“Con alcune licenze”

Debenedetti, la letteratura e la musica del Novecento
di Sergio Sablich

Mentre preparavo uno studio sui rapporti tra letteratura e musica nel Novecento per il sesto volume della Letteratura, italiana Einaudi, (1) mi accadde di chiedere a Gianandrea Gavazzeni, il nostro musicista più sensibile alla letteratura, qualche consiglio e un orientamento. La risposta di Gavazzeni fu una sola: « Legga Giacomino, legga Giacomino ». E mentre il suo sguardo sembrava perdersi in lontani ricordi di un’evidente, profonda familiarità, il tono era così perentorio da non ammettere che’ si spezzasse l’incanto con ulteriori precisazioni. Del resto, non era difficile risalire alla fonte che aveva suscitato in lui quella risposta immediata e ammirata, e darle un nome meno intimo e più completo.

Che proprio Gavazzeni, ossia un uomo di musica, identificasse in Debenedetti il nodo centrale di una rete di rapporti quanto mai intricati e complessi, strettamente legati a circostanze storiche e a condizionamenti ideolocici molteplici e variabili, può apparire tuttavia singolarmente contraddittorio. Non solo perché l’atteggiamento culturale di Debenedetti era poco influenzato da quel clima generale; ma anche perché il rapporto di Debenedetti con la musica riguardava ambiti ben individualizzati e circoscritti, per così dire esclusivi e privati: tanto da apparire sintomatico forse, ma non paradigmatico.

Al pari di molti letterati e intellettuali Debenedetti era attratto, ma non completamente appagato dalla musica. Cogliendo qua e là qualche definizione, la musica valeva per lui come sensazione, trepidazione, colore o tema timbrico, tentazione; come esercizio stilistico interdisciplinare, complice della nostra attenzione; come incantesimo, estasi, rapimento, suggestione, aura: rivelazione dell’anima, del destino, in una zona di sensorietà indifferenziata. « La musica – scrive Debenedetti – ha il particolare incanto di ricordare, di delineare quel mondo dell’inespresso che l’ha preceduta e donde ella è discesa » (2). Musica è per lui essenzialmente “musicalità”, quasi un sospeso incantamento che si rifiuti di lasciarsi spiegare. E per questo è necessario non sapere la musica, affinché essa resti incomprensibile e irriducibile alla logica di un linguaggio e di una tecnica. Solo nell’evasività della musica, nel suo senso struggente e sfuggente, si manifesta quell’ « infinita nostalgia di beatitudine » (3) cui l’espressione dell’inespresso tende.

Insomma, la musica ha il privilegio di innalzarsi a vette dello spirito che le altre arti faticano a raggiungere: ma solo in apparenza, e non sempre. Neppure nei momenti magici essa garantisce la totalità dell’espressione, per quanto ne sia uno strumento: la musica evoca, suggerisce, offre analogie e figurazioni simboliche, ricorda; ma, purtroppo, rimane solo musica, quando non stabilisca vaghe associazioni e relazioni con qualcos’altro. Non è un caso che in quel tentativo di bilancio, non solo di una intera generazione, ma anche di un atteggiamento di fondo, rappresentato dalla Prefazione 1949, Debenedetti scrivesse:

S’intende che provammo con la musica. (È l’arte che predomina sui giovani: quella che riconduce, in ogni età, a una sorta di recupero dell’adolescenza. Meglio di ogni altra, sembra consegnare immediatamente la emozione originaria, dalla quale noi ci sentivamo magnetizzati. [...]

E poi, rievocando l’esempio e il magistero di Piero Gobetti:

A un certo momento, vedendoci tutti persi dietro la musica, patiti dell’accordo di settima e delle sue illusorie promesse, ci lasciò capire ch’erano gherminelle dei nostri sensi – parlò, se ricordo, di lascivia – e dichiarò niente di meno che la musica “non è arte”. Era una maniera di significarci che perdevamo il nostro tempo: l’apologo generosamente duro e intollerante di chi non aveva più tempo da buttar via. (4)

Nella sua relazione Fedele D’Amico ha toccato quasi tutti i punti del rapporto fra Debenedetti e la musica, e messo in evidenza alcune costanti che si rispecchiano nella sua critica letteraria. La musica accende la scintilla di un fuoco che poi si estende altrove, per ondate successive di fiammeggianti metafore. Fondamentale rimane il momento autobiografico: la musica è anzitutto evocazione di memorie, da cui nascono collegamenti e svolgimenti. E sotto questo aspetto, attraverso gli sviluppi di Debenedetti, si potrebbe costruire una specie di forma-sonata classica che modula dal “tono Wagner” al “tono Proust” senza mai uscire da gradi di affinità primari. Tutto, anche le digressioni e le code, hanno in Debenedetti un fondamento teleologico, guidato dal destino e dall’unità dello spirito.

Ma altrove, invece, l’indagine di Debenedetti incide profondamente e descrive, quasi fissandolo indelebilmente, con nettezza assoluta, il fatto musicale stesso. In questi momenti Debenedetti, assai più di un “amateur éclairé”, sembra riunire in sé le qualità del conoscitore e l’intuizione del critico da sempre avvezzo a confrontarsi con il linguaggio della musica. Un solo esempio basta a confermarlo: il saggio Puccini e la “melodia stanca”. (5) Quando egli scrive:

ogni frase musicale disegna nel volgersi e sussultare di poche note un destino melodico, assolutamente identico alla parabola descritta dalla sorte delle protagoniste

o, ancora:

Puccini conduce le sue eroine a morire, ma lungo il loro tragitto ne celebra la vitalità, tutta estri, brevi esuberanze, perfino capricci. Finché sono vive, esse chiedono promesse all’indomani, e soprattutto alla speranza d’amore. Nel momento che muoiono, non chiedono promesse all’aldilà. Se qualcosa deve sopravvivere, è solo una memoria tutta terrena: un caro, incancellabile ricordo di ciò che ha saputo essere la piccola borghesia,

ci troviamo di fronte a un’analisi che spiega e interpreta la musica stessa, com’è fatta e che cosa significa. Si potrà non essere d’accordo con la conclusione; ma essa illumina un tratto reale per averlo percorso e meditato, anche sotto il profilo psicologico:

Puccini incarna e raffigura l’esile e stupendo sforzo di morire in bellezza. [...] Ma per morire in bellezza non basta essere certi di congedarsi tra il generale rimpianto. Bisogna riuscire a piacersi nel momento che si muore.

Non sempre, chiaramente, Debenedetti incalza così da vicino la musica e vi rimane attaccato. Di frequente diviene per così dire un trascrittore che si concede alcune licenze reinventando nessi e procedimenti estranei ai riferimenti musicali che vengono pure avanzati. Ma con risultati non meno significativi. Basti ricordare quel passo, più volte citato in questo Convegno, della « situazione di vecchi musicisti che, bisognosi di una nota dissonante, superstiziosamente la segnavano come acciaccatura accanto alla nota di più scrupolosa armonia »: (6) a indicare, e sempre in proiezione autobiografica, una condizione psicologica (e storica) di attrazione e repulsione insieme nei confronti della “modernità”. Ora, sarebbe arduo identificare nella storia della musica questi musicisti, e riferirsi a qualche opera; e ancor più difficile sostenere che davvero l’acciaccatura abbia in rapporto all’armonia quella funzione che qui crede Debenedetti. Però, da questo « piccolo errore fortunato », per riprendere un’espressione di Debenedetti stesso, si produce un’immagine straordinariamente efficace, quasi folgorante; sicché essa evoca qualcosa che chiarisce esattamente l’atto e la situazione che ci vengono descritti: e a noi pare che quelle musiche e quei musicisti siano esistiti realmente, e che Debenedetti ce ne faccia sentire esattamente non solo lo stato d’animo ma anche il suono e il timbro.

Un contributo di un certo interesse al tema di queste giornate di studio – che si ricollega ai rapporti tra Debenedetti e la modernità nell’ambito della musica – è costituito da un saggio poco noto, per non dire dimenticato, del 1938. Si tratta di una relazione che Debenedetti lesse nel corso del Terzo Congresso Internazionale di Musica promosso dal Maggio Musicale Fiorentino per la quarta edizione del festival, nel 1938 appunto. (7) Il tema del congresso, che affiancava alcune importanti riproposte nei programmi musicali e ribadiva l’intenzione di fare del festival fiorentino anche una manifestazione interdisciplinare di cultura, era: “Il gusto moderno e la musica del passato”. La relazione di Debenedetti si intitolava: L’Oratorio di Via Belsiana. Secondo un procedimento di lui tipico, un punto di partenza in apparenza criptico e lontano mette in moto una rete di relazioni e di associazioni che tende a moltiplicarsi, per poi stringersi di colpo nell’enunciazione della tesi chiarificatrice: in funzione della quale, e con la massima evidenza, si dispongono e si ordinano i periodi dell’argomentazione e gli esempi finalizzati alla sua dimostrazione.

L’inizio del saggio è una di quelle “trovate”, tutt’altro che infrequenti in Debenedetti, che sembrano spalancare il sipario davanti a un mondo immaginario impregnato di poesia e di musica, creando un’atmosfera fantastica e un quadro di fulgida bellezza, carica di attese: un paesaggio dell’anima armonioso e denso di suggestioni, contemplato con tranquilla serenità e un lieve, complice sorriso d’indulgenza.

Sulle rive del Mediterraneo, in una notte senza luna, ma gonfia di respiro e di connivenze musicali, un signore gira una manovella, poi prende accanto a sé un disco, alla cieca. Il grammofono comincia a esalare l’introduzione al Benedictus della Missa solemnis di Beethoven [...].

Questo saggio appartiene ai momenti ispirati della critica letteraria di Debenedetti: e come tale è preferibile riproporlo qui integralmente, in appendice, piuttosto che sminuzzarlo nella parafrasi. (8) Esso contiene però anche una tesi, che fiorisce dalle citazioni e sulla quale è possibile riflettere.

Secondo Debenedetti, soltanto il romanticismo ha prodotto, con una nuova sensibilità, il turbamento della poesia di fronte alla musica. Prima della rivoluzione romantica, i poeti sembravano mantenere con la musica rapporti di buon vicinato: « sobrii, cortesi, generici, edonistici ». Alla tranquilla certezza di possedere le cose, i moderni hanno sostituito la ricerca di quel possesso. Ed ecco che la musica, per la sua stessa natura, diventava il modulo ideale della poesia, una specie di strumento designato a esprimere tutte le modificazioni del nostro essere nella loro pienezza, indipendentemente dalle cose che le avevano provocate. Proprio in questa funzione di iniziatrice e di fecondatrice la musica moderna ha preso, nel gusto dei letterati, il sopravvento su quella antica. Di conseguenza, la poesia moderna non manifesta spiccate predilezioni per la musica antica, privilegiando invece quella moderna: una musica che

[...] adora, attende, insegue, commenta l’idea, accarezzandone o soffrendone l’approssimarsi e la dipartita. Intorno alla musica essa crea tutta un’aura, tutto un alone di musica alla ricerca della musica, di musica nostalgica della musica. Mette insomma in evidenza il suo coefficiente di musicalità. Quella musicalità, appunto, di cui la letteratura tenta appropriarsi la palpitazione e il movimento, di fronte a cui la letteratura è in continua tentazione.

Il concetto di musica moderna, dunque, per Debenedetti nasce col romanticismo; ma dove finisce la musica che esprime il gusto della modernità? E in che misura vi rientra la musica del Novecento, e in modo particolare quella dichiaratamente antiromantica, che si rifà al passato e coniuga la modernità con l’antico? Ci troviamo qui di fronte a un duplice paradosso: per Debenedetti moderna è la musica del romanticismo, che il Novecento, dopo la rottura operata dalle avanguardie, considerò invece musica del passato (il caso di D’Annunzio è sotto questo aspetto esemplare, perché descrive tutto intero l’arco della parabola); ma nel concetto di modernità, quello che offre alla letteratura una « complicità addirittura peccaminosa », non figura la nuova musica del presente. Essa rimane esclusa dall’orizzonte di Debenedetti. Ne è prova il fatto che nel tracciare le vicende della poesia, del romanzo e dell’arte del Novecento, Debenedetti non abbia quasi mai preso in considerazione la musica della propria epoca: fermandosi, salvo casi sporadici – e quello di Puccini è il più rilevante -, a Wagner e Debussy come punte avanzate e termini di confronto del nuovo destino che la musica si era tracciata.

È poco probabile che uno studioso dell’acume di Debenedetti non vedesse i possibili collegamenti con la musica proprio sul piano della letteratura moderna e delle sue caratteristiche estetiche e formali (nella poesia ermetica, per esempio, o nel romanzo di Joyce); questo aggancio però manca. E si tratta senza dubbio di una scelta consapevole e voluta. È possibile, come pensa D’Amico, che le esperienze musicali di Debenedetti si fermassero ai ricordi della giovinezza, e che tutti i suoi rapporti con la musica si basassero essenzialmente sull’elaborazione di quei ricordi. Ma è anche possibile avanzare l’ipotesi che Debenedetti rifiutasse una musica a cui era stato sottratto proprio quel valore di “musicalità” e di “sospeso incantamento” che a lui sembrava invece essenziale alla mimesi poetica e alla sensibilizzazione letteraria: che, in altri termini, ciò suonasse a implicita condanna della musica moderna e delle sue tendenze.

Se così fosse, nell’indagine sulle poetiche e sugli autori del Novecento non avremmo né una musica che spiega la letteratura né una letteratura che s’ispira alla musica ma soltanto un eloquente silenzio. Tra le tante “licenze” di Debenedetti, questa è la più dura e radicale: in nome d’una poetica, senza dubbio.


NOTE

1. S. Sablich, Il Novecento. Dalla “generazione dell’80″ a oggi, in Letteratura italiana. VI: Teatro, rnusica, tradizioni dei classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 410-437.
2. G. Debenedetti, Proust e la musica, in Saggi critici. Prirna serie. Milano, Il Saggiatore, 1969, p. 213.
3. Ibid., p. 217.
4. G. Debenedetti, Probabile autobiografia di una generazione (Prefazione 1949, in Saggi critici, cit., pp. 23-24.
5. G. Debenedetti, Puccini e la ”melodia stanca”, in Il personaggio-uomo, Milano, Garzanti, 1988: da questa edizione (pp. 136-139 sono tolte le citazioni che seguono. Il saggio uscì dapprima in L’Italia è giovane, miscellanea, Milano. Mondadori, 1961, poi in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 819-826.
6. G. Debenedetti, Probabile autobiografia… cit., p. 28.
7. Il Congresso si tenne a Palazzo Vecchio dal 30 aprile al 4 maggio. Vi parteciparono importanti personalità dell’arte, della musica e della cultura, tra cui De Schloezer, Vuillermoz, Gavazzeni, Handschin, Copeau, Prunières, Milhaud, Casella, Besseler, Collaer, Graf, Jeppesen, Bontempelli, Schaeffner, Ronga. Debenedetti lesse la sua relazione nella seduta antimeridiana del 3 maggio.
8. G. Debenedetti, L’Oratorio di Via Belsiana, in Atti del terzo Congresso Internazionale di Musica, Firenze, Le Monnier, 1940, pp. 102-106. Il saggio, che non risulta essere mai stato più ripubblicato, è qui riprodotto integralmente.



L’ORATORIO DI VIA BELSIANA

Sulle rive del Mediterraneo, in una notte senza luna, ma gonfia di respiro e di connivenze musicali, un signore gira una manovella, poi prende accanto a sé un disco, alla cieca. Il grammofono comincia a esalare l’introduzione al Benedictus della Missa solemnis di Beethoven.

Quel signore – e i lettori di Music at night se lo ricordano – non è altri che lo scrittore inglese Aldo Huxley. Forse non andremo troppo errati, qualificando lo Huxley come un tipico figlio del secolo. Le sue esperienze possono essere considerate. sintomatiche del gusto, o dei gusti, correnti tra i letterati presi come tali, nonché come rappresentanti della società colta del giorno d’oggi.

Anche nelle notti senza luna rimane accesa la stella dei letterati. E questa aveva voluto che tra le mani dello Huxley capitasse proprio il disco del Benedictus beethoveniano. Con ipotesi meno soprannaturale, si potrebbe tuttavia sospettare che, se non il Benedictus, una musica di gusto analogo gli sarebbe comunque venuta tra mano: per la buona ragione che, uscendo quella sera verso il mare, egli aveva portato con sé tutti dischi del medesimo genere.

Per seguitare, a prelevar testimonianze dai letterati – i quali senza dubbio possono recare un utile contributo al problema che ci interessa – supponiamo che una rivista o giornale, di quelli che bandiscono i referendum, ponesse agli scrittori un quesito suppergiù del tipo seguente: « Stendhal proclamava che avrebbe fatto una notte di cammino a piedi per andare a sentire il Barbiere di Rossini. Ammesso che l’andare a piedi fosse ancora di moda, per quale musica fareste voi altrettanto? ». Probabile che, in una imponente percentuale di casi, l’opzione non cadrebbe su una musica antica. Che se cadesse, ne daremmo un poco la colpa, o il merito, a quell’arte della menzogna che, secondo alcuni, è tra gli ingredienti del dono poetico.

Sappiamo, per esempio, come avrebbe risposto Gabriele D’Annunzio sul finir del secolo scorso, quando anche lui era ancora, soprattutto, un figlio del secolo. Più che rispondere – a chi avesse voluto, allora, indagare la qualità e la consistenza del gusto per la musica antica – egli avrebbe fornito un recapito: preciso come l’indirizzo di una chiromante. Roma, via Belsiana: l’oratorio segreto, la piccola chiesa immersa in una penombra turchiniccia, di cui parla il Trionfo della Morte. Ivi un conciliabolo di vecchi scienziati e filosofi, si adunava a evocare, direi quasi spiritualmente, le grandi musiche del passato. « Qualche debole onda d’effluvio (incenso? belzuino?), a pena percettibile, vagava nell’aria. Ove mazzi di violette, un poco appassiti, in vasi di vetro, su l’unico altare, esalavano il fiato della primavera. E i due profumi morenti parevano essere come la poesia dei sogni. che la musica suscitava dalle anime senili. » In realtà tra quei vecchi, il poeta inviava i suoi giovani personaggi, i protagonisti del romanzo, affinché la musica rara – nella rarità del luogo e della cornice – propiziasse un vero incontro d’amore. Senonché in pagine dove tutto prende corpo e figura, ogni dettaglio dell’ambiente e dell’atmosfera, la musica non è descritta neppure di volo, come se nell’incanto la sua specifica qualità musicale non avesse parte, operasse meno che il profumo delle viole e dell’incenso, meno che lo spettacolo delle teste canute, assorte dentro la penombra. D’Annunzio non sente il bisogno di rivivere quella musica; gliene basta il nome illustre e dissueto. E se ne serve strumentalmente: corre di un simbolo di raffinatezza, di peregrinità spirituale, che un uomo e una donna possano innamorarsi sotto quel segno, gli par già cosa da romanzo. Ma più in là, nello stesso libro, quando toccherà di Tristano e Isotta, cioè di una musica che veramente incide sul suo gusto più spontaneo e vivo, D’Annunzio non si contenterà più di fermarsi al nome; anzi rincorrerà, quanto possibile, con la parola, la « turbinosa ascensione » (così egli la chiama) della partitura wagneriana.

Ma allora? Parlare di una qualunque sordità della letteratura moderna nei riguardi di quella antica, può anche sembrare strano, discutibile, paradossale; quando una delle accuse mosse a questa letteratura è appunto di essere troppo musicale, troppo impregnata di musica e ambiguamente compromessa con la musica. Non contenta di accendere quasi una gara tra i poteri della parola e quelli della musica, di rapire alla musica il suo bene, essa ha cercato nella musica la grafia più aderente alle sensazioni che va di preferenza catturando, ai sentimenti che tenacemente si sforza di delineare. Una grafia che sembra rispondere come nessun’al-tra all’esigenza di essere già corpo e di serbarsi ancora spirito, di impegnare già la cosa e di tenerla ancora sospesa allo stato di idea. E d’altronde una statistica, chi volesse sbizzarrirsi a tentarla, mostrerebbe forse che questa letteratura ha trovato nella musica uno dei repertori più ricchi per le sue metafore: pronto come un rimario, spedito come una Regia Parnassi. Ai moralisti di stabilire se un tale appello alla musica sia rinunzia, sia viltà da parte della poesia.

Quasi certamente, però, come si dice che il romanticismo ha inaugurato in poesia la sensibilità per il paesaggio, si potrebbe ripetere che vi ha inaugurata anche quella per la musica. Prima della rivoluzione romantica, i poeti sembravano mantenere con la musica dei rapporti di buon vicinato: sobrii, cortesi, generici, edonistici. Il bello musicale era, per loro, una tra le tante forme del piacevole e del commovente. Parlavano di musica come di una cosa tra le cose: presenza concreta, ferma, tranquillamente sistemata nel mondo esteriore.

Col romanticismo la poesia, appena si trova di fronte alla musica, comincia a provare un particolar turbamento. Si sente provocata ad entrare nell’intimo dramma della musica, a sposarne, come dicono, il divenire. Goethe diceva: « Gli antichi descrivevano il terribile, noi facciamo terribile la descrizione ». Che potrebbe. anche essere una definizione, e quanto autorevole, del romanticismo. Gli antichi citavano, o descrivevano, una musica; dal romanticismo in poi si fa musicale la descrizione. Cioè, più generalmente – ed è di nuovo Goethe che parla – « gli antichi descrivevano la realtà, i moderni l’effetto ». Alla tranquilla certezza di possedere le cose, a traverso la semplice magia dei nomi, i moderni sostituiscono la ricerca di quel possesso, rincorsa lungo le modificazioni che le cose producono su di noi, sulle nostre vite. Ma non è appannaggio della musica il trascrivere direttamente quelle modificazioni del nostro essere, nella loro purezza, al disopra delle cose che le hanno provocate? Ecco che la musica diventava il modulo ideale della poesia, il caso limite verso cui essa tendeva nel nuovo destino che si era tracciata. Gli antichi descrivevano le cose; i moderni descrivono la musica delle cose. E fanno, beninteso, musicale la descrizione.

Ma è proprio qui, in questa funzione di iniziatrice, che la musica moderna – moderna, dal romanticismo in qua – prende, nel gusto dei letterati, il sopravvento sull’antica. Di qui le riserve, più o meno implicite, che la poesia moderna manifesta nel gusto per la musica antica.

Il privilegio degli incompetenti, quando parlano tra i competentissimi, è di potere arrischiar delle ipotesi. Mi sia concesso di azzardarne una. La musica antica è assertrice: espone l’idea preparandone l’enunziato e poi distaccandosi da quello a traverso formule oggettive, precise, in certo senso prevedute come una cerimonia o un uso di galateo. Quella moderna invece adora, attende, insegue, commenta l’idea, accarezzandone o soffrendone l’approssimarsi e la dipartita. Intorno alla musica essa crea tutta un’aura, tutto un alone di musica alla ricerca della musica, di musica nostalgica della musica. Mette insomma in evidenza il suo coefficiente di musicalità. Quella musicalità, appunto, di cui la letteratura tenta appropriarsi la palpitazione e il movimento, di fronte a cui la letteratura è in continua tentazione.

Sicché, se l’antica musica può tornare, ed essere austeramente amata, come una ferma immagine di bellezza; quella moderna offre addirittura una complicità. Che è sempre più facile ad accettarsi, anche se più peccaminosa, forse appunto perché più peccaminosa.