Debenedetti e i Profeti biblici

di Rosita Tordi

« Si rifletta che l’ultima parte del secolo XIX -scrive Debenedetti nei quaderni di appunti per le lezioni universitarie sulla poesia del Pascoli vede nascere in grande stile la storia delle religioni [...] vede spingersi fino all’utopia tutte le forme di storia, di ricerca letteraria e di linguistica comparata [...] Si rifletta che in quel periodo, con grandi ricerche sulle tribù primitive e sui loro riti e religioni si fonda l’etnologia, la quale poi doveva essere chiamata a rispondere sul foggiarsi degli archetipi [...]. Si rifletta che in quello stesso periodo maturano i germi della psicologia di Freud: tentativo di andare a trovare dentro la psiche una specie di primordio [...]. Si rifletta come il grande filosofo-presago e poeta termometro di quell’età parte dai più rigorosi e geniali studi di filosofia greca, per subito tuffarsi a cercare l’origine – è addirittura una parola d’ordine – l’origine della tragedia; e subito si mette a lavorare su due personaggi mitici: Dioniso e Apollo e dà una psicologia dei miti, nella quale pare manchino soltanto alcune precisazioni sperimentali da laboratorio psicoterapico per mettere a nudo certi dati, sui quali si eserciteranno gli approfondimenti e le ipotesi di Freud. » (1)

È uno di quegli sguardi d’insieme che punteggiano il discorso di Debenedetti, professore di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea, prima all’Università di Messina poi a Roma e, ancora una volta, nel rilevare le forze in campo, il critico sa scegliere prospettive lontane che gli consentono di dilatare lo spazio di osservazione e istituire genealogie e procedere a rilevamenti spesso inconsueti. È il caso dell’accostamento Nietzsche/Freud che, oltre a sottrarre al freudismo parte della sua carica di novità dirompente, sbalza la presenza di Nietzsche al centro della più avanzata problematica culturale europea alle soglie del secolo.

Se il dispiegamento della scienza nella tecnica si configurava già allora come il problema più inquietante, che imponeva una rivalutazione dell’etica imperniata sul concetto di responsabilità, la riflessione debenedettiana dei primi anni Venti è, in questa direzione, una testimonianza molto avvertita. Documento singolare i testi di cinque conferenze sui Profeti, tra le carte ancora inedite del suo archivio.

Riguardo alla “non confessionalità” di tale ricerca Debenedetti è molto esplicito: « Ricordiamo – si legge nell’ultima di quelle conferenze – una volta per tutte, che “quando” in questi nostri ragionamenti diciamo: Dio, vogliamo intendere: Dio dal punto di vista che gli uomini se ne fanno: altrimenti non avrebbe senso parlare di un’evoluzione di Dio. Dio in sé – commenterebbe un teologo – è perfetto ed eterno; quindi non è soggetto ad evoluzione » .

Molto lucido e consapevole è il proposito del giovane Debenedetti di mantenere la sua ricerca in uno spazio in cui libertà e metafisica non siano assunti come termini antitetici: gettare ponti tra i vari schemi concettuali, utilizzare gli spostamenti da una tradizione all’altra, si palesano fin d’ora come “abitudini” mentali mai abbandonate neanche in seguito.

« Coi Profeti – esordisce Debenedetti – Iddio si sottrae da ogni agevole e rassicurante contatto con gli uomini e lascia agli uomini una semplice ed enorme massima morale: “Agisci secondo il bene e la giustizia”. Le applicazioni di questa massima debbono essere sofferte e discusse nella intima solitudine dell’anima umana, senza che Iddio più intervenga a con-fortare l’uomo e ad assisterlo nelle azioni singole.
Così con i Profeti la figura di Dio si muove, per così dire, in un doppio senso; da un lato si affonda nelle anime degli individui come norma di agire, diventando un ordine di controllo su cui l’uomo deve saggiare, non pure le azioni, ma, in un segreto ancora più intimo, le decisioni e le intenzioni.
D’altro lato si esilia per i più lontani cieli. »

Questo doppio movimento consente alla ricerca debenedettiana di tenersi saldamente ancorata alla terra e all’uomo per cui l’alto e il basso finiscono per non riconoscersi più nell’idea tradizionale di Cielo e Terra ma, come avviene nella mistica ebraica, dove il salire può identificarsi con lo scendere, il punto più alto coincide con il punto più basso, in un procedimento che viene ricondotto dentro la coscienza dell’uomo.

« Quando vedete un popolo – avverte Debenedetti nell’introdurre la seconda conferenza – che si schiera sulla scena della storia ad intonare in coro il gran nome di Dio, potete star certi che nella buca del suggeritore è nascosto qualche umano sentimento che non sapeva darsi pace se non formulando quel nome. »

E nel caso degli antichi ebrei è l’inguaribile amore del nomade per qualcosa di vasto, di universale, a determinare la configurazione del divino: « Gli antichi ebrei nomadi amarono da nomadi la natura e da questo amore nacque Iddio. [...] Ma se si fossero fermati a questo punto non avrebbero dato vita ad altro che a una generica religione di popoli nomadi. Ne sarebbe uscito, al limite superiore, quello che i teologi chiamano un panteismo. [...] essi giunsero a concepire, forse a loro insaputa, un vero e proprio monoteismo. La psicologia di questi pastori semiti presentava un carattere che non stenteremo a riconoscere, giacché si è conservato perfino in noi » . E subito dopo, in un compiaciuto gioco di specchi: « La natura dell’ebreo è calcare rocciosa assetata. Posando gli occhi su qualunque cosa, l’ebreo la sveste e la spolpa: mira allo scheletro. E nemmeno lo scheletro gli basta; ché egli vuole andare più in là; e dissolvere le cose in uno spirito astratto. [...] Questo sguardo che mira all’essenza vale in quanto è capace poi anche di varcare le singole cose per mettersi tutto al servizio di una dominante passione unificatrice ». E conclude che è proprio la passione per l’unità a far sì che l’ebreo varchi le qualità particolari di ciascuna potenza fino a cogliere quanto di più intimo e profondo si cela in esse e che le rende tutte tra di loro eguali, fino a confonderle le une con le altre: « Da questa confusione riassuntiva esce Iddio, come dai numerosi strumenti di un’orchestra profonda sorge sola e avvolgente la sinfonia.
Ben presto gli elhoim, le potenze, una pluralità, vengono considerate come una cosa sola e anche la lingua adopera il plurale elhoim come singolare », dove si direbbe che il teologico riceva un significato in cui la ragione possa continuare a muoversi a suo agio.

Profonde suggestioni deve aver procurato al giovanissimo Debenedetti la lettura del libro di Rudolf Otto Il sacro, di cui sarà esplicita testimonianza nel saggio su Niccolò Tommaseo. (2)

Cercando di darsi una ragione dell’ “incantesimo sonoro” che esercita su di lui la espressione tommaseiana “tremendo mistero”, è costretto a constatare: « Può darsi che gli sia venuta casualmente. Ma per noi è scritta e fortemente sottolineata in uno dei più suggestivi punti d’attacco del libro di Rudolf Otto sul sacro. È un libro uscito nel secondo decennio del nostro secolo. Ma noi l’abbiamo letto, non possiamo sottrarci all’azione che ha esercitato su di noi [...]. Ecco come la storia della nostra cultura rifluisce sulla lettura di scritti nati anche in altri stadi culturali. Evidentemente se il verso del Tommaseo fosse insignificante, se non avesse in proprio quella vibrazione arcana, il gioco delle nostre associazioni-postume, per così dire – non si metterebbe neppure in moto.
Stando così le cose, ecco una prova di come i poeti, quando sono veri, si possono parzialmente ricostruire, interpretare, spiegare in base alla storia della nostra cultura ». (3)

Efficaci stimoli per una riflessione sul proprio atavismo ebraico devono essergli stati offerti in quegli anni anche dalla lettura di Jacob Fromer, di Israel Zangwill, l’autore di I sognatori del ghetto e dalla frequentazione del pensiero di Martin Buber.

Si ripercorrano le riflessioni buberiane sulla origine del mito: « In tempi d’alta tensione ed intensità della vita interna l’uomo quasi si libera dalle catene della funzione di causalità; egli interpreta il fenomeno del mondo come un fenomeno supercausale, pieno di senso, come la espressio-ne di un senso centrale che non può essere afferrato col pensiero, ma colla potenza desta dei sensi e colla vibrazione ardente di tutta la personalità; come una realtà evidente, che si offra in ogni molteplicità. Di tal natura è per esempio la relazione dell’uomo veramente vivente verso l’immagine e la sorte dell’eroe; egli può collocarlo nella causalità, ma gli dà nondimeno carattere di mito, poiché la considerazione mitica gli apre una verità più profonda, più intera di quella causale e gli scopre nella più intima profondità l’immagine amata e beatificante. Così il mito è una funzione eterna dell’anima », recita un passaggio di Sette discorsi sull’ebraismo, nella prima traduzione italiana del 1922.

La lettura dell’opera di Buber, oltre a confermare ipotesi, suggestioni culturali ricevute attraverso altri canali, consente a Debenedetti di rimeditare in chiave di attualità il senso del proprio atavismo ebraico.

Stimolante in tal senso la contrapposizione di religione e religiosità nei termini in cui è formulata in Sette discorsi sull’ebraismo: « [...] religiosità – scrive Buber – è il principio creativo, la religione quello ordinatorio; la religiosità ricomincia nuovamente con ogni giovane che sia scosso dal mistero; la religione vuole costringerlo ad una struttura stabilita una volta per sempre; religiosità significa attività – un modo elementare di porsi in relazione con l’assoluto -; religione vuol dire passività – un assoggettarsi alla legge tradizionale -; [...] per la religiosità i figli si levano contro i padri onde trovare il loro proprio Dio; per la religione i padri condannano i figli perché questi non si lasciano imporre il loro Dio ». (4)

In questa conflittualità di ordine religioso Debenedetti può ritrovare i termini di una tensione che è totalmente riportabile alla situazione culturale europea del primo Novecento: la storia interna dell’ebraismo, nella visione buberiana di lotta tra il “profeta” e il “sacerdote” – « Il profeta vuole la verità, il sacerdote vuole il potere. Sono i tipi eterni della storia dell’ebraismo [...]. I profeti hanno rinnovato la religiosità ebraica » (5) – diventa dunque l’oggetto privilegiato della ricerca debenedettiana proprio in quanto funzionale a una riflessione assai più generalizzata che riguarda il destino dell’uomo europeo “qui e ora”.

Trova senso in questa ottica l’insistenza con cui Debenedetti sollecita Umberto Saba perché intervenga presso il Circolo giovanile ebraico di Trieste, dove vorrebbe tenere le sue conferenze sui Profeti. E in una lettera non datata, ma assai probabilmente scritta nel febbraio/marzo 1924, Saba risponde: « Ti prego di non tenere conferenze sui Profeti: erano degli esseri orribili, mancati e cattivi. Non volevano nemmeno che i Re approvvigio-nassero d’acqua la città per un caso d’assedio; tutto doveva fare Jehova, cioè un orribile parto della loro fantasia. Parla, se mai, di Gesù ». (6) E a una successiva sollecitazione, Saba risponde in una lettera del 28 marzo 1924:
« Parlo malvolentieri dei Profeti, che ho l’idea (è una verità psicologica) che portino sfortuna. Erano certo brutti esseri e non so come e in che cosa possano affascinarti. Ma a parte la mia personale avversione, credo che mi sarebbe assai facile farti ripetere le conferenze a Trieste, al Circolo giovanile ebraico, che aggradirebbe molto l’offerta. Ma dovrei sapere con precisione quando intenderesti tenerle e in quante volte ». (7)

E ancora Saba in una lettera del 25 aprile dello stesso anno, dopo aver confessato: « [...]. non farò quello al quale in questa primavera infernale sembra invitarmi la nevrastenia di cui soffro », ed essersi lamentato per la scarsa comprensione del giovane amico: « Tu m’hai scritta una lettera breve (troppo), ed enigmatica per quel che riguarda te, per quel che riguarda me idiota. Che cosa vogliono dire le tue parole sul suicidio io non sono riuscito a capire. Non si tratta di corrompere la propria sorte, di incensarla per ottenere dei compensi (quali compensi?), ma, nel mio caso, di una malattia la quale, a differenza di tutte le altre, ha la squisitezza di lasciare all’ammalato stesso il compito di trarre le ultime conseguenze del suo soffrire, di una malattia insomma che invece di uccidere come qualunque altra malattia umana, ti lascia una scelta più dolorosa e straziante di qualunque agonia », torna di nuovo sull’argomento delle conferenze: « Ed ora vengo ad altro. La tua lettura sui profeti, a Trieste. Il Circolo giovanile ebraico o qualcosa di simile, perché non ricordo mai il nome, s’era dimostrato assai contento della tua proposta. Persona in esso circolo influente m’aveva detto che ti avrebbero scritto, offrendoti anche (ma con la speranza che avresti rifiutato) le spese del viaggio. Non so poi se l’hanno fatto o no perché tu nulla me ne scrivi. Devo pero dirti che questo circolo ebraico è supremamente malinconico; oltre al non andarci che poca gente, quella che lo frequenta non è fatta di ascoltatori ideali. Alcune bambine sì, sono molto carine, ma il resto [...]. Credo invece che non mi sarebbe molto difficile farti tenere una qualche conferenza (non però sui profeti) alla Minerva; se proprio ci tieni scrivimi » . (8)

Non risulta che Debenedetti sia riuscito a leggere a Trieste quelle conferenze sui Profeti e tuttavia la ossessiva insistenza documentata dalle lettere di Saba è la esplicita indicazione che egli ritiene quella riflessione importante per la stessa messa a punto del suo modo di intendere l’impegno del critico: una esperienza totale di vita, intellettuale e morale.

« I Profeti - recita un passaggio della prima conferenza - gettano un fascio di luce su tutta quella convulsa materia interiore che dà soltanto sordi fremiti finché l’uomo la ignora, ma che dal giorno in cui ne abbia scoperto il bandolo, chiede con prepotenza implacabile di essere obbedita. La scoperta della coscienza significa senz’altro la scoperta del rimosso. »

Senza alcun dubbio, se non altro per la mediazione di Saba, già prima del 1924 Debenedetti si è accostato alla psicoanalisi ed è assai probabile che fosse a conoscenza anche del saggio sul Mosè di Michelangelo, che Freud scrisse nel 1914 e ripropose proprio nel 1924. Si percorra il passaggio del testo freudiano: « Ora per cominciare, dovrò confessare che riletti i libri dei Profeti, mi sono trovato a desiderarmi qualche intrepida facoltà di esprimermi che mi permettesse di mettervi sott’occhio, in uno scorcio adeguato, tutta la complessità fulminea, ribollente oceanica di quei libri. Ma questa impresa non è da me; ed il solo che l’abbia potuta tentare con fortuna è, per quanto ne so, Michelangelo Buonarroti. Sono là i suoi Profeti, assisi sugli alti stalli della Sistina ed il pennello che ne modellò le forme auguste e severe aveva lo stesso tremito, convulso e ardente, della stecca che trasse dalla pietra il cruccio iroso di Mosè. Spira in quelle figure solennissime, l’implacabile e ostinata disperazione, la quale attraversa da un capo all’altro, tutto l’Antico Testamento ». (9)

Senza dubbio anche in Debenedetti agisce con forza la spinta a operare nei confronti dei Profeti un processo di duplice identificazione: vedere in essi delle figure paterne e al contempo se stessi, figli inquieti di un secolo che si è reso responsabile della uccisione dei padri e la cui assenza avverte ora come dolorosa mancanza. « Erano pur uomini quei Profeti – incalza Debenedetti alla ricerca di un varco attraverso il quale gli sia consentito di accostarsi più da presso – e le loro persone non dovevano certo essere sempre fredde e solenni come pietra, o ardenti come bronzo arroventato; dovevano pur avere i loro momenti di madido tepore. Senza dubbio i loro occhi, oltreché quella fissità tremenda, con cui si posano su di noi, trovarono bagliori e ammiccamenti e lampi umidi. [...] Insomma, dev’essere possibile anche al lettore dei Profeti stabilire con i suoi autori qualunque sia la differenza di statura – un colloquio umano, che abbia i suoi momenti affabili: e non sia soltanto un arduo incontro di una coscienza con una coscienza. »

Il giovane Debenedetti è già pienamente persuaso che bisogna sapersi portare oltre i confini rigidamente segnati dalla psicologia tradizionale per una lettura meno approssimativa della realtà interna. In una sorta di bilancio, nelle ultime battute della conferenza su Geremia: « Venendo a parlarvi dei Profeti, io non ebbi – né potevo avere – intenzioni apologetiche; lasciatemi credere che ho imitato – per quel che era nei miei poteri un certo consiglio che Stendhal offre intorno al modo di scrivere romanzi: “I romanzi – dice Stendhal – sono specchi portati lungo una strada”. lo porto – come posso – uno specchio lungo il cammino percorso dai Profeti proprio in quanto punti miliari della storia non pure di noi ebrei ma di tutti gli uomini » . E ciò che si mostra in questo specchio, sotto il velo della finzione letteraria, è la verità di ciò che noi siamo, dura, implacabile. In tal senso esemplare il tratto del colloquio con il profeta Isaia: « Isaia ha veduto la gloria di Dio [...] perché mentre i Serafini si velavano gli occhi con le ali, egli ha saputo stare fermo a guardare con aperti occhi », dove è illuminato un gesto che è tipico del fare critico debenedettiano.

« Isaia ha guardato e ora racconta; oggettivamente racconta, senza aggiungere particolari di propria invenzione.
E questo si chiama avere un occhio intrepido; nel momento in cui la visione gli appare, Isaia trova la suprema armonia del contemplatore; quella di chi sa di essere degno e maturo per lo spettacolo che ha dinanzi. »

Debenedetti confessa: « Isaia è tipicamente un educatore. [...] e il dramma dell’educatore si compendia tutto in una situazione scoperta e battezzata da Nietzsche che fu, nel nostro senso, un educatore. [...] nell’essere, come diceva Nietzsche, inattuali.
L’educatore deve sentire di essere, agli occhi del popolo, una forza intempestiva, nemica e quasi contro natura ».

Subito dopo il rimando è al poema dantesco: « Forse nemmeno Dante, nelle più accese estasi del suo Paradiso, ha toccato un tal punto di umana grandezza.
Dante non è mai solo in questa prova; sempre una pietosa donna lo assiste. Nell’ora più tremenda, alle soglie dell’Empireo, Dante sente che San Bernardo prega per lui, che intercede per lui.
Ma Isaia non può fidare che su di sé, e trova tuttavia la forza, non pure di guardare ma di offrirsi. Se vi ricordate anche a Dante nel Purgatorio vengono cancellati gradualmente tutti i peccati.
Ma da questo riconquistato candore Dante non trae se non la beatitudine di “esser puro e disposto a salire alle stelle”. Isaia invece verrà tra gli uomini e sa quali pene lo attendano ».

Tutta la conferenza su Isaia è condotta in un compiaciuto gioco di specchi che trova il suo momento più intenso nella affermazione del “sacrificio di sé”.

Si direbbe che Debenedetti pervenga qui alla concezione secondo cui la vita all’altezza della morte è precisamente ciò che fonda la ricchezza prodigiosa e della religione e dell’arte.

La letteratura, in particolare, non farebbe che prolungare, su un altro piano, con altri mezzi ed anche con un’altra efficacia, il movimento costitutivo della religione, le sue implicazioni.

Nella diversità dei suoi aspetti il “sacrificio” verrebbe a configurarsi come l’istante in cui la verità può rivelarsi in tutta la sua estensione, al di là di ogni limite.

« Isaia, fra il delirio del male, si fa arrendevole fino all’ultima stoltezza: la divina stoltezza del martirio. [...] e il popolo allora intende, davanti all’esempio di questo mortale fervore, la forza dell’ideale. [...]
Questa spietata offerta di se medesimo potrebbe perfino apparire cinica nella sua dismisura se la grande pietà di una speranza non la sostenesse; la quale subito le rende il suo vero carattere che è quello di un profondo stoicismo. »

E subito dopo, in una drammatizzazione peraltro molto efficace della figura di Isaia come grande educatore, Debenedetti cita dal testo biblico: « Sì, sulla specola del Signore io sto continuamente durante il giorno e sulla mia guardia sto in piedi durante le notti ».

Debenedetti sa bene che quelle immagini della “specola” e della “scolta” con cui Isaia si raffigura, portano allo scoperto una sorta di impegno bilaterale tra l’uomo e le sue figure interiori, sul quale di fatto egli stesso sta scommettendo tutta la propria avventura di critico. Si affretterà infatti a commentare quel passo di Isaia precisando che per uno scrittore « che è venuto al mondo per dire qualcosa di suo e di significante non è la metafora soltanto un suggello dorato e vistoso al quale si raccomandi la realtà, affinché, varcando le frontiere della fantasia, essa penetri negli animi umani. La metafora non traveste ma rinnova la realtà sotto luci che sono di invenzione e di scoperta ».

Nel caso in questione, se è vero che quella della “scolta” è una posizione elevata, separata, è altrettanto vero che dalla “scolta” dipendono le sorti della collettività.

E tuttavia la ragione più celata e più vera di quella affinità che Debenedetti istituisce col profeta Isaia discende in primo luogo dall’incanto di “saperlo” poeta: « Par di sentire tutta la ricchezza di certe sue solitarie divagazioni per il mondo: in cui le cose gli venivano incontro, parlanti.
Le ha guardate le cose, Isaia: ha sentito a sera, per le strade, il canto delle donne perdute, si è fermato davanti alle svariate opere degli agricoltori e dei marinai: mille dettagli gli si sono impressi nella memoria: la capanna abbandonata in mezzo ad una vigna, il letto pensile sospeso sopra un campo.
E, se le richiama, ha un tocco fermo e solido, un tocco che non trema: con una sua luce abbondante e senza illudenti luccicori, come di oro vecchio », dove pare di ascoltare la voce del suo Saba, di Trieste e una donna o dei sonetti di Autobiografia, e in una prospettiva più lontana si avverte la presenza di Nietzsche: « la nostra musica mostri che è possibile sentire insieme queste tre cose: sublimità, fonda e calda luce, e la voluttà della suprema coerenza », recita l’aforisma Hic Rodhus, hic salta di Aurora, il testo nietzscheano forse più attraversato e amato da Umberto Saba e dal suo, allora “vergognosamente giovane”, critico.

 


NOTE

1. G. Debenedetti, Pascoli. La rivoluzione inconsapevole, Milano, Garzanti, 1974, p. 210.
2. G. Debenedetti, Tommaseo, Milano, Garzanti, 1971.
3. Ibid., p. 16.
4. M. Buber, Sette discorsi sull’ebraismo, Firenze, Israel, 1922, p. 22.
5. Ibid., p. 92.
6. G. Debenedetti, Lettere di Umberto Saba, in “Nuovi Argomenti”, n. 41, novembre–dicembre 1959.
7. Ibid.
8. Ibid.
9. S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, in Opere, Torino, Boringhieri, 1975, p. 304.