Debenedetti e De Sanctis

di Sergio Pautasso

Giacomo Debenedetti è critico che non ha mai occultato troppo le proprie ascendenze, indirizzando sin dall’inizio, ossia dalla prima serie dei Saggi critici nel 1929, i propri interessi verso aree ben definite, anche se un po’ laterali rispetto alle direttrici codificate dell’estetica del tempo. Se oggi si ammira la lungimiranza dell’investimento in Proust e in Saba, per esempio, stupisce invece quella che può sembrare una sortita su Francesco De Sanctis in Critica e autobiografia. Eppure, uno stretto rapporto lega Debenedetti a De Sanctis, che va inquadrato in una ottica adeguata e pertinente se si vuole valutarne appieno la portata, al di là di mitizzazioni o di svalutazioni fuori luogo.

La lezione desanctisiana, a torto considerata “indiretta”, si riverbera invece con grande evidenza di analogie tematiche e strutturali su tutta l’opera di Debenedetti: a seguirne i filoni e a registrarne le apparizioni, vorrebbe dire ripercorrere tutte le tre serie dei Saggi critici e le opere pubblicate postume, in particolare Il romanzo del Novecento, per cercare, inutilmente, di farle rifluire in un ri-racconto critico. Significherebbe, insomma, affrontare tutto Debenedetti. Il limite del presente intervento si circoscrive invece ai soli momenti in cui Debenedetti si confronta direttamente con il maestro “indiretto”: quindi, in primo luogo, la Commemorazione del De Sanctis del 1934, senza però sottovalutare quell’altro cardine del rapporto che è il passaggio insito in Critica e autobiografia del 1927, momento essenziale, questo, nella formazione del pensiero critico debenedettiano, e la dichiarazione di intenti contenuta nella Prefazione del 1929 ai Saggi critici. Prima serie.

Altri hanno già analizzato con acume e finezza il problema, in particolare Ottavio Cecchi ed Edoardo Sanguineti; senza per questo trascurare Francesco Mattesini e Alberto Granese che nei loro libri hanno toccato l’argomento; e neppure dimenticare gli accenni che più o meno si trovano negli interventi di tutti i lettori, gli estimatori, i critici (penso in questo caso a Sergio Antonielli) di Debenedetti. E come poteva essere altrimenti? Per quanto in maniera “indiretta”, Debenedetti dimostra di aver messo a frutto la lezione desanctisiana in più occasioni. Senza voler con ciò rincorrere troppe simmetrie e far quadrare i conti a ogni costo, talune coincidenze sono troppo evidenti per non destare sospetti. Partiamo dalla più esterna, dal titolo.

Debenedetti intitola, in maniera apparentemente anodina, Saggi critici, la sua prima raccolta. Sarà puramente casuale, tuttavia la carica intenzionale affidata al titolo è ribadita dalle altre due serie successive che lo ripetono, quasi a far rilevare la recidività in una sorta di autodenuncia. Altra osservazione, anch’essa descrittiva. Sanguineti ha inscritto la poetica debenedettiana all’insegna del “racconto critico”. Definizione suggestiva quant’altre mai, però il taglio, lo schema, l’impianto degli scritti di Debenedetti rimandano al disegno del “saggio critico” desanctisiano che parte sempre con il proposito di individuare la “cagione dei capilavori dell’arte”. Terza considerazione. Debenedetti pubblica i primi Saggi critici nel 1929 presso le Edizioni di Solaria. La sede è già di per sé abbastanza significativa. Infatti c’è una continuità che si delinea da “Primo tempo” al “Baretti” a “Solaria”, ma a determinarla sono alcune ragioni, legate a una temperie culturale, che non hanno alcun riferimento a un eventuale richiamo a De Sanctis: l’aspirazione europeistica, le suggestioni proustiane, il caso Svevo, altra “aura”, insomma. Ebbene, se ancora oggi risaltano con la dovuta evidenza quegli aspetti, è proprio tale evidenza, e la particolare natura di quegli aspetti, che richiamano alla nostra attenzione anche la possibilità di una non improbabile congiunzione desanctisiana, determinata da certe analogie di moralità e di prospettiva letteraria, in cui i tasselli debenedettiani del titolo, del richiamo nella Prefazione, di Critica e autobiografia rientrano alla perfezione.

Riportiamoci per un momento a quel tempo, 1929: chi tra gli scrittori e i critici di allora pensava a gettare uno sguardo retrospettivo nello stupido Ottocento e in particolare nella critica ottocentesca? Certo c’era il precedente di Borgese e della sua Storia della critica romantica in Italia. Soprattutto c’erano Croce, che però a De Sanctis non ha mai dedicato un volume organico, e poi i crociani con il libro di Luigi Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, ma quanto distante dal modo di indagare e dal tipo di rapporto che andava stabilendo Debenedetti. E poi quelli erano anche i tempi più infuocati delle polemiche fra Strapaese e Stracittà, fra contenutisti e calligrafi, rispetto alle quali De Sanctis e i suoi saggi critici si trovavano proprio fuori gioco. Eppure, mi ha raccontato Soldati che in quei tempi, a Torino, loro erano fortemente desanctisiani, più desanctisiani che crociani, il resto contava poco. Senza voler entrare nel merito di quelle polemiche, né stabilire paralleli impropri, questa rapida schematizzazione serve soltanto a offrire qualche elemento temporale di riferimento per sottolineare la spinta eccentrica del discorso debenedettiano rispetto ai poli della dinamica letteraria di allora.

Si tratta di annotazioni di carattere apparentemente marginale alla sostanza del problema, e pur tuttavia costituiscono una spia che nel caso di un Debenedetti non può essere trascurata. Quel tanto di congetturale e di ipotetico che vi è implicito, rientra nel sottile gioco inventivo che è sempre alla base della ricerca debenedettiana, tesa, come quella di De Sanctis, a verificare le « cagioni dei capilavori dell’arte ». Questo stilema non appartiene al grande De Sanctis dei maggiori saggi critici o della Storia della letteratura, bensì a quello giovanile delle Lezioni sulla storia della critica, capitolo rimasto forse un po’ in ombra durante i vari ritorni al De Sanctis e recuperato con un notevole lavoro filologico da Attilio Marinari dopo il riassunto crociano di Teoria e storia della letteratura.

Nulla autorizza la supposizione, ma non mi stupirebbe se a spingere Debenedetti verso il De Sanctis dello Studio su Giacomo Leopardi e a fargli imboccare la strada di Critica e autobiografia fosse stata proprio la lettura di Teoria e storia della letteratura, apparso nel 1926. Nelle lezioni della prima scuola napoletana troviamo già molte intuizioni che avranno sviluppo nei lavori successivi e maggiori; c’è in quelle pagine giovanili un pensiero critico in fieri che contiene tutte le premesse, per non dire che sembra fatto apposta, per stuzzicare e sollecitare una natura curiosa e indagatrice, ormai intrigata dal Dottor Freud e dalla psicanalisi, come quella di Debenedetti. Basti pensare all’importanza che già sin dal tempo delle lezioni giovanili De Sanctis annetteva alla fantasia che « non riproduce ma crea » e alla rappresentazione del poeta creatore, il quale, « vinto lo stato di confusione, vede come un fantasma, come una immagine. misteriosa, e sente il bisogno di riprodurla, di manifestarla in un modo sensibile. E niuna manifestazione poetica è possibile, senza questo fantasma interiore preesistente ». La personificazione del fantasma è una proiezione autobiografica; e, in tal senso, una spia ulteriore, anch’essa coincidente, è offerta da un altro saggio debenedettiano di quello stesso periodo, ma di ben altro sviluppo e ampiezza di Critica e autobiografia: Svevo e Schmitz. Lo sdoppiamento di Ettore Schmitz nel suo alter ego letterario Italo Svevo si attaglia perfettamente al gusto di Debenedetti per la ricerca di quelle congiunzioni autobiografiche, le quali, agenti e operanti sotterraneamente nel profondo, costituiscono una rete di fili conduttori, una serie di ramificazioni interne, su cui si basa la ricchezza tutta misteriosa della creazione artistica, l’illusione di star catturando il fantasma e di imprigionarlo nella gabbia della pagina.

Non vorrei dare l’impressione di star divagando troppo nell’attribuire eccessiva importanza ad alcuni pretesti. Tuttavia un simile pacchetto di circostanze o coincidenze, esterne e interne, non mi pare trascurabile al fine di rendere più suggestivo e proficuo il rapporto di Debenedetti con De Sanctis. Esso non rientra solo nel quadro di una adesione motivata alla grande lezione del critico ottocentesco, bensì in un più vasto concerto di interessi in cui l’autore dei Saggi critici e della Storia si inserisce in una dimensione del tutto anomala rispetto sia al famoso libro di Russo, ancora incentrato sulla cultura napoletana e tema tipico di una concezione culturale, sia al ritorno al De Sanctis lanciato programmaticamente da Gentile nel 1933 in occasione del centenario desanctisiano, e al quale subito ribatteva Gramsci insistendo anch’egli proprio sui problemi dell’autobiografia, problemi che, per altro, Debenedetti aveva già provveduto per proprio conto a inquadrare in un’ottica del tutto diversa e suggestionata da una influenza vagamente psicanalitica più che condizionata dalla pesante ipoteca di un De Sanctis da questione meridionale. L’originale lettura desanctisiana condotta da Debenedetti a cavallo del 1930, in quel particolare contesto storico e culturale, sembra fare il paio con un’altra lettura eslege dell’opera desanctisiana: l’Introduzione a De Sanctis di Contini, apparsa nel 1949, in pieno neorealismo, e che rimane nella storia della critica desanctisiana a far da controaltare filologico alla « energica rivalutazione », « su base classista », venuta in seguito sull’onda gramsciana.

Un De Sanctis letto in questa chiave, e assunto conseguentemente a punto di riferimento, rappresenta un atto dalla portata incalcolabile, una scelta che costringe Debenedetti in una zona laterale del campo della critica di allora. La sua diacronia rispetto alla critica accademica del tempo, a cui pure egli avrebbe potuto aspirare, è fortemente inarcata; ma lo è anche nei confronti della critica militante, alla quale sembrerebbe più facile ascrivere il nostro critico quando pensiamo al suo gusto per la scommessa sui contemporanei o per via dell’intuito nella scoperta, vedi il caso di Saba. Ma sia l’antiaccademismo, come l’antimilitantismo, ossia il rifiuto dell’erudizione e dell’informazione per quanto criticamente condotta, non risultano scelte polemiche, bensì altro: il segno di una originalità che non si esplica soltanto nell’approccio, ma anche nella capacità ermeneutica, nel giudizio. È il frutto della naturalezza, del dono innato che portava Debenedetti a esercitare la critica in una forma autonoma, originale e personale che si manifestava anche nel taglio stesso degli scritti, nella loro visione sempre problematica e mai descrittiva.

Bisogna dire che Debenedetti, senza tacciarlo per questo di presunzione, aveva in fondo un’alta considerazione del proprio lavoro e di sé come scrittore: aveva, cioè, la coscienza di riuscire nuovo e di avere poco a che spartire con ciò che lo circondava. Questa coscienza, che gli derivava forse dalla condizione ebraica, lo rendeva particolarmente sensibile al peso della propria differenza e della propria estraneità; ma, nello stesso tempo, gli infondeva anche una sicurezza interiore per procedere. E questa forza era tale che egli poteva misurarsi con il testo e con i personaggi calando la carta più alta che avesse in mano: la sua autobiografia di scrittore. Infatti, in Debenedetti nulla è impersonale, ma tutto è ricondotto a sé, al proprio patrimonio di cultura e di sensibilità che egli è pronto a mettere continuamente in discussione. In tal modo, ogni suo saggio ripropone implicitamente quel tema del combattimento con l’angelo di cui parla a conclusione della recensione al libro di Ravegnani sui contemporanei. Dall’atteggiamento di Debenedetti traspare qualcosa di luciferino che lo contraddistingue, e il testo, sia che esca vittorioso dal confronto come nel caso di Proust e di Saba oppure sconfitto come nel caso di Svevo, porterà comunque le stimmate della sua violenza ermeneutica. Infatti, ogni volta che Debenedetti ha parlato di un libro, ha ritratto uno scrittore, ha affrontato un problema, dopo è impossibile prescinderne:, e non solo per mero rispetto bibliografico, ma perché il suo contributo, condivisibile o meno che sia, risulta sempre determinante in quanto colloca l’oggetto discusso, chiamiamolo testo, in una dimensione nuova, e il segno della novità è dato appunto dal suo sapersi confrontare, dal suo partecipare alla pari.

La critica debenedettiana è, per questo suo carattere, una sorta di autobiografia ininterrotta che nel suo arco ripropone il possibile modello desanctisiano da cui prende le mosse: Critica e autobiografia lo rivela, e da qui estende il suo alone fino alla fine. È forse solo questione di successione, ma i paralleli combaciano: al De Sanctis degli ultimi anni delle conferenze La scienza e la vita e Il darwinismo nell’arte, corrisponde il Debenedetti della Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo; ma soprattutto al De Sanctis della Storia della letteratura, con le estensioni successive su Manzoni, su Leopardi, sulla letteratura del XIX secolo, si associa il Debenedetti del Romanzo del Novecento che rappresenta, come la Storia, la grande sintesi di tutto il lavoro precedente in cui confluiscono quelle “monografie’”, secondo le chiamava De Sanctis, che sono per l’appunto i saggi critici di Debenedetti.

Il romanzo del Novecento risulta sotto questa luce uno straordinario esempio di autobiografia letteraria, in cui Debenedetti ha trasfuso se stesso, ha improntato di sé l’idea di romanzo moderno. E come De Sanctis aveva evitato nello Studio su Giacomo Leopardi di indulgere al ricordo del viatico al suo futuro lavoro di critico che il poeta stesso gli aveva rilasciato durante la famosa visita alla scuola del Puoti, così Debenedetti maschera il se stesso sintetizzante. Però, dalla memoria dei tempi giovanili recupera Serra, che potrebbe risultare l’altro partner, assieme a De Sanctis, all’origine della formazione del pensiero critico debenedettiano e che, non a caso, è anch’egli critico intriso di coinvolgente autobiografismo. Al terzo vertice del triangolo, tanto per non trascurare le simmetrie, troviamo Proust, altro grande scrittore riscoperto critico.

In Critica e autobiografia la disposizione debenedettiana al coinvolgimento autobiografico, che è qualcosa di più e di diverso da un metodo, si scopre in maniera evidente; perché il De Sanctis maturo, che fa i conti con il Leopardi della sua giovinezza, non viene scrutato da Debenedetti con occhio filologico, bensì sottoposto a una specie di analisi in cui gli elementi autobiografici vengono posti in luce con particolare intenzionalità. Infatti, a Debenedetti interessa la ricostruzione della particolare situazione psicologica di De Sanctis di fronte al suo poeta, tanto amato in gioventù, e perciò lo tallona nelle sue ammissioni e confessioni. C’è una sorta di gusto, quasi un compiacimento nel rilevare gli abbandoni e gli indugi rievocativi di cui De Sanctis intesse il suo discorso critico, poiché lì, in quei momenti e in quei punti, Debenedetti sente in De Sanctis una affinità, più che una lezione di metodo. Riscontra in De Sanctis-Leopardi un analogo rapporto di coinvolgimento, simile a quello che, a sua volta, egli andava instaurando con i suoi autori, da Proust a Saba allo stesso De Sanctis.

Il De Sanctis oramai anziano, ricco di esperienza e di cultura, che può permettersi, dopo la Giovinezza, di indugiare, ancora sui suoi ricordi, e di estenderli fino a coinvolgere scopertamente se stesso in un discorso critico diretto, offre al giovanissimo Debenedetti una grande occasione che egli sa cogliere e, soprattutto, sfruttare. L’attitudine desanctisiana diventa per lui una lezione capitale: da essa trae la conferma della validità del suo metodo combinato fra “critica e autobiografia” nell’accostarsi ai testi e l’offerta, quindi, della chiave, anzi, di un passepartout per entrare nel laboratorio mentale dei suoi scrittori, installarvisi, discutere con loro a tu per tu, e poi rapportare il tutto a se stesso. Per Debenedetti il suo fantasma sono gli scrittori. È per questa via che i saggi debenedettiani diventano dei “racconti critici” come li ha definiti Sanguineti, dove, tuttavia, il plot non è il fine ma un mezzo: è un pretesto per il nostro narciso critico. Critica e autobiografia è disseminata in tal senso di tracce stilistiche, le quali indicano, sì, il tragitto percorso da De Sanctis nel terreno Leopardi alla ricerca di sé, ma, nello stesso tempo, ci rivelano anche l’ombra di Debenedetti anch’egli alla ricerca di sé e che modella la sua ricerca sul percorso desanctisiano. II patto autobiografico che Debenedetti stringe in questo caso è molto complesso a causa degli intermediari che intervengono: il narciso romanziere tratta direttamente con i propri contraenti, il narciso critico deve fare i conti con un passaggio ulteriore che deve cercare di dissimulare o, se non altro, di rendere a ogni costo il meno evidente possibile. Il patto debenedettiano ha l’obiettivo di trasformare il critico in romanziere, senza tuttavia che egli rinunci alla propria identità e, soprattutto, non perda il privilegio di poter scrutare il mondo attraverso una lente già messa a fuoco. Ecco, allora, la necessità di cogliere tutti gli spunti e tutte le occasioni; occorre possedere una grande curiosità e una grande perspicacia, ma anche una non comune capacità di individuazione e di sintesi; dimostrare di essere scaltri connoisseurs e abili dissimulatori onesti di sé, per riuscire a lasciare la parola agli altri eppure parlare in prima persona. Sarà anche questa l’ennesima casualità, però certi memorabili saggi debenedettiani sono delle “commemorazioni” dove il critico si trasforma in attore e dal suo palcoscenico recita la vita del fantasma, lasciando intendere che a dar corpo a quel fantasma è lui.

In Critica e autobiografia Debenedetti scrive che « tutte le biografie sono un po’ delle segrete autobiografie ». Il De Sanctis biografato nella Commemorazione è quello che insegue per tutta la vita il suo fantasma rappresentato dalla Storia della letteratura. Bisognerebbe qui ricordare e citare a lungo il saggio Sui critici di Settembrini, con cui De Sanctis lancia quello che Getto ha definito « il manifesto della nuova storiografia » letteraria italiana e che potrebbe anche essere considerato come una specie di ideale prefazione alla Storia, soprattutto laddove afferma che in essa confluisce e si concretizza nella sintesi tutto il lavoro settoriale e frammentario compiuto in precedenza: « essa non è alla base, ma alla cima; non è il principio, ma la corona dell’opera ».

Debenedetti non cita e non parafrasa il De Sanctis del saggio sul Settembrini come avrebbe fatto un qualunque altro lettore. Ricorre invece a un’altra felice immagine desanctisiana, da lui già sfruttata nella Prefazione ai primi Saggi critici, per affermare con forza la grandezza di De Sanctis e suggerire, complice Balzac, possibili implicazioni narrative nella Storia: quella dell’Ariosto in viaggio “sino a Modena in pianelle” con in testa l’Orlando. Ma, continuando a fruire della connivenza balzacchiana, attua anch’egli uno « di quei colpi straordinari e rivelatori, che Balzac inventa per i culmini dei suoi romanzi », e da scrittore, con un abile gioco di simmetrie, sottrae a De Sanctis l’invenzione della immagine ariostesca e gliela restituisce ritagliata e adattata proprio sulla sua misura: « Che cosa ci era dunque nella sua testa? Ci era la Storia della Letteratura Italiana ».

Poi, ecco l’intervento che allarga il discorso con l’accostamento di Verdi a De Sanctis. Anche in questo caso lo sconfinare di Debenedetti non va trascurato: oggi questi salti fra le arti, questo spirito interdisciplinare e interespressivo è ormai acquisito e praticato con destrezza e proficuità, basti pensare a Praz e a Macchia; ma allora, anni Trenta, non mi pare che fosse proprio così abituale, e sulle reazioni c’è parecchio da dubitare se ricordiamo le perplessità e le obiezioni destate allora dalla Carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Tuttavia, non penso che Debenedetti abbia fatto l’accostamento Verdi-De Sanctis con intenti provocatori, deve essergli venuto naturale, data la sua dimestichezza con arte e musica; semmai nella commemorazione desanctisiana entrava a questo punto in scena anche lui, integrandosi nel décor del racconto critico o, se vogliamo meglio, dell’autobiografia del narciso critico.

Dopo, l’attore rientra nel suo ruolo e riprende a commemorare chiamando in causa il terzo uomo, Manzoni. Non lo fa però da notaio, ma ancora, e sempre, seguendo la strada indiretta dell’utilizzare « un fatto letterario per gettare luce su un altro » e, attraverso Manzoni, indaga in De Sanctis allo scopo di scoprire, al di là delle divergenze estetiche e dei magoni manzoniani, una unità di intenti fra i due nello sviluppare « un mondo ideale in un mondo storico ». Di questo mondo ideale la Storia della letteratura è la grande sintesi storico-critica, allo stesso modo che Verdi e Manzoni l’hanno realizzata in musica e con il romanzo.

Debenedetti conduce la sua lettura della Storia diciamo in “verticale”, per usare un suo termine, e cioè come se egli dovesse rifarla a modo suo. Coglie la contraddizione della nostra letteratura che procede dal maluso dantesco e crea un vuoto popolato soltanto dei “tanti controideali” che, da Dante alla “nuova scienza”, con le debite eccezioni, costringono il critico e lo storico a stabilire le credenziali per entrare nelle “città di poesia”. L’interpretazione del grande sforzo sintetico e critico desanctisiano è attuata da Debenedetti sulla scorta di alcune intuizioni fantastiche, grazie alle quali reinventa un suo De Sanctis nella divisa di « difficile prefetto di polizia spirituale » alle prese non tanto con gli eretici dell’ideale, quanto con i bracconieri che vi si sono inseriti e che nei secoli hanno prosperato fino allo strapotere conquistato nel Seicento. Sono costoro che non solo hanno annullato gli sforzi del poeta, ma hanno anche mistificato l’esercizio dell’artista. Poeta e artista costituiscono la diarchia che De Sanctis insedia al vertice della letteratura italiana nel tentativo di conciliare l’antitesi tra fantasia e immaginazione. Ma a questo tormentato prefetto, per cui sente tanta simpatia, Debenedetti non poteva negare l’aiuto del fantasma, doveva per forza coinvolgerlo nell’autobiografia: ed ecco allora la famosa immagine del professore in palandrana che percorre i secoli centrali della nostra letteratura con “una rosa in mano”.

Il ritratto, ingentilito dalla presenza del fiore più bello, è un tocco degno di un grande ritrattista quale in effetti Debenedetti è stato. Perché nel ritratto egli può introdurre quella nota personale che nessuna copia consentirebbe, proiettarvi il proprio gioco fantastico, deformatore o realistico oppure visionario. Come in un saggio più tardo, Presagi del Verga, Debenedetti ha interpretato il silenzio di Pietro Brustio come un’anticipazione del destino di Verga incapace di continuare la Duchessa di Leyra, così in un momento di ritorni a De Sanctis egli individuò il carattere solitario della Storia della Letteratura Italiana nella nostra cultura, recriminando sulle lezioni che se ne sarebbero potute trarre e che non sono state tratte, a causa dei crociani prima e dei socio-gramscisti poi. E, in fondo, segnala anche la solitudine del suo autore che avrebbe dovuto iniziare una tradizione e invece già la chiudeva, mettendo così a nudo il ritardo della nostra cultura rispetto al mondo. Debenedetti conclude la sua commemorazione con questa immagine di solitaria grandezza a cui riserva « l’alloro più amato, il più tardo e il più restio: l’alloro del critico ». In tale immagine si identifica Francesco De Sanctis, ma vi si riconosce anche Giacomo Debenedetti.