedere chiaro durante le lezioni sul romanzo del ’900. Chi aveva visto più chiaro all’inizio del secolo sono stati gli espressionisti. E l’occhio destro quello malato di cataratta? Ebbene cambiamo occhio, proviamo con l’occhio sinistro, quello della psiche, dell’inconscio, dell’altro. Così si guarda, dice Debenedetti, questo è il vero modo di vedere del Novecento; è con l’occhio sinistro che si ha la visione di ciò che siamo nel profondo. O almeno quello che siamo in un certo periodo.

C’è un periodo in cui quasi solo gli scrittori espressionisti vedono chiaro, sono i soli che non sono malati di cataratta. Invece soffrono di cataratta i critici che continuano a usare nel Novecento i metodi di ricerca del positivismo e dei suoi epigoni. Dunque o si è critici capaci di analizzare la psiche degli autori o si è, critici che non vedono per cataratta culturale e ideologica. Al critico del Novecento tocca andare oltre quello che si vede “a occhio nudo”.

Il sondaggio critico: mai tale termine ha indicato meglio un’indagine che ha l’obbligo di cercare in profondità. Scafandri , tute, bombole di ossigeno e ogni aggiornata attrezzatura tecnica, nonché molto coraggio e un ottima vista per paesaggi abissali che difendono con mille insidie il segreto profondo. Debenedetti ha l’occhio chiaro per vedere bene nella psiche, nell’inconscio, nell’ “altro”. il suo destino, ma è anche il suo progetto, che maturerà negli anni del Romanzo del Novecento. E dalla coincidenza di progetto e destino nascono i capolavori, compresi quelli della sua critica.

Anche sull’occhio sinistro però scende la cataratta. Debenedetti non rinuncia mai a vedere chiaro quando cala il buio anche sulle più luminose visioni del mondo e della letteratura. Lo sa bene che la vita è li pronta a dare un cazzotto sulla faccia di chi non sta attento a ciò che gli succede intorno. Lui sta in disponibilità ogni giorno su quotidiani e riviste con la critica militante; o almeno su un anno ogni dieci circa, cioè nel ’27, nel ’37, nel ’47 e nel ’57, e suppergiù nel ’17, quando si preparava al “Primo tempo”. Ogni dieci anni va a controllare se la letteratura italiana vede bene. Prima si tenta l’operazione chirurgica; se non riesce, si guarda con l’occhio degli scrittori nuovi, italiani o stranieri, o classici. Lo scrisse nel ’45 a proposito della “cataratta” fascista, che « non poteva vedere » il nuovo, e nemmeno il vecchio.

Dall’idealismo crociano al marxismo, dal simbolismo all’arte moderna, dalla macrofisica alla microfisica, da Freud a Jung, all’antiromanzo. Non appena la vista si appanna e una cultura fatica a vedere le cose, nessun dubbio: rivolgersi all’ “oculista”, al nuovo artista. Se è grande, creerà una nuova immagine del mondo. Tozzi ha visto meglio “con gli occhi chiusi”. La storia della letteratura si fa con la chirurgia proustiana. Inutile tenersi l’occhio malato. Serve l’operazione, serve la rivoluzione. Magari la rivoluzione inconsapevole degli espressionisti; quelli che cambiarono occhio. E Svevo? Lui ha cambiato modo di pensare, è nel suo cervello che si produce il mutamento. Il suo Zeno ride di tutto, a cominciare dal padre. Bisogna cominciare col far fuori il padre, magari deridendone la “religione”, come quella notte in cui il genitore morì dopo aver colpito il figlio che tenta di abbracciarlo. Uno schiaffo del padre che è un cazzotto della vita.

« Rivendichiamo la ricerca della paternità. » Così rispondono i perso-naggi di Proust a chi domanda perché scioperano. Si sono accorti che il padre è assente, forse partito o persino morto. Si è perduto il modello, dice Savinio, che non sta molto a piangere sopra la scomparsa del padre. Sono in conflitto col padre anche Kafka, Svevo, Tozzi, Gadda e tanti altri che scrivono all’inizio dei Novecento. Una vera e propria epidemia. Una malattia però dalla quale ha derivato salute molta narrativa del primo Novecento.

E dall’inizio del secolo che circola questa dichiarazione di morte presunta. Anzi, pure da prima, a sentire Wagner. Wotan abbandona il mondo e lascia orfani gli uomini. Orfani di Dio, rivela Nietzsche; orfani dei padre terreno per constatazione assai frequente, orfani di modelli e di criteri con cui riconoscere i valori, e quindi orfani della Verità, l’astratto supremo che d’ora in poi non sarà piu concreto. E poesia di orfani quella che Debenedetti trova nell’ermetismo, il nipote italiano del simbolismo. Orfana è l’epica dell’esistenza, figlia ribelle dell’epica della realtà.

La condizione umana nel Novecento? Debenedetti non ha dubbi: è la condizione dell’orfano. Una generazione di parricidi imperversa nella prima metà del secolo. Finalmente sono stati tagliati i legami, aperta è la via alla vita più libera e disponibile. Qualcuno si accorge di essere stato castrato, e la vendetta e il rancore sono piccole consolazioni: il Tozzi di Debenedetti si accanisce sulla memoria del padre dilapidando l’eredità. Le metafore ermetiche diventano assolute: disposte a tutto e negate al senso, che il padre s’è portato nella tomba o in cielo. Altri sentono rimorso e persino nostalgia. Savinio chiederà nella maturità al padre di tornare: « Perché non torni? ».

Debenedetti, come i personaggi di Proust, rivendica alla propria attività “la ricerca della paternità”. Lui ha avuto sempre bisogno d’essere tenuto per mano e guidato da un padre, di colui che sa la Verità. Se è assente, egli continuerà sempre a cercarlo. La ricerca di Debenedetti è una teologia senza dio: nella sua anima o psiche c’è un posto vacante da occupare. Bisogna cercare chi merita di stare tanto in alto. Ora magari sta tanto in basso, ma ci sarà l’epifania, e ci sarà la rivelazione del “divino”, della Verità, nell’umano più umile. Palazzeschi è stato chiaro con Debenedetti: ormai il “centro è fuori del centro”, come dire che ogni luogo è buono per ospitare il trono del padre. Può tornare in ogni momento. Sarà una lunga veglia, un’assidua vigilanza in tutti i sensi.

E’ De Sanctis per Debenedetti il padre della critica. Quale De Sanctis? Quello dei Saggi critici. Anzitutto, o prima, il vero creatore del “saggio”, un genere letterario di cui ha scoperto la struttura più efficace ai fini della letteratura (al servizio dell’altrui letteratura ma anche della propria, del critico, che un problema di “ispirazione” ce l’ha anche lui). E quello della Storia della letteratura italiana, ed il De Sanctis che aveva messo nella letteratura tutta la Storia che essa poteva comprendere e contenere. La Storia: un modello. La Storia: qualcosa con cui fare sempre i conti. Se la si sa raccontare bene, ci guadagna molto anche la letteratura. Dai Saggi critici al Romanzo del Novecento. Una storia (è possibile ancora una storia della letteratura), ma non deterministica. L’orfano della Storia del De Sanctis racconta (critica narrata) una “storia” che resta “aperta”. Il modo migliore di essere fedele a un padre “storicamente” morto.

Era assai diversa la storia del nuovo secolo: la si vedeva diversamente dopo la proustiana operazione chirurgica alla cataratta. Tradì Debenedetti il suo maestro italiano per preferirgli il suo rivale in amore, cioè Wagner, fortunato amante di Matilde. Quando scelse Wagner, esplicitamente nelle lezioni su Verga, Debenedetti “superò” con un colpo solo De Sanctis e Verdi, avversari nella cultura e nella musica dell’allievo di Nietzsche. Un Nietzsche cui può averlo guidato D’Annunzio ma che Debenedetti avverti non come maestro di retorica. Capì che il filosofo tedesco stava dando al nuovo secolo lezioni che erano all’altezza di quella di De Sanctis per l’Ottocento. Aveva avuto più futuro Nietzsche, aveva più presente. Più amica è la verità. Nonché la crisi mortale della verità, di cui si è orfani. Orfano di Croce Debenedetti divenne quando il filosofo napoletano era ancora in vita. Si parlò di “parricidio” a proposito dell’intervento con cui Debenedetti polemizzò col maestro sull’importanza della scienza.

Gobetti presenta il giovane Debenedetti come “la rivelazione della critica post-crociana ». Debenedetti scrive il saggio sullo stile di Croce, che il filosofo sceglie per un’antologia critica sulla sua opera. Il dilemma giovanile: Croce o Gentile? Meglio il Breviario. Ma allora quando comincia il “post-Croce” ? Come eresia comincia quasi subito, quando cioè tocca confrontare l’Estetica con la poesia e la narrativa del Novecento. O prendere o lasciare, l’estetica crociana non lascia spazio a eresie o miscredenze e allora tocca essere “atei”.

Per oltre vent’anni Debenedetti prova a lungo a far entrare i “suoi” autori dentro il parnaso crociano. D’Annunzio, Pirandello, Montale, Saba, Palazzeschi, Bontempelli, Moravia, non possono stare dentro e insieme non possono stare fuori. Croce non ci sente da quest’orecchio, ha poco orecchio per la musica moderna e ancora meno per il suo libretto. Per ottenere il nullaosta, il visto d’ingresso, Debenedetti fa carte false, come dire che si inventa le motivazioni con cui avere il lasciapassare per la poesia proibita da Croce. Lo scontro col maestro era così rinviato, senza sacrificare poeti e narratori che avevano ragione nei risultati artistici mentre avevano torto dinanzi al Breviario di estetica. Finché Debenedetti non si accorse che avevano ragione proprio in quanto aveva torto Croce.

La svolta “teorica” avvenne nel secondo dopoguerra. Non sulla politica, che portava Debenedetti fra i comunisti, cioè su posizioni opposte a quelle del filosofo liberale, bensì sulla scienza. Che fu sempre un amore non segreto di Debenedetti: lo aveva confessato ai tempi della scomunica crociana, l’aveva difesa dall’attacco di Michelstaedter. E la scienza il terreno sul quale il futuro autore di Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo rompe col maestro e si mette a raccontare la poesia e il romanzo del Novecento come avrebbe detto che erano, se l’estetica di Croce non glielo avesse impedito.

E il 1949 e a Venezia Debenedetti denuncia la concezione della scienza di Croce. Di quale scienza parla Croce quando la giudica falsa? E vero, ci ha creduto anche Debenedetti che fosse morta, e invece cosa era successo? Era solo calata una cataratta sulla scienza meccanicistica. La microfisica vede uno spettacolo diverso, ha altre leggi, meno vincolanti di quelle della macrofisica. A guardare dal Novecento, la scienza meccanicistica è “falsa” quanto la filosofia e la letteratura dell’Ottocento: nel modo indicato da Heisenberg, cioè sono complementari a un presente che appare regolato secondo le leggi della particella atomica. Che fa invece Croce? Manda a morte la letteratura del Novecento proprio perché non può avvalersi della nuova scienza, che è omologa dell’attività artistica e che sta dando le prove in laboratorio della fine della causa, del padre, del modello., di Dio. Debenedetti compie il percorso opposto: salvando la scienza, salva anche la letteratura del Novecento, e, ben più importante ancora, la possibilità di trovare un disegno nel vivere, sia pure in una “terra desolata”. Senza la scienza, non potrebbe salvare la letteratura, senza la scienza non si capisce cosa sta succedendo all’uomo del Novecento.

E la scienza a spiegargli per quale motivo gli uomini si comportano nel Novecento in quel modo che Croce aveva giudicato irragionevole, arbitrario, “anarchico”. Sono personaggi “demotivati” che stanno diventando particelle atomiche, si ignora dove vanno e quando arriveranno a un risultato che comunque non sanno valutare e che potrebbe essere l’opposto di quello che si aspettano: non si dimentichi il cazzotto dato dalla vita ai protagonisti dei romanzi di Svevo. Nonché di Pirandello, Palazzeschi, Proust, Joyce, Kafka, Tozzi, Bontempelli, Moravia, Saba, Montale, Landolfi, cioè di alcuni degli autori che scandiscono il nostro tempo.

Se si torna, come è doveroso, alla letteratura, allora si vedrà dove va a parare la ricerca del padre. Debenedetti è alla ricerca della struttura delegata a rappresentare storicamente la condizione umana. Ce n’è una per epoca, come c’è un solo padre. Il racconto tende all’agnizione: prima o poi il padre verrà fuori. Ovviamente la struttura resta sotto, sembra inafferrabile, va presa nella rete. E Debenedetti getta non una bensì quattro reti per pescare la struttura sulla quale si regge il nostro secolo di orfani che non sanno fare a meno del padre. Quale padre per il Novecento, dopo quello realista e quello simbolista dell’Ottocento? C’è posto per un solo linguaggio? La storia dà il mandato a uno solo? E possibile una storia di fratelli ed eguali invece della solita in cui il padre dà ordini e interdetti al figlio?

Dopo aver fatto incontrare Bohr e Jung, Debenedetti aggiunge con lo stesso scopo due altre squadre: la sociologia neomarxista di Wright Mills e la letteratura, come dire?, di Proust, Kafka, Joyce, Pirandello e Tozzi, Quattro squadre che vanno a incontrarsi nello stesso punto. In questo crocevia coincidono le ricerche della fisica, psicologia, sociologia e letteratura, che si vanno a disporre l’una sull’altra. Quattro disegni, una sola sagoma: quella della struttura della materia. La stessa, quella della fisica atomica, dalla scienza alla psicologia, alla sociologia. alla letteratura. O viceversa dalla letteratura, che ha intuito prima la struttura, alla scienza fisica, pronuba o mediatrice la psicoanalisi e con la partecipazione straordinaria della storia (o è lei la protagonista?). Una reductio ad unum. A un solo, come un Padre, che sia eterno, come un mito.
La forma dell’informe

A Debenedetti piaceva andare avanti a tutti, era cioè, un “pioniere”, ma non amava l’avanguardia, specialmente se è organizzata in movimento, futuristi, surrealisti.. neoavanguardisti. E nato come critico e come narratore in quei primi anni Venti contrassegnati dalla “Ronda” e dal “ritorno all’ordine” dopo il clamoroso scandalo del futurismo e del dadaismo. Appartiene dunque a una generazione che non ne può piu di vedere registrare il magma, l’informe. Tuttavia non s’è mai nascosto che questo lo si può tenere sotto controllo ma non eliminare. Tocca insomma trovare sempre nuove forme all’informe.

In principio dunque c’era il caos. Si sta parlando dell’inizio del Novecento, del futurismo e della sua propensione a quell’informe che è forma alternativa e assoluta, cioè irriducibile all’ordine, insomma avanguardia subito realizzata e permanente. Debenedetti stronca il Poema africano di Marinetti ma ammira le esplosioni di immagini che sarebbero state impossibili al di fuori del disordine strutturale perseguito da colui che aveva teorizzato le parole in libertà, lo scatenamento incontrollato dei livelli inconsci e preconsci. Sulla “simultanea” registrazione irrazionale del materico, i futuristi fondano la possibilità di guardare dove mai sinora nessuno ha osato spingere lo sguardo e ogni altro senso, ben oltre la cataratta di Proust. Al cinema pero nell’arte nuova del Novecento, negli anni Trenta Debenedetti ha la rivelazione del terreno sul quale il futurismo è insostituibile e necessario. Si può non credere alla “parola” dei futuristi ma risultano degne di fede le immagini (la decorazione murale e d’ambiente) e la musica: « quella lirica dei rumori, che Balilla Pratella e Russolo auspicavano nei loro manifesti della musica futurista, sta per diventare la più autentica e originale sostanza fonica del film sonoro ».

Le notizie dagli scavi, i materiali dell’ “altro”, Debenedetti intende ricondurli a una forma, anzi a una figura, come ad esempio faranno gli espressionisti. Quindi semmai il deforme ma non l’informe. La “forma dell’informe” cara a Savinio. Nella “forma dell’informe” che più ama, quella cioè di Wagner, Debenedetti esalta la capacità di « mantenere di continuo alla presenza dei nostri sensi lo strato germinativo degli atti », « la perpetua promessa di una rivelazione fatta all’intelligenza di ciò che è al di qua o al di là dell’intelligenza ». E l’annuncio dell’inesauribilità dell’informe, materia rovente e profonda che cede all’intelligenza solo una parte dei suoi significati. L’informe di Debenedetti non finisce mai. Non finiscono mai nemmeno le forme capaci di tenerlo in perpetua attività.

Tutti i grandi romanzi dall’Odissea in poi hanno al centro un “viaggio all’inferno”, e tocca farlo anche nel nostro secolo. Un viaggio nell’inferno delle idee contemporanee e dei linguaggi con cui si è manifestato il “male” in un’epoca nella quale si fa il male anche a fin di bene; secondo un luciferino ribaltamento che mostra Satana eretto, con la testa in su. L’inferno dell’Assurdo e quello dei personaggio ridotto a particella atomica? Naturalmente Debenedetti si scotta a contatto di esperienze in cui si sono bruciate generazioni di intellettuali e di artisti ma ne esce con la motivata speranza di non avere sprecato il viaggio. Si salva solo colui che ha avuto il coraggio di guardare in faccia il maligno, colui che sa portare una testimonianza spregiudicata della ferocia della condizione umana.

Il risultato più esaltante non consiste nella conclusione, che nei saggi di Debenedetti, da Personaggi e destino a Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, e spesso eloquente e gioiosa, quanto piuttosto l’attra-versamento. Debenedetti è migliore critico e scrittore quando indugia nel sottosuolo dell’uomo, quando racconta le buie avventure della psiche, meglio se sono “silerchie” o viottoli impervi che non le battute arterie della psicoanalisi, sempre più scienza da supermercato.

La perdita del modello, la morte di Dio, la crisi dei rapporti col padre, il fascismo, la condizione orfana, l’estraneità ermetica, il disagio dell’interpretazione, la miseria ed egemonia delle masse, la prepotenza dell’informe, la rivolta dell’altro, l’epica dell’esistenza, l’assurdo, il numero di matricola dei lager, le malattie del personaggio-uomo, il personaggio-particella, l’antiromanzo, l’informale: tutto, o quasi, il “negativo” del Novecento, Debenedetti lo ha attraversato tutto per mezzo secolo dallo scoppio della prima guerra mondiale alla vigilia della contestazione. All’interno dei fenomeni ma per uscirne.

Sono gli elementi negativi a dare la massima spinta, sono loro i più efficienti fattori di dinamismo culturale: che è un muoversi per arrivare a un punto fermo, magari perenne quanto un mito. La storia sembra tutta consegnata alle iniziative del “diavolo”: dall’espressionismo all’ermetismo, dall’esistenzialismo all’antiromanzo. Debenedetti tira un bel sospiro di sollievo quando risolve la crisi. Pensate all’inno con cui chiude saggi esemplari quali Personaggi e destino e Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo. Sa di avere lavorato come si deve e si gira a guardar indietro, ma alza la voce per soffocare un affanno non sopito.

Ora Debenedetti è fuori, è tornato alla luce, ha avuto ragione del buio e può cantar vittoria. Tuttavia, non può fare a meno di girarsi a guardare indietro dove va scomparendo l’immagine di ciò che sta portando come premio per la sua vittoria. Orfeo fa appena in tempo a vedere scomparire Euridice (Debenedetti rivisita un mito particolarmente caro in compagnia di quel “Narciso trasformista” che era Cocteau). Il viaggio si conclude con un inno alla vita ma c’è da impazzire dinanzi allo spettacolo orrendo e assurdo che si torna a vedere sulla superficie terrestre. Questo è il destino consegnato al mito: Orfeo rivedrà Euridice ma non la condurrà mai più sulla terra. E solo un’illusione quella del critico che è convinto di avere trovato le ragioni con cui persuadere i padroni dell’Ade a liberare Euridice? Non si sfuggirà mai più alle tenebre? Quando arriva la luce, si vedrà sempre che si è trattato solo di un sogno?

“Rivoluzione inconsapevole” è una formula che vale per Debenedetti assai più che per un titolo di libro (il Pascoli). Debenedetti dice inconsapevole, ma forse pensa a irrazionale. Inconsapevole come “inconscio”: una parola che è magica per Debenedetti, finché non le preferisce “profondo”, il profondo di Jung. Inconsapevole come profondo. Inconsapevole è il destino e ciò che esso significa e nomina col suo lessico “familiare”, cioè le madri, il grembo, le matrici. La rivoluzione inconsapevole è quella compiuta per via irrazionale e che intuisce la struttura assunta dalla vita in una determinata situazione storica. I poeti simbolisti francesi l’avevano capito, e anzi progettato, quello che Pascoli fa – la scoperta della forma simbolista dell’informe – con un’inconsapevole rivoluzione del linguaggio. Così Tozzi col linguaggio degli espressionisti.

Anche Debenedetti ha fatto in modo inconsapevole la poi consapevole rivoluzione con cui capisce su quale struttura, non solo letteraria, poggia il Novecento. Da giovane aveva sentito l’oscuro intreccio, la rete che sarebbe stata reticolato, la griglia che sarebbe stata una gabbia, ma solo nella maturità aveva compreso il disegno. C’era un piano in quella trama inconscia, se c’era la prigione, c’era la chiave per aprirla? Le sbarre si vedevano confusamente, bisognava limarle. Un taglio alla struttura chiusa e si era all’aperto. Ad esempio, la struttura aperta della narrativa di Tozzi, inconsapevole rivoluzionario del linguaggio del ’900.

Linguaggio « non può significare vocabolario, o grammatica, o sintassi, puri sintomi esterni, bensì organica persuasione d’aver trovato il punto di intesa tra il personaggio e il mondo; cioè ancora una volta la congruenza tra personaggio e vicenda ». A questa condizione ogni linguaggio ha diritto di impiantare il laboratorio: l’esperimento vale quando riesce, se il linguaggio crea una “realtà” che prima non esisteva.

Per le avanguardie il linguaggio è la realtà, una realtà che resta sempre di là, estranea, incomunicabile. La loro forma informe è il suo significato. Debenedetti invece lo trascina di qua e gli chiede sempre alla fine quale vicenda sta raccontando e cosa significa. Anche se Bontempelli gliel’ha ricordato che le parole e le cose stanno su due piani paralleli, Debenedetti ci prova lo stesso a farli convergere.

Un linguaggio che aspiri a essere originale e libero ha pur sempre l’obbligo di trovare « il punto d’intesa tra il personaggio e la sua vicenda », il suo destino, nonché il mondo. Un linguaggio lo si misura dalla capacità di impatto sul mondo. Bisogna essere disponibili a ogni linguaggio senza le preclusioni preconcette che hanno tardato la comprensione, ad esempio di Tozzi: uno che aveva un linguaggio diverso da quello che lui pensava e che gli altri gli attribuivano. Il suo linguaggio la sapeva assai più lunga della sua cultura. Pensate al linguaggio del corpo dei tre fratelli che in Tre Croci soddisfano la loro fame nevrotica mangiandosi l’eredità dell’odiato padre.

Debenedetti non è un moderato della modernità. Lui fa rotta su meridiani che conducono ai poli della cultura contemporanea, ma compie il percorso dei navigatori isolati: quanto può esserlo uno che non ha seguito fedelmente nessuna corrente culturale, pur essendo stato compagno di strada di crociani, marxisti, fenomenologi, strutturalisti. Non è un mediatore, e, se cerca l’unità, prova a raggiungerla in un punto in cui le alternative non fanno un passo indietro ma procedono sino a completare il giro.

Debenedetti è disponibile a ogni linguaggio purché esso prima o poi lo conduca a qualcosa di vero, alla realtà, alla cosa, o comunque a quanto il sentimento avverte come tangibile, forse anche toccante. Una cosa è certa per Debenedetti: vale solo il linguaggio che incontrerà sul suo percorso nomade e peregrino la Verità.

Debenedetti, oltre che massimo critico di Pirandello, è molto “pirandelliano”. Prove alla mano, l’autore del Fu Mattia Pascal, può dimostrare che succedono veramente nella vita i fatti inventati nel romanzo. « Modelli di fatti possibili », come quelli dei romanzi di Bontempelli. « Eravam tre », Debenedetti cita. Il terzo è Palazzeschi: colui che « fa centro fuori del centro ». Colpiscono il bersaglio quel linguaggio e quell’autore che sapranno correre fuori dalla traiettoria assai frequentata e che avranno la forza di sondare la periferia intellettuale, culturale, psicologica, scientifica, artistica.

Tutte le strade conducono a Roma, ma non è questo il centro cui aspirano Pirandello, Bontempelli, Palazzeschi, nonché Debenedetti, cercatori di miti non solo nazionali. Essi cercano nientemeno che il centro del mondo; che ovviamente nel Novecento può essere dappertutto. Basta trovare il linguaggio che apre, e appare il meraviglioso risultato dell’esperimento. Dei centomila linguaggi possibili, molti non arrivano a nessuna cosa, ma almeno uno coglie nel segno. E genera un mito che circolerà per tutte le strade del secolo. Questo è il secolo di Pirandello, del suo mito?

« Il meraviglioso non è che ai grandi poeti siano accaduti certi fatti donde la loro opera sembra aver preso materia. Meraviglioso invece, dalla prospettiva dell’opera compiuta, è che essi abbiano avuto il potere naturale di farsi succedere quei fatti, di diventarne i protagonisti », dice Debenedetti a proposito di Valéry e della creazione artistica. Debenedetti sa con certezza che esiste la “vocazione”, ma sa pure che bisogna essere capaci di farsi succedere “con arte” fatti che sembreranno naturali. Magari dopo essere parsi soprannaturali, come quelli che accadono nel romanzi di Bontempelli, il narratore che sa rendere semplice con la fantasia quanto di complicato inventa l’immaginazione. Il meraviglioso è dentro la vita quotidiana dell’uomo comune, del piccolo o grande borghese. Tuttavia « gli anni fatti di niente, in cui tornano quotidiani non contano: contano i momenti contratti, le ore che per la loro ferocia durano un immenso tempo presente ». Già nel 1937 Debenedetti cercava i momenti meravigliosi in mezzo a quelli d’ogni giorno. Aveva capito subito il progetto di Bontempelli. E questo l’incontro del suo destino di critico?

Savinio l’aveva avvertito che l’Italia non è terra da scrittori visionari, fantastici, lunari o notturni. E diversa la fauna letteraria italiana: una buona vista, ma poche visioni. Se ne sente il bisogno però, al punto che gli si dà anche troppo credito se capita qualche astuto surrogato: magari i Sessanta racconti di Buzzati (uno che tuttavia è “narratore di serie A” con Il deserto dei tartari). In Italia volano meglio quelli che sanno tenere i piedi per terra come si deve, e che sanno che la crosta, troppo sottile, è ormai li li per rompersi. Il terreno è vulcanico, tremano gli strati sotterranei dai quali in altre letterature affiorano coi sogni mostri terrificanti. « Dietro la materia opaca e visibile il personaggio di Kafka somiglia soltanto all’invisibile delle proprie angosce e conflitti: ognuno dei suoi tratti è un tratto di quell’invisibile. » C’è in Italia qualcuno che vola così? Ovviamente non alla stessa altezza ma un volo fantastico, sia pure di breve durata, sa farlo Landolfi, il narratore nel quale « il massimo di chiarezza è al servizio del massimo di procurata oscurità, anzi occultamento ».

Il Palazzeschi di Debenedetti non è quello futurista di Perelà bensì quello delle Sorelle Materassi o del Palio dei buffi. Moravia non è quello surrealista dell’Epidemia bensì il “fenomenologo” dell’Imbroglio e il neopositivista della Noia. Morante è quella dell’Isola d’Arturo, ma non in quanto romanzo realista bensì come favola in cui il napoletano orale “Artù” evoca il leggendario Re Artù. La campagna di Cassola nel Taglio del bosco non somiglia per niente a quella del contemporaneo neorealismo: non è una turba “storica” quella del protagonista del racconto bensì psicologica, un complesso di colpa. E di Bontempelli il critico non sceglie il metafisico di Eva ultima o della Scacchiera davanti allo specchio bensì il “realismo magico” di Gente nel tempo.

Sì al realismo che sia capace di magia. Nella formula il realismo continua ad essere il sostantivo ma la qualità è data dall’aggettivo. Un realismo che sia al servizio della magia, come nella narrativa, di Landolfi, « pastiche di un pastiche immaginario ». Nell’aggettivo, in “magico”, è dunque la vera sostanza dell’arte del Novecento, il secolo che sa raccontare l’epica del quotidiano. Debenedetti ama la letteratura che crea o scopre la magia della realtà, cioè I’ “altra realtà”, che è poi quella in cui si è annidato il senso, la verità della vita in un particolare periodo storico.

La magia non risiede più nel magico o nel metafisico o nel fiabesco. Cercatela nel reale. Magia e realismo: cioè magia e realismo, magico disvelamento della verità dentro la realtà. Debenedetti lo vide al cinema l’unico realismo all’altezza di un secolo che cerca altro: il “realismo integrale”. « Sfugge loro questo minimo e semplicissimo dettaglio che l’arte e magia, e che con la magia non si scherza, sotto pena di rimanere stecchiti come le mosche sotto la pompa del Flit. »
Il Novecento è stracolmo di ismi, ma Debenedetti a lungo non ha parteggiato per alcuno di essi. Crocianamente, “convenzioni”. Lo ripeté a proposito del verismo di Verga, e della sua celebre “conversione”. Chi si convertì davvero fu Debenedetti, alla fine degli anni Cinquanta quando fece un corso di lezioni sulla poesia del Novecento. C’è una sua “conversione” agli ismi e in concreto al simbolismo (per istigazione di Wilson de Il castello di Axel) e persino all’ermetismo, il rivale del “suo” Saba. Nemmeno a sentir parlare di neorealismo. No all’impressionismo in ritardo, come ritenne quello dei vociani. Se essi non sono, come dicono altri, degli “inconsapevoli” portatori – magari “sani” – di espressionismo.
Ecco l’ismo di cui Debenedetti ebbe la rivelazione negli anni Sessanta: la grande narrativa del Novecento è espressionista, Kafka, Pirandello, Tozzi ecc. Debenedetti si trovò a parteggiare consapevolmente per una letteratura che aveva sostenuto con motivazioni “inconsapevoli” molti anni prima del Romanzo del Novecento. Aveva salvato dal “massacro” della letteratura italiana tra le due guerre mondiali – oltre a Saba, Montale e Noventa – Palazzeschi e Bontempelli, due grandi reduci del futurismo, il movimento d’avanguardia che stava morendo quando Debenedetti nasceva alla letteratura. A Debenedetti piace l’avanguardia “figurativa”, quella che dà figura umana all’informe e all’ “altro”. E quella che non programma la morte dell’arte. Che figura avrebbe la vita se non ci fosse l’arte a disegnarla, a darle un disegno? Figurativo ovviamente, un disegno per l’uomo minacciato dall’informe. Nell’ultimo decennio della sua vita tra il ’57 e il ’67, Debenedetti riabilitò l’avanguardia e le poetiche già rifiutate come astratte convenzioni. Era stata per lui una rivelazione scoprire, suppergiù nel 1962, che il linguaggio che gli era congeniale era nei progetti degli espressionisti, i quali l’avevano pure attuato nei primi decenni del secolo. Qualche anno prima, nel 1959, era successa quasi la stessa cosa con gli ermetici. Il suo “destino” era dunque nel “progetto” degli espressionisti e degli ermetici, nipoti del simbolismo.

Attenti dunque alle avanguardie che fanno ipotesi sul futuro, ai creatori di linguaggi mandati in una certa direzione e a tutti coloro che prefigurano la prossima letteratura. E legittimo domandarsi dove va la letteratura. In poesia è decisivo dove si è arrivati, ma quelli che provano a capire prima dove si sta andando, non di rado sono stati determinanti a guidarla in un punto diverso da quella a cui sarebbe arrivata da sola. La letteratura non è “destinata” ad arrivare in nessun posto, né ha solo la funzione di dare figura a qualcosa che c’è già. Può inventarla, può farle fare il percorso chi condurrà la letteratura non sulla “realtà” che c’è ma su quella che si desidera che ci sia: e che ci sarà, come è successo spesso. Per merito di « quell’esasperata crisi che fu il futurismo [ ... ] le sfere, i cubi e i vari solidi compenetrati, per fare il caso più semplice, che non hanno mai ispirato un capolavoro nei quadri di cavalletto si son serbati un più lieto esito sulle pareti di certi caffè e tabinius moderni, dove veramente appagano l’occhio e intonano l’atmosfera ». I futuristi insomma avevano futuro, che ora è presente, nonché passato. Il loro linguaggio aveva creato una realtà che forse senza di loro non ci sarebbe stata.
L’incontro con la sartina

Un giorno l’intellettuale andò al cinema, e qui incontrò la sartina. Fu lei ad avvicinarsi a lui per esprimergli la sua opinione su quanto avevano visto. Ci pensò molto l’intellettuale ma, pensandoci sopra e a lungo, capì che ad avere ragione era lei: la sartina, cioè fuori di metafora, la gente comune, la massa. La massa che al cinema avrebbe creato un proprio canale di comunicazione culturale mai visto prima di pari dimensioni.

Debenedetti fu uno dei primi tra gli intellettuali italiani ad andare al cinema e a convincersi che era nata una nuova arte. Lo scrisse, scrisse articoli e saggi di critica cinematografica che, poi raccolti nel volume Al cinema, costituiscono un corpus di riflessioni teoriche e di analisi di film da collocare tra il meglio che sia stato pensato sul cinema nel mondo. L’entusiasmo suscitato in lui dall’ottava musa è fondato – in misura non secondaria rispetto al piacere di vedere altre forme d’arte – su quello che gli parve il fenomeno fondamentale della cultura del Novecento: l’incontro tra l’intellettuale e la massa. Lieto di assistere all’evento, Debenedetti ne dà l’annuncio così: « Il cinema è uno dei più tipici ed efficaci strumenti di cui la vita moderna si valse per stabilire una circolazione di idee e di stati d’animo tra il popolo e le élites. E una porta aperta in permanenza, che sopprime la clausura degli intellettuali, che rende impossibile – a meno di una bizzarra, anacronistica cocciutaggine – la torre d’avorio ». Non è poco dire per un critico cui è stato rimproverato un eccesso di estetismo.

In verità Debenedetti si era regolato così anche da critico letterario: aveva dato sempre ascolto al “popolo” in quanto lettore di narrativa e poesia. Ne aveva fatto, ad esempio, le spese Italo Svevo, al quale Debenedetti disse di no perché lo scrittore ebreo triestino non era ne mai sarebbe stato popolare: per via di una “reticenza morale” che i lettori avrebbero avvertito e che poi sarebbe il motivo per cui, nel 1928, non si accostavano ancora con piacere ai suoi romanzi. Un errore, come sarebbe stato evidente più tardi (quando le sartine sarebbero corse a migliaia a comprare i libri di Svevo), ma intanto era anche una conferma della tesi che al cinema o in letteratura o in musica, tocca auscultare la sartina, tenere lo stetoscopio sul cuore del pubblico. Dopo due generazioni il cervello dell’intellettuale constata che aveva ragione il cuore della sartina. Conviene capirla subito; serve andarci insieme a cinema, a musica, ad arte, a letteratura. Innamorarsi della sartina fino a identificarcisi. Magari “tenendo la testa a posto”, come consigliava ai folli Bobi BazIen, amico assai ascoltato di Debenedetti.

Debenedetti non vuole perdere tempo, non aspetterà due generazioni per capire quello che la sartina intuisce col cuore: identificandosi con la diva o compromettendosi con gli effetti della tecnica. Come Tristano con Isotta, Debenedetti desidera essere la sartina, secondo una clamorosa identità “democratica”: Debenedetti vuole essere la sartina, che in fondo tutti siamo, intellettuali e massa e intellettuali di massa. L’identità non ci sarà, ma Debenedetti nell’ “università di massa” sarà avvicinato dalla sartina molto di più di quanto sia successo con i Saggi critici. Il suo Romanzo del Novecento e i suoi corsi di lezioni hanno trovato migliaia di studenti e lettori a decine di migliaia.

Al cinema Debenedetti – sempre in compagnia della sartina – affronta quel problema della funzione e del ruolo degli intellettuali sul quale poi si dirà di più ma non sempre di meglio nel secondo dopoguerra. Basta con l’intellettuale “pedante” e con « il visibile apostolo e infatuata vittima dei dernier cri ». L’intellettuale “vero” è « colui che possiede criteri morali così seri e ragionati, da saper distinguere la corrente profonda e legittima del gusto dagli incartapecoriti proverbi di una morta tradizione; da saper sceverare le tendenze in cui il proprio tempo può adeguatamente riconoscersi dal gergo posticcio dei passatempi momentanei con che gli spensierati scacciano (o sottolineano) la loro noia ». L’intellettuale deve essere dunque “tendenzioso”, ma deve distinguere, tra le tendenze e all’interno, se vuole evitare il conformismo, magari anche del nuovo. Va bene la scelta di campo, ma non dimentichi l’intellettuale d’essere una particolare pianta d’uomo. Debenedetti fece spesso parte per se stesso, magari anche contro la propria parte ideologica e politica.

Debenedetti fu a favore del neorealismo al cinema mentre era contrario al neorealismo in letteratura. Analogamente, avversario del futurismo poetico, apprezzò la musica futuristica applicata al cinema. Era stato dalla parte del “semplice” Saba contro l’oscurità degli ermetici, finché non gli fu chiaro che essa era il linguaggio di una condizione umana privata di ragioni e di criteri per la quale era necessario essere oscuri. Scelse Moravia contro la replica di neoclassicismo fra le due guerre. Optò per l’umanesimo contro l’assurdo e per il personaggio-uomo contro il personaggio-particella. Semmai fu una “particella strana”, ma di quelle che hanno autonomia di movimento. Così Debenedetti è diventato un critico “unico” che mette tutti d’accordo sulle sue “singolari” conclusioni.

(Due o tre decenni dopo, Debenedetti incontrò la sartina fra i suoi lettori. La prosa critica di Debenedetti al cinema è diventata più “popolare”, più chiara, agile, colloquiale senza perdere in acume e robustezza di argomentazioni. Una buona lezione per gli intellettuali “democratici”: imparassero a scrivere per la sartina. Scrivendo di cinema, Debenedetti riesce a farsi capire dalla massa delle “sartine”. Facendo lezioni universitarie, la sua eloquenza è accessibile alla massa degli studenti e a tutti coloro che, ora leggono la sua prosa critica come un romanzo).

Quanti galantuomini, a cominciare da Croce e da Serra, si rifiutavano di riconoscere qualità d’arte a Pirandello: alle cui “prime” accorreva con entusiasmo invece la sartina, la stessa che era ammaliata dai “canti” e dalle “immagini” di Saba. Tenendo lo stetoscopio sul cuore del pubblico, prestando attenzione ai sentimenti della sartina, quel galantuomo sopraffino che è Giacomo Debenedetti riesce a capire per primo o tra i primi o con sottigliezza di “primo critico” la grandezza di coloro che sono i primi nella poesia e nella narrativa del Novecento. Non è forse lui il primo critico di Montale, in Riviera, amici, un racconto di Amedeo? Il segno di una vocazione. Debenedetti l’aveva capito sin dall’inizio che la critica bisogna raccontarla bene, se non si vogliono emarginare dalla cultura quei “lazzaroni” e quelle “sartine” senza il cui consenso tanti “galantuomini” sono gli artisti del nostro secolo se ne stanno soli a piangere sulla ottusità dei pubblico.
Il mito di Debenedetti

Non vi lasciate confondere, se vivete a Dublino, vestite panni moderni, fate gli studenti o i commercianti: voi siete Ulisse, Telemaco e via dicendo. Non è il caso che vi agitiate per il valore della vostra vita e il senso del vostro destino: stanno scritti nell’Odissea. (3)

Questo promette Joyce, lo dice Debenedetti a coloro i quali cercano la congruenza tra personaggio e vicenda. Leopold Bloom torna a casa, Telemaco ritrova in Molly la madre. E questo il Mito, il racconto che eterno si ripete? E quella di Ulisse la favola madre dalla quale nascono tutte le storie? Di sicuro è un approdo, un riparo, un rifugio. Finché non è necessario ripartire dall’isola. Ci sono tanti Ulisse e ci sono tanti altri miti. La vita la raccontano diversamente Proust, Pirandello, Kafka e altri.

A Debenedetti piacerebbe che il suo destino fosse scritto nell’Odissea, ma il suo mito è un altro. Tutti i miti precedenti, più uno: come il celebre personaggio di Zavattini che, cambiando logica, vince la gara di matematica. Un mito nuovo è il risultato di una scienza esatta. E come un proverbio, verità popolare che affronta spavalda i secoli. Manca il mito adatto al presente? Tocca inventarlo o scoprirlo.

La soluzione provvisoria di Joyce è stata ripresa ogni volta che se ne è trovato l’appiglio, dai nostri contemporanei, di mano in mano che la crisi dei personaggi diventava più aggrovigliata e buia,

scrive in Personaggi e destino. (4) Debenedetti non sa fare a meno del mito, ma non cade nella trappola del neoclassicismo, che i miti se li impresta e in essi riposa. Anche la società moderna scatena crisi per le quali non bastano più né Ulisse, né Orfeo, né Edipo. Non hanno finito di “reggere il mondo”, ma urge sempre dargli dei compagni, creare i nuovi miti. Debenedetti i miti però li vuole nuovi, non quelli che, secondo Savinio, sono già nel supermercato, dove fanno mitologia, che è vuoto ormai da buttare.

Il mito, un racconto essenziale che fa riassumere “in dieci parole” un grande romanzo e che crea personaggi duraturi quanto un proverbio: Ulisse, Edipo, Don Chisciotte, Amleto, Robinson Crusoe, Madame Bovary, Don Abbondio, Mastro don Gesualdo, Gregori Samsa, Mattia Pascal, Lolita.

Come inventarli? Cosa fa la differenza? Dove nascono? Nella vita, la “calda vita” di Saba. E la vita che fa la differenza da cui nasce il nuovo mito. Questo si colloca sempre al centro ma spesso è generato in periferia (Trieste, la Sicilia, Siena, Procida). Una nazione invece che un’altra (il romanzo russo e francese dell’Ottocento), un’arte invece di un’altra (il melodramma italiano), un linguaggio invece di un altro (il simbolismo francese, l’espressionismo tedesco). Impossibile prevedere dove nascerà il prossimo e quando. Non vi fidate delle copie. In arte conta solo il prototipo, nonché l’archetipo. Come crearlo? Scopritelo, forse c’è da sempre. Aspetta solo il momento buono per apparire, per nascere. La levatrice è ancora la storia, anche se sembra strano il suo aiuto al mito, che della storia passa per essere il nemico proverbiale.

Le aveva viste, sentite e segnalate per vent’anni ma non ne conosceva il nome. Ne avevano uno, glielo aveva dato Joyce: epifanie; ma Debenedetti non lo sapeva ancora e usava altri termini. “Impressionismo” lo definì vedendo cinema e pittura, e ascoltando musica. Ed ecco la definizione: « Movimento artistico che attaccandosi ai più fugaci e trascorrenti valori di. apparizione delle cose, ha trovato in ciò un nuovo e più intimo dono di evocazione lirica delle cose stesse: della loro interiorità e delle loro risonanze profonde: una delle più radicali rivoluzioni che mai si siano avverate nel dominio estetico ». Una rivoluzione: rivedere l’interiorità delle cose, misurarla sulla struttura interna ad esse. Questa la direttrice di ricerca di Debenedetti negli anni Trenta. Dove egli arriva è facile dirlo, sono appena cambiate le parole, e nemmeno molto, negli anni Sessanta: quando “impressionismo” diventa “epifanizzazione”. Sono coerenti e profetiche le preferenze del critico per la narrativa che “salta i gradini”.

Le “crisi” di Moravia, il cazzotto di Svevo, il “centro fuori dal centro” di Palazzeschi, il “tempo pesante” di Bontempelli, sono delle epifanie ante litteram. La “rivoluzione inconsapevole” di Debenedetti. C’era la cosa, sarebbe seguita la parola esatta: invece di “impressioni”, epifanie. Per essere più esatto, il critico si era rivolto alla scienza e questa gli aveva risposto proponendogli la particella atomica. Ecco la rivelazione, cioè una concreta epifania: la particella atomica aveva un percorso analogo a quello attribuito dalla letteratura alle epifanie e a quello ipotizzato dalla psicoanalisi per la psiche. Non era diverso il cammino della storia nel Novecento. Lo attesta la più recente sociologia, che la sa lunga sulla società attraverso la statistica, scienza della probabilità. Nella quale esplodono “a caso” le epifanie.

Un giorno Debenedetti si mise a leggere uno scrittore “insignificante” quanto può essere nel Novecento un “epigono del verismo toscano”, Federigo Tozzi, ed ebbe la rivelazione di un grande narratore del nostro secolo. Un’epifania critica. Procede per epifanie non solo Joyce ma anche Debenedetti: sia lo storico del Romanzo del Novecento sia il critico militante dei Saggi critici e di Intermezzo. Il Romanzo del Novecento, il libro duraturo che è figlio della critica d’ogni giorno su opere di giornata, non sarebbe mai nato senza i Saggi critici. Debenedetti morì senza sapere d’avere trovato la sua massima epifania, il suo capolavoro.

(Tocca fare miracoli anche a chi pratica la critica militante. La massa enorme, opaca, trascurabile dei libri quotidianamente pubblicata. Il critico ignora cosa valgono e dove vanno tutti quei libri in apparenza insignifi-canti. Di sorpresa da un libro parte un messaggio che balena e folgora come una verità. Questi libri da rifiutare prima di trovare uno che non si limiti a piacere per qualità effimere. Che massacro prima di trovare un libro che contenga qualcosa che serva da fondamento in un’epoca instabile e fragile. Sono pochissimi e ci sono epoche in cui è più difficile che sfuggano dalla prigione di mode culturali, ideologie, correnti artistiche. Bisogna stare in attesa dell’opera che getterà luce sulla vita, e sul mondo. Abbondano i periodi bui, ma tocca tenere gli occhi aperti, entrambi gli occhi. E l’oculista stia pronto a togliere la cataratta di Proust o a cambiare occhio. Comunque, sempre in attesa dell’occhio del nuovo artista, colui che ha visioni nuove e che guarda in modo nuovo, su un vecchio spettacolo umano).

Quali sono i connotati di quel mito di Debenedetti per il quale non basta dire che è “bello” e che è anche “vero”? La vita quotidiana, opaca, sorda, noiosa, senza eventi straordinari e senza criteri per misurare la qualità delle esperienze. Tutto è pareggiato, una pianura di scene, insignificanti. Lo scorrere uniforme di fatti e. figure di routine. Assenza di valori, noia, grigiore, discorsi privi di importanza, chiacchiere, piattezza e vuoto. All’improvviso un suono squilla prepotente, un’immagine folgora una scena oscura, un oggetto prende un rilievo vistoso. Una epifania valorizza l’insignificante scoprendo una essenza. E successo qualcosa sotto, nella struttura: che è disponibile al prodursi dell’evento eccezionale. E mia struttura senza regole rigide, determinate, e ancor meno deterministiche. Si ignorano la velocità e la direzione nelle quali va a collocarsi l’essere pronto a esplodere verso l’oggetto che può rivelarlo. Come la particella atomica? In un certo senso anche, ma anzitutto come il personaggio-uomo dell’età storica. Qual è la differenza? Il personaggio-uomo ha profondità, ha il profondo: la psiche, che ha una struttura omologa a quella del linguaggio moderno e dell’uomo descritto dalla sociologia post-marxista. Quattro strutture omologhe fanno una sola verità? Fanno almeno un mito. Il mito di Debenedetti, che sembra tanto vero.

Il mito di Debenedetti nasce nel profondo. Fondamentale non è quello che si vede a occhio nudo: si tratti della psiche o della particella atomica, che ha microscopi di vista profonda. Anche la sociologia deve fare i conti su quanto succede all’interno degli uomini del nostro tempo. Gli eventi estremi possono essere insignificanti, ma solo fino a quando non diventano veicolo di un’essenza che aspetti l’occasione per rivelarsi. Attenti dunque alla superficie, è qui che inizia l’avventura romanzesca dell’uomo contemporaneo Che per esser capito ha bisogno del concorso di elementi di vario livello, non solo irrazionali, ma anche scientifici, storici, sociali. Il mito di Debenedetti aspira ad essere racconto totale, nel quale si finisce sempre per imbattersi secondo ferrea logica di sistema. li punto d’arrivo è là dove si è destinati.

E attuale? E nella natura del mito di essere sempre attuale. Nasce nell’attualità storica e non l’abbandona mai, andandosi a collocare accanto a tutti gli altri che i secoli hanno creato. Possono essere collocati a riposo ma viene l’epoca in cui vengono richiamati in servizio attivo. Stando immobili, sanno essere un fattore di dinamismo culturale, secondo le regole di un’ “ars combinatoria” che realizza un disegno nuovo e originale con elementi antichi e perenni.

Il mito di Debenedetti è quello dell’orfano, dell’essere privo di valori e di criteri che si mette in disponibilità dinanzi a un mondo che manda segnali insignificanti o almeno sono tali finché non si verifica un contatto, un corto circuito da cui esplode un senso. Non incontrerai due volte lo stesso senso sul medesimo percorso. Ti tocca stare in attesa dell’evento straordinario, che può tardare un’intera vita. Dallo stesso luogo da cui era partito un pugno potrebbe arrivarti un dono. L’essere e in movimento continuo, non se ne conosce la velocità né la direzione, ma ti può capitare di incontrarlo nel tuo cammino se rispetti il tuo essere. La creazione di un mito vale quanto un ritorno a casa, una casa in cui ci sia un padre in grado d’essere un fratello dentro una struttura egalitaria nella quale la gerarchia bisogna conquistarsela, magari per intervento del caso, come nell’epifania.

E nell’ “altro”, laggiù al suo livello profondo che l’uomo attinge le energie necessarie per sopravvivere e magari per avere una storia diversa. compreso un nuovo mito. Per ora, per il proprio mito personale di critico che crede all’arte come attività inconscia, Debenedetti ha trovato la struttura in cui l’Altro agisce anche a favore della letteratura e della società. Gliene danno conferma la psicoanalisi, la sociologia, la fisica e il linguaggio letterario che si sono aggiornati sui movimenti della materia e della parola. Mandano tutti e quattro lo stesso messaggio: se vivete con attenzione dialettica al diverso da questa struttura quando meno ve l’aspettate arriva la rivelazione di qualcosa che sembra un miracolo. Questa è la struttura presente, la struttura del mito di Debenedetti.

Il critico continua a dire che ce ne sono altre, ci sono altri miti. Ma uno solo è attuale, è in atto, è attivo nella storia, ed ha anche il tempo dalla sua. Quanto più è nella storia, nella struttura, tanto più il mito vive, anzi è perenne, magari come “storia” o storiella, ossia favola o proverbio. Debenedetti ha raccontato bene il mito dell’uomo sedotto e minacciato di morte dalla particella atomica, che, dopo aver viaggiato nelle zone buie della materia, della psiche e della, società si riscopre un personagio-uomo che è fratello di tutti i personaggi umani che l’hanno Preceduto sulla terra e nella letteratura.
Il melodramma critico

Debenedetti ascoltava e amava molto la musica. Assai anche il melodramma, di più Wagner ma non poco Verdi. Dinanzi alle cui romanze  « ti accorgi che la parola “belle” non ti serve più e devi adoperare la parola che vale anche per i ragionamenti giusti. Devi dire che sono vere ». Bontempelli aveva scritto che Verdi aveva preso la musica in cielo e l’aveva portata in terra. La “saggezza” e concretezza di Verdi, che sa identificare Bellezza e Verità. Una musica che “sottolinea”, dirà Debenedetti al momento di prendere posizione a favore della “sapienza” di Wagner. Non basta più la “saggezza”. Nel confronto tra la musica di Verdi e, quella dell’allievo di Nietzsche Debenedetti intuirà che l’arte moderna ha visto alterarsi i rapporti con la verità. E d’altronde gliel’aveva detto Bontempelli che le parole e le cose si muovono sii due piani paralleli. Invece Debenedetti è sempre lì a tentare di renderli convergenti. Il bello è che tante volte i suoi ragionamenti “celesti” toccano terra e sembrano veri. Le sue conclusioni, le sue definizioni, sono “tangibili”, e tanto più lo sono, quanto più erano state “stratosferiche” e guizzanti le analisi dell’anima, le “psicoanalisi”.

Un critico disponibile, come può essere Tommaseo, e amorale, come può essere il protagonista della Recherche: per essere pronto a intuire la rivelazione di senso con cui l’insignificante diventa miracolosamente “divino” cioè vero come un mito millenario. Allora il critico può diventare un lirico, intonare la “romanza”. Ne ha molte il Romanzo del Novecento, opera nella quale è musica anche il recitativo. La critica come melodramma, wagneriano naturalmente, unità di parola, suono e azione narrativa. Il professore, saggista ad alta voce. L’oralità della critica universitaria di Debenedetti. Un’ammaliante narrativa orale. Un lungo e minuzioso racconto che prepara gli acuti, le rivelazioni, i messaggi dei profondo. Le metafore di Debenedetti fanno un’acrobazia finale per andare a toccare terra dove pochi si erano avventurati e dove quasi nessuno è arrivato come lui. Parecchie sue definizioni critiche sono vertiginosamente azzeccate. Fanno centro? Come Palazzeschi, che « fa centro fuori dal centro ». E li scova il personaggio-uomo del nostro secolo.

Il massimo di “spreco” al servizio del massimo risparmio. Il massimo di diluizione al servizio del massimo di concentrazione. Una miriade di particolari al servizio di un disegno elementare. Debenedetti cerca lo schema originario o finale che è il suo mito in mezzo a una massa sterminata di dettagli. Ognuno di essi potrebbe essere fondamentale, “essenziale”‘. Perciò splende il “lettore” (quello che fa le lezioni universitarie) prima che il critico. Le sue analisi., le sue “psicoanalisi”, hanno bisogno di ogni parola. Non tutte quelle che squillano hanno echi dentro. Bisogna accumulare e subito dopo sottrarre. Si salvano le costanti che hanno fatto l’esperienza di tutte le differenze. All’improvviso appare sul fondo lo schema, il “racconto favoloso” che si desiderava. Esso può essere rimandato in superficie a prender posto nella storia e a generare differenze individuali. Precarie possono essere le sue interpretazioni, ma la scoperta è definitiva.

Il fiuto e il fiato

Nella Recherche sono in due a parlare: Proust e il protagonista che dice Je. Il protagonista è amorale, disponibile, passivo, suppergiù l’ebreo di Weininger, che in quegli anni piaceva tanto a Debenedetti. L’autore del romanzo invece è morale e costruttivo, come è sempre la poesia, secondo il Debenedetti del 1925, cioè di un decennio molto costruttivo dopo il disordine delle prime avanguardie. Accettiamo l’opinione per la quale Debenedetti è anzitutto un “proustiano” e osserviamo le conseguenze nella sua attività.

Ecco: in Debenedetti è amorale, passivo, estremamente disponibile il lettore; ed è invece attivo, “positivo” e morale il critico. Debenedetti non ha mai chiuso gli occhi dinanzi a un fenomeno “negativo”, non si è mai sottratto a un problema “insolubile”, non si è mai scandalizzato di una trasgressione. Per sconfiggere il diavolo non bastano le buone azioni, ci vogliono le buone ragioni.

Rispetto a De Sanctis, non accetterebbe mai la “doppiezza critica” di “condannare” una poesia affascinante come può essere quella ariostesca. Se contro le sue ragioni un libro risulta ancora bello, Debenedetti comincia a pensare che non solo Croce, ma anche lui stesso abbia torto. E dà ragione, anzi dà ragioni, al nemico, il vincitore che viene vinto.

Il fiuto è quello di un uomo del Novecento, il fiato all’inizio è quello di Croce. Peggio per il fiato quando il fiuto avverte la vita che si manifesta fuori legge, fuori delle regole di un’estetica. Croce è amico ma piu amica e la verità. E la verità è che bisogna cambiare fiato perché il fiuto non basta, se Serra non sente Pirandello e Debenedetti è insensibile a Tozzi. Col fiuto Debenedetti aveva sentito che trasmettevano messaggi della vita contem-poranea Montale, Saba, Proust, Pirandello, Palazzeschi, Bontempelli, Moravia, Savinio, Ungaretti, Radiguet, Valéry e altri. Ma senza il fiato e senza un modello e un criterio nuovo come si fa ad essere certi che sia anche vera quel l’impressione positiva? Se i polmoni sono vecchi e sono malati, come lo sono di cataratta gli occhi del naturalismo secondo Proust, bisogna fare un’operazione radicale. Bisogna cambiare aria. Debenedetti prova con la scienza, proprio lei, la grande nemica di Croce. E la scienza dà la risposta, come dire “scientifica”, sia pure probabilità di verità, che non si poteva sentire la vera bellezza di una letteratura se non si capiva dove bisognava fiutare. Fatta l’operazione di cataratta a Croce, si poteva vedere ciò che era bello perché era originale, l’unico connotato che legittimi l’idea di modernità. E così Debenedetti ha il fiuto e il fiato che sono propri di un grande critico del Novecento.

Critico di gran fiuto – il suo maestro di lettura è a lungo Renato Serra Debenedetti va a farsi il fiato – il gran fiato di De Sanctis, il fiato di Borgese – allenandosi sulla storia, sulla sociologia, sulla psicologia e sulla fisica. Col fiuto gli era sfuggito Tozzi, senza i polmoni allargati dalle scienze fisiche, e umane non avrebbe capito la narrativa del Novecento, non avrebbe potuto provare la sua originalità e grandezza – e nemmeno la propria. Dopo avere respirato come si deve l’aria dei nuovo secolo, Debenedetti si ritrova un fiuto diverso. Ora sente meglio poeti come Mallarmé, Montale, Saba, Ungaretti, Noventa, Penna, Luzi e Sereni. Come l’alternanza tra Platone e Aristotele, come quella cardiaca di sistole e diastole, si alternano le epoche in cui sembra bastare il fiuto a epoche cui sono necessari più ampi polmoni. Alla fine, Debenedetti si è scoperto il respiro adatto a scrivere una essenziale storia del romanzo dei Novecento nella quale dimostra di avere più fiuto di Serra e più fiato di Borgese.

Non vedrò neanch’io la grande opera che tu auguri. Proprio in questi giorni mi sto domandando a che serva questo mio faticoso scrivere: non a me, non agli altri. Se mi dicessero che, dopo la mia morte, qualcuno almeno capirà, forse troverei la necessaria perseveranza. Ma, per quanto posso capire, nemmeno questo mi è promesso. (5)

Così in una lettera a Saba Debenedetti. Il suo mito personale, che è anche quello con cui il critico legge il mondo e la letteratura, comprende pure questa amarezza e sconforto. Nell’epoca della “probabilita”, della particella atomica non si sa se un’opera, è grande e se sarà mai capita come tale. Con ogni probabilità quella di Debenedetti lo è, e lo hanno capito tutti.

Forse la grande opera Debenedetti l’aveva già scritta prima di questo disilluso 1946, che festeggia sconsolatamente l’anniversario della Liberazione: le prime due serie dei Saggi critici, da quelli su Proust, Saba, Croce, Radiguet, Cocteau, De Sanctis a quelli su Pirandello, Svevo, Bontempelli, Palazzeschi, Papini, Marinetti, Moravia., Moretti, Panzini, D’Annunzio, fanno un grande saggista cui rivolgersi sempre per leggere tali autori: poeti e narratori che fanno esplodere verso il lettore senso della quotidianità dello scrivere e del vivere.

Di sicuro la scrisse dopo il 1946, con gli altri tre volumi di saggi (dalla terza serie di Saggi critici a Intermezzo, al Personaggio-uomo). Se non bastasse, non era bastato, forse non sarebbe bastato. E allora ci fu la sua “epifania”, la rivelazione del suo destino: quei quaderni delle lezioni universitarie dove I’ “umile” e quotidiana attività del professore va ad incontrare la verità lungamente cercata, e raggiunge lo scopo che ormai non osa più dichiarare: il mito “personale” senza il quale non c’è il capolavoro, quello che nasce dalla coincidenza di progetto e destino.

Era previsto dal mito che egli non potesse riconoscerlo. Debenedetti non avrebbe voluto che si pubblicassero i corsi di lezioni che, stampati postumi, sono diventati testi insostituibili per capire il Novecento. Vinceva proprio mentre perdeva. Come Zeno, il fratello vincente dei protagonisti dei romanzi di Svevo, quello a cui la vita all’improvviso si mette a dare carezze, invece di cazzotti.

NOTE

1 G. Debenedetti, Saggi critici. Seconda serie,, Milano, Mondadori, 1955; ora Venezia, Marsilio, 1990, p. 58.
2 G. Debenedetti, Il personaggio – uomo nell’arte moderna. In Il Personaggio – uomo, Milano, Il Saggiatore. 1970; ora in Personaggi e destino, a c. di F. Brioschi, Milano, Il Saggiatore Studio, 1977, p. 207.
3 G. Debenedetti, Personaggi e destino, In Personaggi e destino, cit., p. 119.
4 Ibid., pp. 119-120.
5 G. Debenedetti, Lettere a Umberto Saba, in “La Rassegna della letteratura italiana”, maggio – dicembre 1985, a c. di A. Stara.