Debenedetti e il cinema

di Guido Aristarco

Tra il 1925 e il 1960, Proust appare ripetutamente negli scritti di Giacomo Debenedetti, e vi appare in modo tale da poter esser definito, rispetto all’insieme di questa sua opera critica, ad un tempo come oggetto privilegiato e come modello interiore. Al pari di tanti altri intellettuali, da Lukács ad Argan,  anche Giacomo Debenedetti denuncia – siamo nel lontano 1927 – « una assai parca esperienza di frequentatore del cinematografo ». Si trovava proprio in quell’anno, scrive su “Solaria”, nel momento « delicato in cui le impressioni cominciano ad uscire dal limbo dell’inarticolato, cominciano a cristallizzare, ma non sono ancora divenute materia così limpida da potere criticare e ragionarci su » . Il cinema tuttavia non gli era del tutto estraneo, faceva in qualche modo parte delle sue “abitudini”. « Ieri, a volerne discutere, mi sarei ridotto a dover giustificare un disinteresse quasi aprioristico » confessa in quell’occasione: « Con tutta probabilità, sarei andato ad annegarmi nei luoghi comuni della diffidenza. Domani forse cadrei in quelli dell’entusiasmo. E, per di più, mi troverei aver già lette troppe polemiche, discussioni, inchieste e teorie sul cinematografo: dovrei misurare la validità delle eventuali mie opinioni su quella delle altrui ».

Teorie sul cinema si intitola l’ “estetica in nuce” pubblicata un anno prima da Antonello Gerbi sul “Convegno”; e al 1916 risalgono l’Estetica del cinematografo apparsa a firma di Bellonci in “Apollon” e il Manifesto dei futuristi; L’antiteatro di Luciani esce nel ’28; e, per rimanere in Italia, al “Convegno” di Enzo Ferrieri venivano proiettati, a cominciare dal ’26, film d’avanguardia come Entr’acte e altri che poi sarebbero diventati dei classici: da Luna di miele di Stroheim a La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, da Variété di Dupont a La febbre dell’oro di Chaplin, non escluso Il viaggio al Congo di André Gide. In attesa di misurare la validità delle sue opinioni su quella di altri, Debenedetti riconosce intanto che « una tradizione critica e intelligente intorno al cinematografo, un gusto vero e proprio sull’arte cinematografica si vengono costituendo ». Continuano le grandi conversioni di intellettuali; ecco, altro esempio, quella del proustiano Guglielmo Alberti. « Ogniqualvolta nell’opera di Proust (ed è un’opera di ieri) si tocca il cinematografo è sempre in tono spregiativo » premette. Nel secondo volume del Temps retrouvé l’obiezione, ricorda, è così formulata:

La letteratura che s’accontenta di “descrivere le cose”, di rilevarne miseramente linee e superfici, malgrado la sua pretesa di realismo, è la più lontana dalla realtà, e quand’anche tratti di glorie e di grandezze è quella che ci impoverisce e ci attrista maggiormente, poiché interrompe bruscamente ogni comunicazione tra il nostro “io” presente e il passato di cui le cose serbano l’essenza, e l’avvenire in cui ci sollecitano a gustarle.

Se la « realtà si riducesse a questa specie di storie » continua Proust,

di rifiuto dell’esperienza press’a poco identico per ognuno, perché, quando diciamo: una brutta giornata, una guerra, un ristorante illuminato, un giardino fiorito, tutti sanno quel che vogliamo dire; se la realtà si riducesse a ciò soltanto, certo basterebbe un film cinematografico di queste cose, e lo “stile” e la “letteratura” che si scostassero dai loro semplici dati, non sembrerebbero che un’esercitazione esteriore e artificiale.

E domanda: « Ma è poi proprio questa la realtà? ». No di certo, risponde Alberti; ma neppure quello il cinematografo. L’autore della Recherche commenta – deve esser rimasto all’ “arrivo del treno” e all’ “annaffiatone inaffiato” o a poco più, anche se nel ’20 è già uscito a esempio Il monello di Chaplin. Nonostante la confusione ancora grande, vari “stili” si sono già delineati nel ’29, l’anno in cui Alberti redige queste sue “cronache” cinematografiche; e, tra gli stili, sottolinea quello “cosiddetto tedesco” (di un Murnau, o di un Dreyer) « che avrebbe più meravigliato » Proust: « mi fa ogni volta pensare ai lenti voli di quel suo mirabile telescopio col quale c’introduce ai misteri di una bellezza plastica insospettata ».

Il film esprime con i suoi « mezzi e con la sua “tecnica”, dei sentimenti e degli affetti » riconosce già nel ’27 il proustiano di ben altro livello e spessore Giacomo Debenedetti; e « non sarà lecito », sottolinea con forza, « parlare di “verismo” o di “illusione del vero” ». Risultante sui generis di un’invenzione poetica e attiva e di una testimonianza documentaria, il cinema trova la sua più grande “risorsa” nello scaturire dall’occhio visionario e creativo di un poeta combinato con l’occhio, che può sembrare meccanico e senza anima, della macchina da presa – sostiene al “Convegno” nel ’31, riprendendo e sviluppando il discorso gerbiano del ’26 sulle “teorie sul cinema”. II regista autentico trova nell’obiettivo un nuovo occhio, il suo – continua -, ne fa uno strumento esplorativo, che segue i desideri di osservazione e di scoperta, percorre le strade dell’inquietudine umana per riportarne tali documenti che forse il palpito dei nostri stessi desideri, i soprassalti della nostra stessa inquietudine ci avrebbero impedito di fissare. Debenedetti opera dunque una fondamentale distinzione per il chiarimento di un equivoco dal quale sono derivate, e talvolta ancora oggi derivano, tante incomprensioni e sospetti dinanzi al nuovo mezzo espressivo, a cominciare dall’obiezione proustiana.

Estendendo al cinema le proprietà dell’ “occhio strabico” – che guarda il mondo esterno e l’occhio che fissa il mndo interiore – Debenedetti riconosce all’obiettivo la facoltà di scegliere il materiale: quei “segni” che, in quanto tali, dipendono dalle angolazioni e stanno al posto della realtà, le inquadrature, a loro volta selezionate ed elaborate in sede di montaggio. Nel respingere in questo particolare caso il suo amato Proust, egli si immerge nel non meno amato Pirandello di Si gira… che – e siamo nel ’16 – non condanna affatto il nuovo strumento di espressione ma la « civiltà che lo asserva e lo deforma a suo modo », l’« aberrazione naturalistica » di chi lo vuole testimone fotografico della realtà e così quanto più esso si limita alla registrazione dei fatti tanto più dalla loro vera essenza si allontana. È rivelatore che Pirandello abbia ambientato la vicenda nel mondo cinematografico, osserverà molti anni dopo Debenedetti, e che l’operatore Serafino Gubbio, il quale aveva iniziato il diario affermando che c’è un “oltre” in ognuno di noi e nelle cose, un “di là da noi stessi”, finisca per essere « una mano che gira una manovella », pura presenza fisica, e come tale perda l’uso della parola, diventi metaforicamente muto.

Nell’ambito di quella « divorante curiosità intellettuale » (la Pampaloni sottolineata in Debenedetti, questa conversione al cinema, tra le più dialettiche e di largo respiro, trova adeguata e oserei dire regolare collocazione nel critico del naturalismo, si lega con il discorso sul romanzo del Novecento e i reciproci influssi dei linguaggi artistici. Essa fa parte di una personale autobiografia nella biografia di una generazione. Non Murnau e Dreyer, Dupont, Pabst e Vidor – i registi fatti conoscere dal “Convegno”, creatori dei primi stili nella moderna tecnica di ripresa -, non la Garbo o Chaplin sono e possono essere definiti con la parola coniata da Delluc, “cineasti”. Cineasta per Debenedetti « è, è stato e rimane l’intellettuale convertito al cinematografo », un André Gide « quando con la superiore eleganza del grande artista letterario » compone « un reportage cinematografico del suo Voyage au Congo, oppure quando commenta nella sua critica lucida, spaziosa e intelligentissima gli effetti sonori di Alleluja! ». (È appena il caso ricordare che anche Debenedetti ha praticato la più moderna delle tecniche espressive: ha partecipato a sceneggiature, tradotto dialoghi di film stranieri, redatto commenti parlati per cinegiornali.)

Non è accidentale che le principali conversioni portino date « molto chiare e risalgano ad opere eminenti » quali Intolerance di Griffith o La corazzata Potémkin di Ejzenstejn, osserva Debenedetti, e che l’intellettuale, il cineasta si sia per esempio domandato « che cosa poté significare » il Chaplin delle “comiche” e dei medio e lungometraggi come La febbre dell’oro. Fu proprio questo film « a scoprire la linea profonda e interiore di tutti quegli sparsi accenni di comicità, a spiegare che le trovate chapliniane erano altrettante apparizioni di uno stile » . Cineasta nell’accezione riferita è dunque anche Rudolf Arnheim, con il quale Debenedetti possiede analogie di fondo e lavora, tra l’altro, per una importante enciclopedia del cinema rimasta incompiuta (le leggi razziali sono ormai operanti). Quando, alla fine degli anni Venti, in opposizione al luogo comune secondo
il quale il cinema sarebbe una macchina per stampare la vita, Debenedetti insiste sull’apparente tara realistica del nuovo mezzo e che è proprio questa pseudo tara a conferirgli forza e ad innestarlo « nelle più vive vicende del gusto contemporaneo » , l’accordo con il giovane studioso della Gestalt appare evidente. La sfida da cui parte Films als Kunst è appunto di dimostrare l’antinaturalismo del cinema, il divario che esiste tra le immagini della natura e le immagini del film; in questi fattori differenzianti le possibilità espressive, creative delle inquadrature.

Allora e in molti casi anche dopo, al ricorrente accendersi di polemiche e sospetti sul cinema come arte, potremmo dire che Debenedetti abbia opposto la stessa linea critica adottata per il romanzo del Novecento, e che non soltanto per il romanzo abbia avuto ragione con il tempo, individuando nel continuo confronto con le altre, le opere che hanno finito per contare: le opere anzitutto di Proust, Jovce, Kafka, Pirandello da una parte e, dall’altra, quelle di Chaplin, Murnau, Dreyer, Ejzenstejn sino all’Eclisse e Deserto rosso di Antonioni. Anche per il film – certi film – il problema base rimane lo stesso: vedere quale essenza si nasconda dietro le cose (le inquadrature), individuare quella “realtà seconda” più profonda e stabile e vera rispetto all’esteriorità vistosamente e sensibilmente apparente. Anche in un Bergman, in Bresson e Bunuel, nel Welles di Citizen Kane o nella von Trotta di Anni di piombo o nel Godard de La cinese – così ricchi di intermittenze del cuore, epifanie, rimandi all’ “oltre” – la « cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere qualcosa d’altro »; anche la loro narrativa, respinta la “necessità”, riposa sull’onda di probabilità. Primi, primissimi piani, e particolari apparentemente
insignificanti, indagano e mostrano, sotto la scorza di volti spesso terremotati, lineamenti che squilibrano le facce – la “maschera” – i dissidi sommersi e nascosti nella “bussola della psiche”, lo stato di emergenza, pericolo e insicurezza nell’orizzonte degli eventi.

È dunque possibile, legittimo allargare la nota tesi debenedettiana al cinema: oggi narrativa e scienza « sembrano trasmettere, con codici diversi, lo stesso tipo di informazione su ciò che maggiormente interessa la natura dell’uomo e del mondo » . I prestiti richiesti alla fisica moderna riguardano anche una particolare narrativa filmica. Del resto credo abbia ragione Giansiro Ferrata quando, nel 1967 afferma che, sul “Convegno” e in altre riviste, i saggi teorici sul cinema di Debenedetti « aprirono una prospettiva nuova, in sostanza, per criteri d’estetica non soltanto relativi a quest’arte ». È anche da rilevare che, contrariamente a quanto si crede ed afferma, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo non « è solo in parte sul cinema ». Intanto invito a ricordare che quel memorabile saggio – che conclude stupendamente l’avventura del lavoro intellettuale di Debenedetti, la sua autobiografia critica – è la relazione base ad un convegno su Forme della comunicazione cinematografica anche in rapporto alla narrativa e alle esperienze televisive: relazione affidata al grande critico su mia proposta dall’allora direttore della Mostra di Venezia, Luigi Chiarini, e per la prima volta pubblicata, sia pure non integralmente, sulla rivista “Cinema Nuovo” (e anche su questo, assoluto silenzio nelle bibliografie).

Riluttanza, residui di sospetto da parte di letterati nei confronti del cinema? « C’è una tale specie di sospetto che sembra insuperabile o destinata a noti risolversi mai più in benevolenza » annotava Debenedetti agli inizi degli anni Trenta.

II cinematografo visitato di rado e con irregolarità per colmare le ore più pigre, quelle in cui il pensiero o la fantasia caparbiamente disertano il cervello lasciandolo tristo; frequentato insomma da un animo prevenuto e decadente come i teatrini di varietà della barriera dove si esibiscono le vecchie stelle nel loro abito rosa stinto – il cinematografo rappresenta il quarto d’ora inconfessabile, o confessabile soltanto fra le riserve e i distacchi di un ironico pudore.

Sospetto e dispetto, « è cosa di cui conosciamo fin troppi esempi » . In uno dei suoi “incontri” con Ottavio Cecchi, Debenedetti aveva riferito:

II critico, a costo di sembrare inattuale, deve [...] tenere in salvo per l’indomani i valori transitoriamente sconfessati, se crede davvero che siano valori. Posto che egli non si sia sbagliato (ma allora lo si vede subito dai difetti della sua dimostrazione critica), verrà il giorno in cui ciascuno di quei valori apparirà come una tappa che è stato necessario attraversare per giungere a nuove e più profonde forme di espressione e quindi a un progresso di tutta la creazione artistica.

Riandando all’affermazione di Ferrata, il cinema ha rappresentato appunto per Debenedetti una tappa necessaria del suo percorso intellettuale e del progresso della creazione artistica nel suo insieme. Tenuti in salvo per l’indomani i valori insiti nel nuovo mezzo espressivo e transitoriamente sconfessati, ritenendo davvero che quelli fossero valori, vinta la “scommessa”, nel suo ultimo saggio ecco intanto riprendere e ribadire l’ipotesi di partenza per la scommessa stessa. In garbata polemica con Jean Bloch-Michel e l’ “école du regard” in generale, domanda:

E proprio sicuro, per esempio, che l’obiettivo sia un occhio indifferente? O non è piuttosto un occhio disponibile a captare tutte le immagini che gli vengono proposte, ma quelle soltanto? Indifferente sarebbe se guardasse tutto, di continuo, senza discriminazioni; invece si apre solo se noi vogliamo, e quando vogliamo; si adatta alle miopie, presbiopie, allargamenti e restringimenti di campo da noi decisi coi cambiamenti di fuoco e di lente; considera le cose sotto l’angolo che noi abbiamo scelto, accetta il nostro anodo di presentargli e illuminare gli oggetti. Di quanti aggettivi, e tutt’altro che ottici, tutt’altro che innocenti, si fa conduttore con queste connivenze. Di quante figure retoriche, metafore, sineddochi, traslati diventa complice [...] Si dirà che stiamo cadendo in un superstizioso animismo. Ma chiunque abbia adoperato la cinepresa, fa su di lei un transfert che ne abolisce l’indifferenza.

Notissima la chiusa della Commemorazione provvisoria:

Mettendo da parte le teorie, la pratica ci lascia intravedere il pericolo che stia nascendo o sia già nata un’arcadia dell’antipersonaggio. E allora, a chi votarsi se non al vecchio, ma ancora vegeto, solerte, servizievole personaggio-uomo?

Poco prima, nello stesso saggio, si legge:

Il cinema favorisce le resistenze del personaggio-uomo, che mettono quasi sempre in scacco l’antipersonaggio.

È un modo particolare per respingere la resa senza condizioni alla “crisi”, all’uomo-particella? Nel confutare un Antonioni “maestro dell’antipersonaggio”, Debenedetti sostiene che il regista dell’Eclisse (civetteria da fine letterato, scrive Eclissi) e del Deserto rosso, nell’« accettare le leggi di probabilità » si « rivela un narratore moderno » : narratore moderno, come si è visto, nell’accezione debenedettiana; trasponendo il linguaggio della fisica non soltanto alla letteratura tua anche al cinema. « Quando un romanziere si sente ancora in debito verso una poetica precedente (mettiamo, appunto, il naturalismo) » – scrive Debenedetti nel 1963 -

e nello stesso tempo è già attratto dal “nuovo dover essere” della narrativa (lo avverte anzi come qualcosa di inevitabile), finisce cori lo scrivere il romanzo di se stesso di fronte alla materia del suo possibile o impossibile romanzo.

È che cosa accade infatti all’ultimo Antonioni in ispecie, da Blow up in avanti, se non proprio questo e, nel caso specifico, Identificazione di una donna non offre all’autore la probabilità di identificare se stesso, di scrivere il proprio romanzo?

Appena quattro anni prima della Commemorazione provvisoria era apparso sugli schermi L’anno scorso a Marienbad; per l’ “école du regard” anche il cinema è minacciato, il “sospetto” di cui soffre il romanzo sembra coinvolgerlo e contagiarlo. « Come spiegare altrimenti infatti l’inquietudine che sull’esempio dei romanzi provano certi registi, e che li spinge a fare film in prima persona inserendovi l’occhio di un testimone o la voce di un narratore? » si interrogava e interrogava Nathalie Sarraute, convinta che il cinema, “arte ricca di promesse”, fosse sul punto di « far profittare delle sue tecniche nuovissime la nuova narrativa ». Marienbad è uno, ed il più esemplare di quei film; Robbe-Grillet ne è il coautore, anche lui sicuro che il cinema sia un mezzo di espressione predestinato al nuovo genere di racconto, che sostituisca il monologo interiore con il monologo esteriore e coniughi soltanto il presente. « E il cinema? Quale accoglienza ha fatto all’antipersonaggio? » domanda Debenedetti. « Ottima, sarebbe da supporre » risponde, « se è vero che ne è stato lui il principale responsabile, come Jean Bloch-Michel ha ripetutamente spiegato ». Ma si è vista l’obiezione che Debenedetti rivolge al critico francese, che egli contesta anche a proposito dell’indicativo presente cui sarebbe condannato il cinema.

Principale responsabile o no del l’antipersonaggio – Debenedetti lo esclude il cinema è uno dei protagonisti della Commemorazione provvisoria: riguarda criteri di estetica non soltanto relativi alla narrativa letteraria, « lo scritto maggiore e di più ricca apertura sul nostro tempo » di Debenedetti, l’ultima sua pagina critica, giustamente definita da Pampaloni “famosa” e “affascinante” e nella quale « egli rifiutava, pur dopo il trionfo, in decenni e decenni di narrativa, del personaggio-particella, di dire addio al personaggio-uomo » (quali e quante assonanze con il Calvino del “mare dell’oggettività” e la “sfida al labirinto”!). Partito da « una assai parca esperienza di frequentatore cinematografico » confessata in “Solaria” nel 1927, ormai egli è diventato un “frequentatore del cinema”, anche se, come sottolinea, “purtroppo intermittente”. Una testimonianza, e non ultima, ci viene dai libri che escono presso Il Saggiatore di Alberto Mondadori, nelle collane “I Gabbiani”, le “Silerchie”, “Specchio del mondo” e in particolare nella “Cultura”: il catalogo di quella grande e anticipatrice esperienza editoriale – carne e sangue di Alberto e Giacomino allinea titoli di Arnheim e Kracauer, Leyda e Jacobs e Manvell. Una tradizione critica e intelligente, un gusto vero e proprio intorno al cinema, si sono ormai costituiti, e fanno parte degli abiti culturali di Debenedetti; le impressioni a riguardo divenute in lui materia talmente limpida da poter egli ragionarci su e misurare la validità delle sue opinioni su quella degli altri.

Se il giudizio sul cinema è cambiato, « anzi se oggi esiste un giudizio sul cinema, al di fuori dei corti apprezzamenti pratici e sentimentali », è anche merito del cineasta Debenedetti. Convinto che l’intellettuale « è per diritto il primo commentatore di un’arte nuova », ha lottato « con la tenacia e l’ardimento dei pionieri ». Pochi come lui hanno impiegato il mirabile telescopio proustiano per introdurre i renitenti e i refrattari ai misteri dell’arte nuova, esteso il campo di osservazione per illuminare – scommessa non ultima e ancora una volta vincente nel suo romanzo – l’iscrizione del film all’anagrafe del Parnaso.