Dal futuro al passato. Un’archeologia del sapere letterario

di Nino Borsellino

Questo mio schizzo compendiarlo della critica debenedettiana parte da una constatazione di natura emotiva che sento di dover fare prima di entrare in argomento. Se la volgo al plurale, è perché suppongo che essa non sia strettamente personale. Consiste nel fatto che ogni volta che rileggiamo Debenedetti o integriamo la sua conoscenza con la crescita postuma della sua opera, incessante dal ’70 ad oggi, avvertiamo il fervore e insieme il disagio di dover cominciare da capo, di riaprire il rapporto che intratteniamo con la letteratura e più in generale con i libri a una disponibilità nuova.

Si dirà che si tratta di una reazione, ben nota ai lettori più o meno assidui del critico, dovuta a un effetto di scrittura, a uno stile di saggista che è, come tutti sanno, incantatorio. Eppure diffido della spiegazione. Alla fine, quell’incantesimo potrebbe indurci a tapparci le orecchie e a proseguire una navigazione più sicura, sotto costa, senza cedere ai richiami verso nuovi continenti affrontando i rischi del mare aperto. Non siamo tanto ingenui da esporci ad avventure e pericoli di naufragi per il gusto di una troppo audace emulazione. Sono più propenso a credere che quell’effetto dipenda da ciò che Pasolini, nella sua breve introduzione ai quaderni inediti della Poesia italiana del Novecento (1974) indicava come « la grande qualità, ma anche l’angoscia di Debenedetti » , vale a dire la sua « totalità di lettura senza specializzazioni ». La diagnosi non è sviluppata, ma è netta. « Egli – afferma ancora Pasolini – non è mai riuscito a teorizzare il suo modo di leggere. » « Ciò non toglie - aggiunge - che esso sia teorizzabile, e che anzi sia di una coerenza addirittura ossessiva. » E infine conclude: « a causa dell’oggettiva mancanza di metodo, tutto il continuo, testardo e geniale ragionare sui testi di Debenedetti, è pervaso da un invincibile senso di colpa: eppure egli si è sempre rifiutato con tutto se stesso di commettere la colpa di adottare un metodo ».

Non so se qui Pasolini ignori o voglia intenzionalmente trascurare le professioni di fede che pure non mancano e sono rese talora con un risentimento polemico perfino eccessivo, come nella Prefazione 1949 alla ristampa di una serie di saggi di vent’anni prima, cauta soltanto nel titolo: Probabile autobiografia di una generazione. È vero che in quelle pagine non è neppure abbozzato un discorso sul metodo, mentre emerge dalla penombra il ritratto, l’autoritratto, di un critico che non vuole essere giudicato ingrato, « per smania di novità, verso quel benefico e chiarificatore maestro che è stato Benedetto Croce », eppure in quelle novità riconosce se stesso e il destino della letteratura. Destino: parola dominante del glossario debenedettiano, come ricordava vent’anni fa Geno Pampaloni. Meno cauto quanto al metodo, e finanche alla teoria, l’esame di coscienza critica affrontato in un prologo, A proposito di “Intermezzo “, cioè nella premessa alla raccolta di saggi del 1963 pubblicata con quel titolo musicale. Qui Debenedetti esce dalla penombra e non esita a proclamare una dichiarazione di doveri che, per la sua radicalità, imporrebbe al mestiere del critico un compito anch’esso eccessivo: « [...] la critica oggi ci interessa solo quando riesce a stabilire i nessi tra gli artisti e tra l’arte e tutto l’insieme della nostra visione umanistica e scientifica del mondo ». In realtà era un compito che nel dopoguerra Debenedetti aveva assegnato a se stesso trascurando il rimbombo delle contrapposte ideologie e tendendo l’orecchio ai colpi di piccone che da una parte e dall’altra del tunnel facevano prevedere l’incontro tra la squadra della cultura scientifica e quella della cultura umanistica: come da tempo aveva previsto Carl Gustav Jung lasciandosi andare a un’esclamazione soddisfatta già riecheggiata con pari ottimismo in Probabile autobiografia.

Se si scorrono le pagine dell’A proposito, non sono evidenti le argomentazioni applicative di un programma così ambizioso. Eppure correva un anno favorevole alla solidificazione scientifica, in metodo e in teoria, dell’esperienza critica: l’anno della costituzione del Gruppo ’63 e del movimentismo sperimentalista con alle spalle, l’anno prima, Opera aperta di Eco e l’annessione della letteratura al dominio semiologico, legittimato, due anni dopo, dal questionario-manifesto dello strutturalismo italiano nel catalogo 1965 del “Saggiatore”, proprio della casa editrice di cui Debenedetti era ascoltatissimo consigliere e per la quale terrà a battesimo un prototipo della neocritica, Gli orecchini di Montale di Avalle. La poetica debenedettiana non percorre quei tracciati sperimentali e teorici. Il suo punto d’arrivo è semmai per ora un tipo di progettazione antropologica, di costruzionismo critico a fondamento umanistico, ricavato da un confronto a posteriori della sua e altrui esperienza e calcolato sui rendiconti: « Per ora, vorrei aver messo in chiaro - scrive – che uno degli intenti e dei risultati della critica, per quanto mi è venuto di constatare attraverso la mia esperienza diretta, ma soprattutto per quanto ho potuto controllare esperienze di ben più grande portata, può essere quello di costruire ogni volta dei modelli umani capaci di produrre, e quindi di spiegare, l’opera di poesia presa in esame » . Ma in definitiva i modelli potrebbero anche essere storici. E comunque la teorizzazione tradisce qualche forzatura.

Naturale appare invece la testimonianza in quello stesso testo sul suo modo di interrogare l’opera e poi di riconoscerla. E qui soccorrono un paragone e una messinscena: l’opera d’arte che, al modo delle campane di Martinville per Proust, annuncia una presenza e insieme la nasconde per consentire una ricerca nel tempo, per dilatare la memoria del critico; la lotta di Giacobbe nelle tenebre con un antagonista indistinto che si rivela un angelo alla luce. Epifania, quindi, da una parte; agnizione dall’altra, alla fine di un confronto agonistico. Il metodo resta semmai tra le pieghe di questa drammaturgia della lettura. Quanto poi all’alleanza tra le due culture, essa appare iscritta più che nelle possibilità attuali della critica nella prospettiva di un futuro della letteratura, di quel futuro in cui si proietta, di là dalle congiunture letterarie che potevano restringere lo spazio del lettore, la funzione di Debenedetti come critico militante.

Altrimenti questa sua funzione non si riesce facilmente a circoscriverla. Un suo sodalizio, o anche soltanto una sua complicità, con scuole tendenze programmi non figura nella sua biografia di critico. Egli stesso, parlando del suo gruppo più compatto di recensioni riunite col titolo Verticale del ’37, si confrontava con il lettore della passata generazione, con Alfredo Gargiulo, tanto in sintonia con la poetica della lirica pura, e confessava di non essersi mai sentito concorde (e del resto neppure discorde) con la sua generazione, di non essere stato, come l’altro, « toccato dalla grazia di sentirsi in chiave, nella stessa “aura”, in uno scambio vicendevole e quasi perfetto tra il proprio gusto e il gusto dei coetanei », di non aver « lavorato nella medesima “poetica” dei suoi autori ». Poi, passata quell’annata e quella stagione, non mi pare che Debenedetti abbia più esercitato con assiduità il mestiere del recensore né che, dall’avanguerra al dopoguerra e, oltre, nel fervore dei sessanta, sia stato presente, per discutere ed eventualmente orientare, all’appuntamento con libri e avveni-menti che hanno acceso gli ultimi fuochi della letteratura militante: neorealismo e relativa crisi, Il Gattopardo e il processo alla storia dell’Italia unita, Gadda e il trionfo del maccheronico, ecc. Procedeva per suo conto e preferiva, credo, non distrarre nei romanzi la sua attenzione al romanzo, alle sue fenomenologie incarnazioni mitologie, al suo destino, ancora una volta, in cui vedeva sempre più figurato il destino dell’occidente. Perciò poteva contentarsi di cogliere in opere e autori non altrettanto epocali sintomi e presagi del futuro che aprivano nello stesso tempo a una ricerca del passato. In questo senso, nel preparare la coscienza dell’avvenire, nessuno fu come lui militante: pagando lo scotto peraltro a una svaluta-zione del presente.

Cade a proposito in questo ordine di considerazioni la conclusione che Franco Contorbia trae alla fine della sua nota introduttiva allo scritto postumo, e anche per questo da considerare testamentario, di Giacomo Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo: « l’esplorazione del futuro si identifica, senza mediazioni, con il recupero del passato prossimo ». L’inciso sembra alludere a una mancanza di mediazioni attuali, nel presente, della letteratura corrente, tra l’avvento dell’antipersonaggio-particella, non ancora legalizzato dalle pur numerose prove di là da una poetica consonante con la contemporaneità scientifica e tecnologica, e la commemorazione, però provvisoria, del « vecchio, ma ancora vegeto, solerte, servizievole personaggio-uomo ». Infatti, il riscontro è in un altro celebre saggio di vent’anni prima, Personaggi e destino, e bisognerebbe aggiungervi L’avventura dell’uomo d’occidente, che gli sta a ridosso. In entrambi prende rilievo il tema della rivolta (o anche sciopero) dei personaggi ed è diagnosticata, sul comportamento dell’alter-ego romanzesco, la condizione di orfani vissuta dalla generazione che è stata di Debenedetti e che la grande letteratura del primo Novecento europeo ha rappresentato senza eroismi, mentre più tardi l’esistenzialismo ha tentato di riscattare, legittimando l’assurdo di quella stessa condizione.

Ma, quanto al recupero del passato, bisogna dire che Debenedetti era risalito abbastanza presto oltre la soglia del Novecento, sin dal ’34 con la Commemorazione del De Sanctis e poi con gli studi pascoliani e verghiani, insomma con quelle anticipazioni su Pascoli e con quei Presagi del Verga che nascondevano anche i presagi di interpretazioni innovatrici del grande scrittore siciliano scandite tra il ’51 e il ’53 dal professor Debenedetti nell’Università di Messina. Ma nel 1943-’44, stagione cruciale per il destino di tutti, negli ozi forzati di Cortona, Debenedetti aveva oltrepassato anche la soglia dell’Ottocento. Come Machiavelli nel ritiro di San Casciano, anche lui interrogava gli antichi per reagire alla sorte e aprirsi alla speranza. Autobiografia della speranza si intitola uno dei capitoli del libro dedicato a Vittorio Alfieri che allora andava componendo, ed era certo un titolo che coinvolgeva la sua speranza di libertà, ma, per l’indagine del critico, ancora più strettamente il destino della modernità, tanto meglio se attraverso un suo monumentale conterraneo, uno scrittore spiemontizzatosi per diventare un nume patrio.

Mi soffermo volentieri sui saggi alfieriani perché mi riportano al mio primo incontro nel ’50-’51 con la critica debenedettiana, quando, preparando la mia tesi di laurea sulle Rime, m’imbattei tra tante più o meno suadenti occasioni bibliografiche, in quelle che furono per me le più nuove e allettanti, quelle che allora, posso dirlo a distanza parafrasando l’enfasi dello stesso Alfieri, « davvero mi piacquero, mi colpirono, m’invasarono ». E, forse, proprio per questo me ne difesi fino a discuterle con pignoleria, quasi temendo il ridicolo che la tentazione di rifare il verso a un simile interprete avrebbe generato dentro un contesto scolastico.

Nel saggio sul canzoniere alfieriano, L’Alfieri, ingegnoso nemico di se stesso, Debenedetti notava che l’autore delle Rime « mette a partito un avvenimento nuovo nella repubblica delle lettere », il romanzo, il cui funzionamento sarebbe reso visibile dall’imponente presenza del personaggio oltre che dal metodo analitico del narratore, che è quello di guardare non più con una “lente d’ingrandimento”, ma con un “prisma”. Tra i supremi stati d’animo – gli archetipi del sentimento – s’inseriscono ora gli stati intermedi, gli interstizi del sentimento. Sono « le terre di nessuno », dice Debenedetti, calcate da un uomo nuovo, il borghese, di cui ha affrettato la nascita la sostituzione del cielo copernicano a quello tolemaico. Alfieri conosce bene, secondo Debenedetti, queste terre inesplorate e dà ai semitoni del sentimento voce lirica. Anche se può sembrare strano aggiunge sul conto dell’ironia del destino ovvero della storia – che proprio lui, il conte Vittorio Amedeo Alfieri Bianco di Cortemiglia, debba espletare un incarico ricevuto dalla borghesia. E può anche sembrare strano che sia proprio lui, l’autore di un’autobiografia non della memoria, ma della speranza (la sua speranza di grandezza letteraria, tuttavia affollata di memorie), a registrare come in un sismografo quelle oscillazioni. Ma Debenedetti precisa, sottolineando la tensione volontaristica della Vita, che « l’Alfieri aveva bisogno che l’intero suo destino coincidesse con una vocazione di poeta », quindi che si assistesse, leggendo la sua autobiografia, alla nascita delle tragedie. Le Rime, e in particolare quei sonetti che egli chiama “dell’apprensione”, scaricherebbero e devierebbero quella tensione nel privato. La loro novità consisterebbe nel fatto che Alfieri è riuscito per la prima volta « ad amalgamare la grande classica poesia dell’ansia con la prosa moderna della nevrastenia ».

Alfieri è dunque un antecedente, affiorato per la pressione delle circostanze storiche piuttosto che strettamente letterarie, che contribuisce a un’anamnesi del personaggio-uomo raccolta con la sonda del freudismo. Ed è per questa via, raccogliendo frammenti di biografia letteraria piuttosto che restaurando monumenti, che il lavoro del critico si sposta dalla storia all’archeologia. Ma lasciamo il terreno accidentato della poesia alfieriana e risaliamo indietro: ai saggi precoci e fecondi sulla Recherche; alle letture sveviane, soprattutto allo Svevo e Schmitz che sembra trascinare in un giudizio parzialmente limitativo la diffidenza di chi familiarizza troppo per comunanza di razza con i tic più o meno nascosti dello scrittore e vi riconosce una parte di sé; all’analisi del gruppo terminale delle Novelle per un anno, in cui Pirandello, anziché moltiplicarsi in cento personaggi, fa la parte dell’unico personaggio dei suoi racconti. Avvertiamo in questi scritti anteriori una serie di spinte e controspinte dialettiche che si chiariscono bene alla luce del saggio alfieriano, di quell’affondo nell’archeologia del moderno. Qui si rivelano in pieno le componenti di quella dinamica critica e si fissano i termini costanti del non ultimato – provvisorio, appunto – discorso di Debenedetti sulla letteratura moderna. Schematizzando, essi si possono fermare in tre punti:  1) l’avvento del romanzo come momento aurorale della nostra era letteraria e fenomeno che ancora la coinvolge in una lunga crisi;  2) la precedenza del personaggio su tutte le altre funzioni e situazioni della narrativa, come soggetto comunque insostituibile, anche se di volta in volta, e nel confronto tra le due visioni, umanistica e scientifica, il suo valore può essere potenziato o abbassato;  3) il rispecchiamento psicologico della nuova condizione del borghese, per cui la classica macrostoria dei sentimenti e comportamenti deve essere sostituita con schede diagnostiche mobili, più adatte a registrare la sintomatologia e il fluttuare imprevedibile della moderna nevrastenia.

Sotto questo aspetto la fortunata formula del “racconto critico”, che piacque allo stesso Debenedetti e di cui Edoardo Sanguineti vanta giustamente la priorità, non mi pare che possa essere accettata come una caratterizzazione estensiva, atta a unificare un’attività solo apparentemen-te dispersiva. Rende merito, questo è certo, all’immaginazione critica di Debenedetti, alla sua effervescenza saggistica che, sviluppandosi come manifestazione di un “destino in disponibilità”, poteva prendere forma narrativa. In proposito è significativo quanto egli stesso dice della “disponibilità” del Tommaseo e della propria preludendo alle lezioni romane degli anni 1958-’59 e 1959-’60:

[…] a un destino in disponibilità sembra più lecito, più plausibile, mettersi di fronte con una critica anch’essa in disponibilità: una critica che accetti i metodi più diversi, le vie d’accesso più disparate per giungere alla propria meta; cioè all’identificazione della personalità artistica e letteraria del Tommaseo. Tenteremo di raggiungere il suo nucleo o i suoi nuclei centrali con tutti i possibili strumenti d’aggressione: storia, sociologia, psicologia, estetica, stilistica.

E infatti il Tommaseo del professore Debenedetti è anche un ritratto di costume. « Ma prima di tutto – aggiungeva -, cerchiamo di fissare le idee. »

Avvertimenti, si dirà, rituali per una buona didattica; tuttavia indispensabili anche per una buona critica, specie quando è dotata di una naturale agilità mimetica e di forti risorse agonistiche. Debenedetti ebbe la capacità di servirsi dei più vari e aggiornati parametri culturali, con i quali poté fare assumere alle vicende della nostra letteratura valori forse non altrimenti omologabili. Si guardò bene però dallo sfruttare fino all’osso, col rischio di far perdere di vista l’oggetto delle sue analisi, i vantaggi delle sue tante, inesauribili occasioni interpretative. Freud, Jung, Weininger (con cui spiegò Svevo), la fisica molecolare (applicata alla metafisica del personaggio), il principio d’indeterminazione (con cui individuò nel Novecento la sostituzione del romanzo della probabilità a quello della causalità), e ancora Husserl e Adorno, formarono per Debenedetti una serie di coordinate variabili di volta in volta utilizzabili ma non suscettibili di trasformarsi in criteri generali d’interpretazione e meno ancora di confluire in un sincretismo critico elegante ma, al limite irresponsabile. Diciamo piuttosto che il metodo privilegiato si trasformava in scandaglio storiografico. I suoi quaderni di scuola mettono in evidenza ancora più dei saggi questa conversione dal metodo alla storia, ovvero al racconto.

È impossibile perciò circoscrivere l’esperienza critica di Debenedetti in una formula, anche se essa è tutt’altro che costrittiva, così come è impossibile ricavarne un’ideologia. Ideologo a suo modo lo fu; però non nel significato corrente della parola. La letteratura era per lui non un segno arbitrario, ma la forma che rendeva visibile il destino dell’uomo; e questo destino egli volle ricostruirlo risalendo alle origini della modernità e guardando, non senza ansietà al futuro. In questo egli riconosceva semmai la sua vocazione di critico e il compito che il destino gli aveva assegnato come appartenente a una generazione di orfani.

Intellettualmente quella condizione non era uno svantaggio. Gli aveva facilitato la possibilità di attraversare le varie età della cultura italiana senza riconoscersi in nessuna: l’età crociana, ammirando lo stile del suo eponimo e la sua capacità di durare nel tempo senza curarsi delle alterazioni stagionali; l’età ermetica, rimanendo estraneo a una devozione religiosa della letteratura come vita; l’età gramsciana, infine, accettandone solo fuori dalla letteratura una paternità putativa. Solidale era, questo sì, con la psicanalisi e pienamente consapevole della sua scoperta: « una tra le prime imprese del figlio abbandonato », come ebbe a scrivere in Personaggi e destino. Ne ricavò infatti gli elementi essenziali per la sua ricerca dentro l’inconscio della letteratura contemporanea, quasi un viatico per la sua archeologia del sapere letterario. Ma l’usò in dialogo con tutte le altre proposte e con l’aria di non compromettersi, di chi non vuole imporre nient’altro che referti critici. E non perché fosse incerto, ma perché sapeva che non solo il destino ma anche la ricerca del critico riserva, come un romanzo della probabilità, incontri imprevedibili.