Amedeo

di Giorgio Barberi Squarotti

Con il senno di poi, in Amedeo ed altri racconti, usciti nel 1926 per le edizioni del “Baretti”, si è fatto ricorso alla definizione di esperienze proustiane, giocate sul piacere della memoria e dell’analisi degli anche minimi moti della coscienza, condotta con somma sottigliezza e attenzione; oppure si è parlato di un narrare fondamentalmente saggistico, sì avvicinandosi in questo modo più propriamente ai caratteri della narrativa di Debenedetti, ma anche mettendo in secondo piano l’estrema cura della prosa di Debenedetti, tutta costruita su sapientissimi ritmi musicali in funzione evocativa. La memoria, in realtà, proprio non ha nulla a che vedere con i racconti di Debenedetti, e, con la memoria, neppure Proust c’entra minimamente.

Il destino dei libri è per lo meno curioso: non letti per quello che sono; ma per l’immagine che dell’autore si è successivamente fissata oppure considerati secondo prospettive e parametri che sono loro cronologicamente e ideologicamente estranei, per puri accostamenti esteriori, dovuti all’essere venuti in fama ed essersi diffusi modelli di personaggi e di stile narrativo che, però, sono del tutto altra cosa rispetto a quello che lo scrittore ha voluto rappresentare effettivamente. Amedeo e gli altri racconti del libro del 1926 hanno patito tale destino: e, d’altra parte, le lettere di Saba a Debenedetti, del 1925 e del 1926, che molto opportunamente Ghidetti ha pubblicato in appendice alla ristampa dell’opera nel 1984, dimostrano che l’incomprensione nei confronti dei modi dell’esperienza narrativa debenedettiana è molto remota nel tempo, se Saba scrive che di Amedeo e di Suor Virginia ha avvertito estranea e negativa sul piano dei risultati la freddezza della rappresentazione. Saba rimprovera a Debenedetti la scrittura senza passione e senza partecipazione, il distacco, il non coinvolgimento, onde sembra a Saba che Debenedetti metta in funzione un meccanismo astratto, che opera senza materia, senza giungere a nulla che non sia la narcisistica contemplazione della misura e della regolata successione dei propri moti perfettamente calcolati: una costruzione puramente formale, senza contenuti.

L’osservazione ha qualcosa di vero, a patto che non si trasformi in un giudizio limitativo o, peggio, negativo. II linguaggio dei racconti di Debenedetti, soprattutto di Amedeo e di Suor Virginia, è modulato perfettamente su clausole ritmiche che molto spesso si raccolgono in veri e propri versi regolarissimi, come endecasillabi e settenari; e la frequenza delle occorrenze sta a testimoniare che la costrizione sillabica è determinatamente scelta da Debenedetti. A caso si possono citare esempi pressoché in ogni pagina: « si aggiustava una piccola ed oscura »; « per un bisogno d’intima coerenza »; « nelle pause tra l’uno e l’altro accesso », « sempre nuove e erse » ; « della sua vita ingrata rivedeva »; « il gusto e la pazienza di osservare »; « dietro un cristallo, svolgersi la festa »; « don Francesco, allorché le aveva dati / gli ultimi consigli per il viaggio, / e quanto più la memoria pareva / impuntarsi a tacere »; « poi lentamente s’avviò, come guidata »; « lo spiegò, togliendone il biglietto / distendendo con cura contro il petto » (qui c’è perfino la rima); « isolandosi sempre più distinto / nell’aria che il mezzogiorno faceva / deserta e silenziosa ». Per lo più l’endecasillabo è collocato in posizione forte, all’inizio oppure come clausola di un periodo, onde rilevare meglio il ritmo della frase, che, di conseguenza, dà alla narrazione, a sua volta, una scansione suasiva, profonda d’echi e di risonanze, che si rimanda nella pagina, fino a costituire una trama sicura di cursus perfettamente calcolati. Non credo sia possibile comprendere il narrare di Debenedetti se non si dedica la debita attenzione al ritmo della prosa in cui la materia narrativa si scandisce: Debenedetti racconta anche questo ritmo, questo susseguirsi di periodi perfettamente equilibrati, questo corrispondersi di risonanze e di clausole, tuttavia non applicate già a un’intenzione puramente descrittiva o evoca-tiva, come si presenta in un Lecchi, per esempio, in uno Sbarbano (del cui Pianissimo, tuttavia, il verso celato di Debenedetti sembra riprodurre la sorda scansione), in un Cardarelli, ma, al contrario, alla fondazione e all’illustrazione di un personaggio ben determinato, come sono Ame-deo e Suor Virginia, cioè a una materia obiettiva, ben definita davanti al narratore che la descrive e la mette in azione, anche se tale azione è pressoché esclusivamente interiore, e poco ne esce fuori, in pochi eventi e vicende si estrinseca (perché non ne ha affatto bisogno, in quanto il significato del personaggio è interamente illuminato dalla luce che il narratore fa brillare dal di dentro del personaggio stesso).

Tanta cura e tanta misura di prosa, allora, bene può essere riferita all’esperienza contemporanea della “Ronda” (e, prima, ai vociani più portati verso la narrazione: Jahier, per esempio, oppure anche lo Sbarbaro dei Trucioli più distesi quanto a spazio, delle prose di quasi racconto posteriori ai Trucioli, che confluiranno in Liquidazione). Degli scrittori più inquieti e moderni della “Ronda”, come Montano, Debenedetti ha la sapienza della scrittura intimamente unita con la capacità di dominare perfettamente l’oggetto del racconto attraverso il totale sliricamento della prosa, che non indulge mai all’indugio descrittivo o allo slancio del sentimento. Sì, ha ragione Saba quando osserva come Debenedetti si tenga a distanza sia da Amedeo sia da Suor Virginia come se fossero gli oggetti di un esperimento di studio analitico, privati di libertà e di movimenti dal fatto di essere posti sotto la luce fredda della prosa così curata e così misurata, senza abbandoni, senza avventure: ma tale modo di narrare vuole essere in funzione del preciso disegno di due personaggi esemplari, che tali possono apparire soltanto se il narratore non ne rimanga coinvolto, ma li studi e li osservi con perfetta obiettività che, però, a differenza di quello che accade nella narrativa naturalista, riguarda il carattere, l’interiorità, i moti dell’animo, nelle motivazioni, nella fenomenologia, nelle conseguenze non tanto all’esterno, ma nella vita del personaggio stesso.

Per il personaggio di Amedeo è anzitutto da dire che sarebbe un grave errore classificarlo come un “inetto” di tipo sveviano. Al contrario, Amedeo ha i caratteri del superuomo dannunziano, quello che stava accendendo gli ultimi, ma splendidi fuochi d’arte (e non più di impossibile azione), nelle prose di memoria, soprattutto ne Il compagno dagli occhi senza cigli. Dannunzianamente, è il superuomo che fallisce, quello che ha supreme ambizioni, ma non è capace di attuarle (e, dietro, c’è una tradizione ancora ottocentesca a precisarne i caratteri: Corrado Silla in Malombra, per esempio). Amedeo è il protagonista intellettuale che vuole modellare il mondo secondo l’immagine che se ne è fatto. Sente la realtà come troppo inferiore a se stesso, e gli altri giovani come lui non meritevoli neppure di essere presi in considerazione nella gara di superiorità scolastica, perché la possibilità stessa della gara vorrebbe dire una diminuzione di sé, un riconoscere che c’è qualcuno che può essere confrontato con il proprio valore, con la propria eccezionalità. Amedeo è concentrato nell’assidua contemplazione della consapevolezza di essere superiore a tutti e nel conseguente disprezzo per gli altri. Se i successi non vengono come dovrebbero, è colpa del mondo e della realtà, che sono indegni della sua altezza e non riescono a comprenderla e ad accettarla. La prospettiva secondo cui i coetanei, la scuola, i fatti e le esperienze della vita giovanile, sono considerati è quella della coscienza dell’assoluta superiorità, che dal personaggio si allarga alla cassa di risonanza di adorazione e di ammirazione che è la famiglia. È come se Amedeo astraesse, per presunzione di valore che non ha bisogno di dimostrarsi e di imporsi, perché esiste di per sé, è un dato assoluto, senza bisogno di verifiche e senza relazioni, da tutto ciò che gli è intorno, tranne che dalla famiglia perché questa ha lo stesso punto di vista che è il suo. È il superuomo che rifiuta di vedere ostacoli, limiti, fallimento, perché a priori li ha negati come possibili, così come respinge anche soltanto l’ipotesi che ci possano essere coetanei in grado di entrare in gara con lui. Invece di espandersi verso l’esterno, cioè di agire, come il superuomo Claudio Cantelmo de Le Vergini delle rocce, Amedeo rifugge totalmente dall’azione, perché significherebbe l’accettazione del confronto, il mettere a rischio la propria eccezionalità racchiudendola in un’azione misurabile esattamente e obiettivamente giudicabile. La sua condizione superiore è astratta, assoluta: ogni scelta e ogni operazione vorrebbe dire limitarla, costringerla in regole, confini, metodi, risultati.

Neppure la letteratura può essere un campo adeguato, come è, invece, per il protagonista de Il compagno dagli occhi senza cigli, non più nella sua eccezionalità di uomo di azione e di scelte, ma artista supremo, che esplica tutta la sua superiorità nel carattere unico, mirabile, superiore della sua arte di scrittore. Il punto di riferimento è, sì, quello dannunziano più tardo dell’eroe intellettuale, che arriva ai fastigi supremi dell’arte, dopo aver verificato che i limiti obiettivi dell’azione non permettono alla superiorità di esplicarsi veramente, e compiutamente, anzi possono condurre al fallimento, mentre nella scrittura non c’è nessun ostacolo che possa circoscrivere l’abilità eccezionale dell’artefice eroico. Ma per Amedeo la scrittura potrebbe voler significare che la consapevolezza della propria condizione di superiorità è illusoria, perché sarebbe pur sempre un confronto al di fuori di sé e dell’ambito familiare. Per questo Amedeo ne respinge l’ipotesi o, meglio, la rimanda continuamente, perché anche lo scrivere gli imporrebbe l’atto, l’iniziativa, la scelta di operare, sia pure in modo esclusivamente intellettuale, e Amedeo è incapace di agire:
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Se, per le sue disposizioni accidiose ed astratte, gli era interdetta una vita attiva, sopravvivevano in lui, rinascenti a ogni smentita, certe torbide. aspirazioni a mettere sulla sua caotica vita morale il suggello di una letteratura: propria o riflessa. Il che rispondeva pur sempre al disegno che aveva fatto in principio di una sua figura eccezionale e segnalata: per adeguarsi alla quale aveva speso [...] tutta la sua esistenza [...] E, come la vita letteraria offriva una materia delle più lusingatrici, la disposizione di fatalistica attesa che in lui si era andata sviluppando lo faceva protendersi verso il futuro, in cerca di condizioni che non gli risultavano ben chiare, ma che sarebbero state capaci di far coincidere i limiti della sua natura con i limiti di un’opera comunque conclusiva. (1)

Amedeo attende dal di fuori la spinta ovvero l’occasione per dedicarsi alla scrittura. Non può pensare di cimentarsi nella vera e propria creazione, perché è incapace di fare, di operare: la sua può essere al più una mimesi d’altri, l’identificazione con quello che altri già abbiano compiuto, l’imitazione di altre scritture. Se l’essere narcisisticamente ripiegato su se stesso e sulla propria eccezionalità in modo ossessivo riempie tutta l’esistenza del personaggio, ecco che, allora, in questo vuoto di azione, lo stesso impulso alla letteratura non può che essere qualcosa che viene dal di fuori a inserirsi sull’assenza di attività e di efficacia che è la caratteristica tipica di Amedeo. La letteratura è un’aspirazione, ma non può nascere dall’esclusiva contemplazione di sé come essere superiore, perché comporta l’inserirsi su quelle istituzioni che sono la lingua, la letteratura stessa, queste sì obiettive e non rifiutabili a priori, come, per esempio, la scuola in quanto confronto con i coetanei e con i maestri; e allora, necessariamente, tali istituzioni devono in qualche modo offrirsi ad Amedeo, perché egli possa, poi, dedicarsi alla scrittura.

Amedeo, a differenza del protagonista de Il compagno dagli occhi senza cigli, non si è neppure disegnato addosso la figura, che sarebbe pur sempre il frutto di una scelta, dello scrittore sublime, inarrivabile, inimitabile. Vuole essere l’esempio di tutte le possibilità e le attitudini di cui si è convinto di essere dotato più che chiunque altro, ma senza mai darne la prova. II confronto con la letteratura è, di conseguenza, impossibile, a meno che l’occasione gli si offra dal di fuori in qualche modo, come riconoscimento da parte dei fatti, del mondo, del caso, che egli ha straordinarie capacità letterarie, di necessità evidenti e riconosciute, onde il mondo, appunto, non può non dargli il modo e l’opportunità, più adeguati per attuarle. Che tale possibilità sia offerta ad Amedeo da una specie di “catena di Sant’Antonio” fa parte dell’ironia di Debenedetti o, meglio ancora, dell’aspetto tragicamente impotente e involuto del suo personaggio. Amedeo non dovrebbe che fare nove copie della preghiera che gli è arrivata per lettera e che gli è ingiunto di spedire ad altre nove persone, con promesse di premi miracolosi se lo farà e con la minaccia di orrende disgrazie se si sottrarrà al compito. È il grottesco livello, il più basso che si possa immaginare, in cui la tensione alla letteratura di Amedeo va a sfociare. Ma è una parodia di tutta l’organizzazione di vita che egli si è costruita: il caso ovvero il destino è quello di una ridicola catena di lettere nate da superstizione e ignoranza; i personaggi illustri su cui Amedeo vorrebbe esemplarsi sono quelli molto improbabili che sono citati nello scritto di accompagnamento della preghiera da copiare e inviare in giro; la scrittura stessa è una meccanica opera di copiatura. Non ci potrebbe essere un contrasto più stridente fra la consapevolezza che Amedeo nutre della propria superiorità e l’occasione che il caso gli porta, quella tanto attesa come impulso a dedicarsi alla scrittura, in base al riconoscimento fatale delle sue capacità d’eccezione.

Ma Debenedetti non rappresenta la vicenda di Amedeo nella prospettiva del grottesco o dell’ironia come dimostrazione dell’iato enorme che esiste fra aspirazione e realtà: e tanto meno vede l’episodio della “catena” di lettere come il culmine di una grottesca impotenza del personaggio. La prospettiva di Debenedetti è, fondamentalmente, tragica. Amedeo è un personaggio che, anche nel conclusivo episodio della “catena” epistolare, costituisce un emblematico esempio dell’ultima sorte del superuomo, quella tutta introiettata nella contemplazione di sé. Sì, Amedeo alla fine, dopo molti dubbi e progetti, lacera la lettera circolare e la preghiera acclusa, proprio perché, come segnale del destino, anche a lui appare risibile. Resta, infatti, il superuomo, che è « non illuso né condiscendente a quello che potesse, comunque, apparirgli meschineria e viltà ». È qui un altro aspetto fondamentale della narrazione di Debenedetti: in quanto tutto rivolto alla contemplazione di se stesso, Amedeo non ha progetti né volontà di azione, che comporterebbe sempre un confronto e un contrasto con le leggi morali e con quelle della coscienza, non potendosi dare per lui neppure l’ipotesi di un’azione senza la certezza del successo; ma ha, invece, un fortissimo impegno morale, che, essendo tutto interiore e commisurato a pensieri, aspirazioni, comportamenti privati; alla propria esistenza del tutto costretta come autosufficiente, si affina, esercita, perfeziona rivolgendosi continuamente su se stesso, poiché non ci sono mai rapporti all’esterno né Amedeo cerca occasioni per mostrare al di fuori il suo abito etico. È un abnorme esercizio che non vuole avere sbocchi né verifiche: anche l’impegno morale è e basta. Ed è singolare che in questo rigore assoluto vada a finire una gran parte delle energie di Amedeo come personaggio d’eccezione, come incarnazione del superuomo. L’azione si è conclusa, insomma, e la prima guerra mondiale è il discrimine fra le aspirazioni a essere e ad agire del superuomo che si rivolge al di fuori, verso la storia e la società e la vita, e il chiudersi del nuovo superuomo, che viene dopo tanta azione e tanti eventi, nella propria autocontemplazione, nell’esercizio delle virtù per una sorta di autogratificazione e compiacimento di sé, nell’impegno morale che non sfocia in una comunicazione e in un rapporto all’esterno, in un’opera di modificazione e di miglioramento del mondo, ma rimane fine a se stesso, raccolto nell’iniduo che vi si esercita.

Si è totalmente tagliato il legame fra il perfezionamento dell’eroe e l’azione che deve dimostrare tale culmine raggiunto. La vetta di superiorità non è soggetta a verifiche di nessun genere. Basta a se stessa o, meglio, basta al personaggio, che perfettamente ripropone il mito di Narciso come quello che meglio lo definisce. Rimane, del superuomo dannunziano, la fiducia nel destino sublime come le capacità eccezionali di Amedeo, che dovrà decretarne e imporne il successo: ma tale destino è atteso, non provocato o affrettato; deve giungere per una sorta di privilegio, non è l’attuazione di un progetto preciso e di una volontà determinata e rigorosa (come è anche quello del protagonista de Il secondo amante di Lucrezia Buti e de Il compagno dagli occhi senza cigli):
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La sua parte fatale, di comparsa svagata ed immemore tra i commerci degli uomini ed il difficile egoismo delle cose, aveva presupposto sempre, a guardarci bene, la fede in un immanente destino che gli riserbasse, per un tempo più o meno lontano, qualche grandiosa rivelazione. Speculare e astrologare sul passo della fortuna era, sotto sotto, un’attesa sorniona del successo: fiducia secca e logora e senza sogni, bisognosa di rianimarsi sulle più esteriori parvenze; ma, insomma, fiducia. Le superstizioni a cui s’era abbandonato potevano valere a manifestargli la composizione metafisica del suo avvenire; non ad alterarla. (2)

C’è senza dubbio nel ritratto di Amedeo un’ambiguità, che ne costituisce l’aspetto più vivo e fascinoso, fra la fermezza del giudizio, che affonda nell’arido viluppo interiore del personaggio, rilevandone l’astrattezza, la presunzione, l’errore, e l’apologia, a malgrado di tutto, di una coerenza assoluta quanto inerte (”accidia” è il termine etico che più spesso Debenedetti usa per definire l’abito di fondo dell’anima di Amedeo), inefficace, inutile, fallimentare per quello che riguarda riconoscimenti, successi, relazioni, nella scuola come nella vita (rifiutata, anzi, quest’ultima per un ulteriore scatto di autocompiacimento, quello che gli deriva dalla ricerca di un’ascetica purezza da ogni tentazione dei sensi), ma perfetta in sé, nella sua abnorme e non verificabile perfezione e autosufficienza: « Passava il meglio del suo tempo ad almanaccare lentamente: per poter sapere senza provare ».Amedeo rifiuta l’esperienza (e il racconto che lo ha come protagonista non è, di conseguenza, un omaggio sia pure insolito alla struttura, del “romanzo di formazione”: il personaggio è perfettamente formato da sempre e per sempre, è sottratto al tempo ed è come fuori di ogni davvero percorribile spazio, del resto spazio e tempo essendo dimensioni narrative del tutto estranee a Debenedetti).

Per questo il narrare di Debenedetti è immobile, circolare, chiuso su se stesso, perché con un movimento concentrico si accentra costantemente sul personaggio di Amedeo, analizzando i moti e le motivazioni delle posizioni, degli atteggiamenti, dei pensieri del personaggio, tutti raccolti intorno alla contemplazione della propria vuota e vana eccellenza. È vero che Debenedetti non racconta eventi, ma perché racconta invece i rovelli, i contorcimenti, l’accidia narcisistica, i compiacimenti di chi si pone come il superuomo dell’intelligenza e dell’eccellenza morale. È un ritratto, che consiste nella descrizione accurata, minuziosa, precisa, non disgiunta mai dal giudizio: ma, appunto, con quel tanto sempre di credito che il personaggio si guadagna con l’assolutezza e l’accanimento con cui difende contro gli eventi e i coetanei e il mondo intero la certezza della propria eccezionalità, che ha pure un valore, sia pure arido e astratto. Perfino l’ascesi morale, con l’aureola di sofferenza e di contrasto (come dice il narratore) che gliene deriva in quanto lo isola ancora più nettamente da tutti gli altri uomini, è in esclusiva funzione del rafforzamento della certezza dell’eccezionalità. I risultati che Amedeo raggiunge nella scuola sono « faticosi e senza grazia » : egli ha « meno vita e meno prontezza » rispetto ai coetanei, e prima o poi Amedeo non può non essere superato nella scuola e, di conseguenza, anche nella vita. Di qui la ricerca e il raggiungimento dell’autosufficienza della consapevolezza del proprio valore: il superuomo intellettuale, che per potersi vantare come tale ha respinto ogni azione, ogni dimostrazione della propria superiorità come indegne del suo valore troppo elevato per accettare gare e confronti, e ha pure lasciato ipotetica la stessa scrittura che pure gli si addirebbe perfettamente, attua allora il paradosso della certezza suprema di sé che coincide con la sconfitta totale, il fallimento senza remissione, ma che entano, di fronte al giudizio che Amedeo ha ormai stabilito dentro di sé nei confronti del mondo, una sorta di crisma che consacra ancor più efficacemente la propria superiorità.

Debenedetti, per un verso, quello dell’attenzione più strenua al significato morale dei moti interiori del suo personaggio ripropone un modo di narrare che ha le sue radici in un narratore a lui criticamente così caro come è il Tommaseo, il sommo romanziere di Fede e bellezza: e si può osservare allora come l’acuta modernità del racconto di Amedeo come indagine esclusiva d’anima si unisca con l’idea del narrare come continuo, quasi ossessivo studio etico, quanto più è possibile sottile nell’applicarsi senza tregua alla raffigurazione di quello che è pure un caso abnorme ed esemplare di un nuovo tipo di eccezionalità, quella che tale si definisce da se stessa. In questa prospettiva, il racconto di Debenedetti non è neppure la descrizione di una sorta di eroe antifrastico, come è nella grande tradizione narrativa del Novecento, dal Pirandello dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore e di Uno, nessuno e centomila al Borgese di Rubè e al Gadda de La cognizione del dolore, perché in Amedeo non c’è nessuna intenzione di far valere i propri fallimenti come dimostrazione ironica dell’inadeguatez-za del mondo, della degradazione contemporanea della vita e della storia, rilevate proprio dalla decisione di porsi al di fuori, estranei, non compromessi, vinti, perché in questo stato di cose essere sconfitti è un onore e vincere significherebbe una vergogna. Debenedetti lascia a un certo punto il suo personaggio, senza giustificare la conclusione del ritratto che, infatti, conclusione non è. In una narrazione circolare, qualsiasi punto va bene per incominciare e per finire: e questa è un’ulteriore dimostrazione che Amedeo non è un racconto di formazione e di esperienza. Poiché Amedeo è tanto esclusivamente chiuso su se stesso, non può accadergli nulla di tragico, come al Corrado Silla di Fogazzaro o al Giorgio Aurispa del Trionfo della Morte di D’Annunzio. La tragicità è, se mai, nella sua condizione di una superiorità non verificabile, nella sua chiusura su di sé, nella sua incapacità, anzi impossibilità di agire, nel suo essere e basta, senza vita, senza scrittura, senza altro che la fiducia in un destino che non si presenta mai: nella condizione, insomma, di superuomo che inizia e finisce in se stessa, e mai può avere la gratificazione del risultato, dell’effettiva imposizione ed esemplarità della propria eccezionalità.

Molto erso è l’altro maggior racconto del libro, Suor Virginia. Il nome è fin troppo trasparentemente pascoliano (un altro degli autori più cari a Debenedetti critico). Ma di pascoliano il personaggio del racconto di Debenedetti non ha pressoché nulla oltre il nome. Di fronte al narrare analitico e, al tempo stesso, all’indagine etica di Amedeo, Suor Virginia si presenta come il racconto dell’estraneità assoluta rispetto alle cose e al mondo, per la sostanziale e originaria incapacità di istituire contatti. Suor Virginia è fuori della vita, fuori anche dei fatti più comuni e semplici, come sarebbero un viaggio in treno, la consegna del biglietto al controllore, l’uscita dalla stazione, le strade per recarsi al nuovo convento a cui è stata destinata. Per questo Debenedetti racconta con una tecnica minuta, fittissima di particolari, equamente isa fra l’oggettività dello sguardo che segue le minime azioni di Suor Virginia e l’elencazione altrettanto minuziosa dei moti interiori, dilatati enormemente pur nella loro elementarità. A Suor Virginia, arrivata nella città straniera, non accade pressoché nulla, e tutto quello che vede è la stazione, qualche strada, una caserma con i poveri che vi si recano a ricevere i resti del rancio. Ma ogni minimo particolare di questo concentratissimo e limitatissimo paesaggio è dilatato quanto più è possibile, perché è l’oggetto di un’osservazione analitica che lo sfaccetta e moltiplica fino a costituire il vero argomento del narrare. Di fronte all’eccezionalità per eccesso di Amedeo, Suor Virginia rappresenta l’eccezionalità per difetto, il minimo livello possibile della coscienza elementare, che non si rende bene conto neppure di vivere, nonché di dove vive e di che cosa è necessario fare per vivere anche in una misura infinitesima quale è la sua. La stessa storia d’amore di Suor Virginia, nel suo passato di lavorante in un laboratorio di sartoria, è un evento che ella si crea dal nulla e vive di fantasticherie e di sogni presi per realtà o, almeno, per un preannuncio, una forma aurorale di vera vita dei sentimenti.

In questo, il grado supremo di consapevolezza del proprio essere e valore (Amedeo) e il grado più basso di autocoscienza (Suor Virginia) si toccano. Amedeo e Suor Virginia vivono una vita fantastica: nel sogno della superiorità l’uno, nell’opposto sogno dell’estraneità al mondo l’altra. Amedeo si costruisce una sublimità esemplare, Suor Virginia un intrico di consolazioni, di tenerezze, di piccoli dolori che il pianto basta a confortare, di rispetti umani e di vergogne che esistono soltanto per lei e di cui nessun altro neppure si rende conto. Vivono entrambi fuori, stranieri rispetto alla vita vera degli altri. Per questo, pur con la sua vicenda di un amore segreto e trepidamente nutrito nella giovinezza povera e umiliata, ma subito cancellato da lei stessa prima ancora di essere potuto giungere alla luce fuori di sé, Suor Virginia non ha nulla a che vedere con i personaggi naturalistici di donne misere, umiliate, vinte, come, per esempio, la protagonista di Un coeur simple di Flaubert, o la Barborin di Piccolo mondo antico o la verghiana Nedda: non è la vittima che pure emana una luce di bontà, di rassegnazione, di pazienza intorno a sé, perché non è consapevole di ciò che esiste al di fuori di sé, non ha relazioni con l’esterno, è immersa in un perenne fantasticare, nel nutrire dolcezze, attese, impulsi, che si concludono dentro di sé, senza avere né espressione all’esterno, né cercare in altro o in altri origine o conclusione. Debenedetti rifugge, nel narrare, da ogni modo realistico; ma, mentre il carattere superiore che Amedeo si arroga viene a fissarsi attraverso la ripetitività dell’autoesaltazione, mossa soltanto dalle sempre nuove angolature con cui il narratore esercita il suo giudizio morale, l’elementarità di Suor Virginia viene, invece, a essere oggetto di molto più minuziose e complesse sfaccettature. Entrambi i racconti sono anche metaracconti: Amedeo dell’impossibilità della rappresentazione del sublime e del tragico, perché il superuomo è iso ormai da un iato incolmabile dall’azione; Suor virginia dell’analoga e parallela impossibilità del racconto realistico dell’anima semplice e buona, perché anch’essa è ormai fatta estranea al mondo e alla vita e neppure può più presentarsi con l’aureola della vittima della malvagità o, almeno, dell’indifferenza del mondo, perché nulla che sia fuori di sé la coinvolge e la matura, e tutto non è che immaginazione o invenzione dell’anima, e tanto meno può emanare intorno a sé l’alone di bontà e di virtù, perché non è neppure consapevole che esista un mondo fuori di sé e perfino non ha coscienza dell’innocenza del cuore. Proprio perché il personaggio è così minuziosamente descritto negli anche minimi moti del cuore, ecco che si disfà anche come figura naturalistica della semplicità elementare, che, sì, ne è il dato di partenza, ma che poi è fatta oggetto di un’attenzione così isionisticamente analitica che finisce ad apparire come composto da una miriade di riflessi, di caratteri, di aspetti, di modificazioni. La sfida di Debenedetti, in Suor Virginia, è quella di scrivere un racconto che ha come protagonista un’anima semplice, ma descrivendo tale anima con il metodo analitico che è riservato letterariamente alle anime ricche d’interiorità, complesse, sublimi, di condizioni sociali e spirituali d’eccezione.

La tecnica visiva di Debenedetti raggiunge risultati esemplari soprattutto là dove si obiettiva nello sguardo di Suor Virginia:
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Ora se n’andava inseguendo, per uno smemorato giuoco, il vario ammiccare delle grane del selciato: e il battere monotono dei suoi tacchi l’accompagnava, isolandosi sempre più distinto nell’aria che il mezzogiorno faceva deserta e silenziosa. Senza ansie camminava, tra cose che non la sorprendevano: giacché i suoi sensi, agati ed attutiti, parevano sottrarsi ad ogni stimolo inconsueto e, pertanto, non le accusavano nulla che non le riuscisse familiare: l’odore che usciva dalle cucine, i suoni senza note che denunciano i fatti più comuni: imposte sbattute, tonfi di cose pesanti e il lontano martellare di un fabbro. (3)

I sensi di Suor Virginia sono “agati ed attutiti”: ma sono anche l’unico rapporto con ciò che è fuori di lei, il poco con cui entra in contatto, selezionato com’è da tale riduzione delle capacità sensoriali. La minuziosità del narrare finisce a esaltare il particolare che costituisce l’orizzonte conoscitivo, per lo più visivo e sonoro, di Suor Virginia:

    Ora ella si avvedeva di non sapere più dove fosse, né come si trovasse lì: ora che, nell’ombra cruda della nuvola, le cose stagliavano ferme e nitide, come se in quel momento fossero apparite, balzando chi sa donde: il lungo edificio giallino sul fondo della piazza ed il muretto, a lato della piazza, con il davanzale di pietra grigia e fredda. (4)

L’obiettivazione visiva del rapporto fra Suor Virginia e il mondo è perfetta: l’orizzonte del racconto, per quel che riguarda i suoi oggetti e i suoi spazi, è esclusivamente quello di Suor Virginia. È quello che Suor Virginia vede e sente: niente di più. Di contro, quello che sa il narratore è l’infinita sfaccettatura del cuore elementare e semplice di Suor Virginia. Sia che si tratti del passato di lavorante nel laboratorio di sartoria, prima di entrare in convento, sia del presente dell’arrivo nella città per lei straniera, nel terrore della novità, del luogo ignoto, delle sconosciute persone che l’attendono e ancor più di coloro a cui dovrebbe chiedere informazioni per trovare il nuovo convento, i particolari si addizionano ai particolari, tutti uscendo fuori dal punto di vista di Suor Virginia, che è incapace (come, in un’altra prospettica, Amedeo) di vedere il mondo in modo obiettivo, poiché sostituisce a ciò che è ciò che ella crede che sia.

La sua è una fantasticazione mite e un poco morosa, che fa sorgere in lei una sorta di senso di colpa:
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Adesso si sentiva, sì, spaesata tra tutte le novità delle quali le era toccato improvvisamente di avvedersi, mentre ancor più dolorosa si aggiungeva a quel sentimento di indifesa solitudine, la confusa coscienza di essere giudicata e condannata da qualcosa che ella non sapeva bene che mai si fosse; ma che, certo, era presente e la teneva in un’oscura suggezione. La sua colpa consisteva, forse, nell’essersi, così malcauta, spinta fino a quel luogo: ed ora l’apparizione di tante cose estranee ed ostili: di quel prato arido, di quella casa gialla – le rivelava il senso di quella colpa, associandosi per lei, in modo oscuro ma irrevocabile, alla capziosa e smaltata noncalenza nella quale si era lasciata scivolare, da quando era uscita dalla stazione. Infatti gli aspetti che ora la circondavano si erano mostrati con la complicità condiscendente e ambigua con cui il male amplia e sviluppa, da sé, una colpa anche inavvertita, – mentre ora se ne stavano stupiti e immoti, a farle più cocente la sua pena; ora che anch’ella, ravvedutasi, avrebbe voluto abolirne la presenza. (5)

Debenedetti parla di « onta sconosciuta », che impedisce a Suor Virginia di assumere per sé la parte della vittima: del coeur simple, appunto, della figura umiliata e vinta, ai margini dell’esistenza. Paradossalmente, Suor Virginia è un altro esempio, accanto ad Amedeo, di personaggio che è costruito in modo del tutto autonomo rispetto a ogni verifica obiettiva, chiuso in se stesso, in uno stato di perenne finzione, da cui non esce mai se non per incominciare un’altra finzione fantastica: il laboratorio, l’amore inventatosi, il lavoro per il convento, poi nel convento come suora, la rovina del convento, il trasferimento in un’altra città e in un altro convento per ordine di don Francesco, il vagare per la città straniera, l’arrivo davanti all’edificio giallo della caserma. Il senso di colpa è quello che nasce dall’oscura impressione di non essere capace d’altro che di soggiacere agli inganni delle cose per eccesso di dilettazione nella fantasticheria. È un senso di colpa kafkiano, in qualche modo, che ancor più allontana il personaggio di Debenedetti dal naturalismo delle vittime del mondo o dalla scelta del protagonista inetto a vivere. Proprio per il senso di colpa che avverte in sé, Suor Virginia è un personaggio contorto, complicato, un poco oscuro e contraddittorio, che desidera tenerezza e comprensione e contatti umani, ma poi li sente impossibili come per un muro di ostilità e di estraneità.

Il racconto si conclude emblematicamente con Suor Virginia che, come quel personaggio senza “forma” che è, finisce a lasciarsi vivere, come un oggetto, senza più coscienza del vivere, uguale alla margheritina che accarezza sorridendo, dopo averla raccolta nel prato:
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Il sole cadente dorava la piazza: nella festosa confusione della luce sciamavano disordinati i soldati, uscendo dalla caserma. Suor Virginia si sentiva in tutto agio tra quella gente; e si affidava alla letizia che intorno le vibrava con una partecipazione mansueta e segreta, che a lei pareva dovesse confonderla con tutti gli altri, farla uguale agli altri. Qualche cosa di bianco, tra l’erba, aveva già più volte attratto il suo sguardo: infine, ella si avvide che era una piccola margherita. La raccolse con un’ingenua tentazione di mettersela sul petto, e per il volto già le errava uno smemorato ed attonito sorriso: poi, ravvedutasi, ma senza pentimento, si mise a carezzarne ed a ravviarne le gracili fogliette biancorosate. (6)

Suor Virginia si annulla nel gesto di accarezzare i petali della margheritina: raggiunge una sorta di astrazione purissima, assoluta, che si concreta nel sorriso “smemorato ed attonito”, in una posa sbarbariana, da protagonista di Pianissimo. È, come il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila, non più se stessa, ma le persone che le passano accanto, l’ora del tramonto, la luce del sole che scende, la margheritina del prato. La pace senza rimorsi e sensi di colpa è nel non essere più, nell’accettare di essere senza forma dopo le tante forme tentate nel fantasticare, di uscire dal tempo e dallo spazio. L’eccezionalità del racconto di Debenedetti è proprio nell’invenzione di un personaggio infinitamente ricco e complicato sotto l’apparenza della semplicità e dell’ingenuità più disarmate. Svanire nel fiore è, montalianamente, la ventura delle venture.

Si delinea così, in modo perfetto, un narrare che si svolge tutto come descrizione dall’interno del personaggio in assenza dei fatti, con un’ascetica purezza che è ben superiore a quella, già mirabile, di Amedeo. È una linea che, dopo, non avrà più riscontri di tale impegno e ampiezza, se non, forse, in quello scrittore troppo ingiustamente dimenticato che è Montano. Ma Debenedetti ha una strenua coerenza, che porta alla perfezione il narrare come ritratto d’anima, disegnato dal punto di vista del personaggio e, al tempo stesso, dallo sguardo che totalmente si risolve nell’oggetto della narrazione e vede con gli occhi del personaggio stesso, con i suoi impulsi, con le sue idee, con i suoi stati d’animo, senza pretendere di conoscerne nulla di più, anche perché il personaggio stesso non è mai veramente a contatto con eventi, incontri, scontri, situazioni, azioni da compiere o da altri compiute, anzi tale contatto o rifiuta o neppure rileva e comprende. La memoria folta di tempi e figure oppure il ritorno al realismo, con il prefisso “neo-” più o meno opportunamente aggiuntovi, saranno di lì a poco le vie della nostra narrativa; e poi il simbolo, il mito, non questo accanimento dello scrittore per astrarre i suoi personaggi dallo spazio e dal tempo, cioè dalle rappresentazioni fondamentali, dalle categorie che da sempre sono connaturate con il genere narrativo, per l’ambizione della descrizione di una problematicità assoluta, che è nel potere dello scrittore porre, esaminare, svolgere, presentare, variare, descrivere, raccogliere per comporne le due figure d’eccezione, fuori di ogni regola sociale e letteraria, che sono Amedeo e Suor Virginia. Personaggi senza relazioni col mondo, se non negative e di esclusione, quelli di Debenedetti presentano una forma di narrativa fortemente intellettualizzata, problematica, lucidamente concettuale (e le Operette morali, oltre tutto ulteriore riferimento rondista, possono, sì, essere citate come modello di una prosa che, tuttavia, Debenedetti piega, con l’esperienza di scrittori vociani come Boine, Sbarbaro, lo stesso Papini e, soprattutto, del D’Annunzio della narrazione di memoria e d’infanzia e adolescenza, verso esiti di racconto molto più di quanto accada nelle prose di Cardarelli).

Molto meno originali sono i due altri racconti del libro. Cinema Liberty è un raccontino di costume e di memoria, del genere di quelli che tanto piaceranno alla narrativa toscana dei tardi anni Trenta e degli anni Quaranta, con particolare riferimento a Bilenchi, al Pratolini de Il tappeto verde, Le amiche, Il quartiere, o a Piero Santi, quello dei racconti sui cinematografi di Firenze. È una agazione, condotta con un che di curiosamente svagato, fra la rievocazione del passato del quartiere cittadino, il gusto dell’osservazione di costume, l’attenzione al mutare delle abitudini, delle idee, dei comportamenti: ma quasi per un gioco della memoria, per un’ombra di scherzo e di ironia, che investe, in un linguaggio che tende all’affabulazione, una specie di capitolo della vicenda di una città prudente, chiusa, molto per bene, nella quale l’apertura di un cinematografo viene a segnare una specie di pressoché folle avventura di modernità, con tutto quello che di lievemente peccaminoso ed eccitante è legato all’ancora nuovo modo di spettacolo. Lo stile di Debenedetti si fa qui molto più semplice e limpido, e appena lo increspa la nostalgia connessa con la memoria, ma con qualcosa di ironico, che rimanda questo racconto, come anche l’ultimo del libro, Riviera, amici, verso una matrice specificamente gozzaniana.

Penso, naturalmente, ai racconti di Gozzano, quelli che rievocano luoghi e momenti della minore storia di Torino, fra mondanità e avventura prudente, con la nota dell’ironia pronta sempre a scattare; e un racconto di Gozzano è, per tutta la parte che si riferisce a Irma, alla donna che il protagonista di Riviera, amici, va a cercare per portarla con sé in Riviera, d’inverno, la piccola prostituta a cui si offre l’occasione di una tranquilla e agiata vacanza con la condizione che si mascheri un poco almeno da ragazza per bene. Ma gozzaniano è pure il vagare per il Valentino in cui ancora ci sono tracce di neve e ghiaccio:
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[...] sono venuto in questo parco che non dà segno di riconoscermi, che mi offre soltanto, senz’altre ricordanze che lo complichino, l’ultimo, il più recente aspetto della sua bellezza: questa fissità sovrannaturale dei viali e degli alberi brulli, e tutte le sue linee rese definitive dalla modellatura che ne ha fatta la neve ghiacciata. (7)

Certo, subito dopo Gozzano, sempre nel parco, è abbandonato per D’Annunzio, con un’orchestrazione di citazioni e di mimesi musicali che portano la narrazione verso una sublimità di sensazioni e di prosa che più non è gozzaniana:

    Porto per i viali il mio stupore di essere vivo, come un uccello solitario che saltando di ramo in ramo cantasse e fosse ancora, sotto la pace fredda delle stelle, nella sua ebbrezza musicale, la più lieta creatura del mondo. Le bacche risecche, la crosta vetrata della neve, le foglie morte accartocciate come cartigli vibranti, orchestrano i loro suoni virtuali ed ancora impliciti, sullo sfondo remoto dei rumori cittadini sospesi al di sopra delle case e come, amalgamati nella nuvola rossastra di chiarore che sulla città vapora: quasi che in essa, in questa città che mi pare un ricordo sepolto, si aggirasse un baccanale al lume di torce a vento. Ma non dànno suono le frementi spoglie del parco: paghe si stanno della loro intatta virtù di cantare; e l’assenza di ogni suono è già una musica, che io ascolto. inamente essa bacia un’altra musica: quella di cui ora la mia estasi trabocca. (8)

Ci sono, del repertorio dannunziano, i cartigli, inamente, i suoni virtuali, il baccanale; e c’è la citazione ancora gozzaniana del rumore della città che penetra fin nel parco; e ci sono frequenti endecasillabi o comunque versi di ritmo endecasillabico, come « sotto la pace fredda delle stelle », « sullo sfondo remoto dei rumori », « la crosta vetrata della neve », « non dànno suono le frementi spoglie » , « l’assenza di ogni sogno è già una musica », « nuvola rossastra di chiarore », « paghe si stanno della loro intatta », « inamente essa bacia un’altra musica », « di cui ora la mia estasi trabocca ». È una pagina calcolatamente lirica, dove spunta una tentazione del verso che è presente in tutti i racconti, ma si condensa qui in modo più evidente, quasi clamoroso.

A un’opportuna convergenza di D’Annunzio e Gozzano è da ascrivere, invece, l’attenzione alla moda, che riguarda, naturalmente, il personaggio di Irma:
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Di certo avrà nel suo guardaroba un attillato abito bianco, un cappello chiaro: residui della sua eleganza estiva [...] Irma in bianca veste scenderà, sul mezzodì, alla spiaggia con un fascio di mimose in braccio. (9)

E del tutto gozzaniano è il ritratto della ragazza in treno, mentre cerca di darsi un contegno che nasconda la sua condizione di prostituta sollevata per l’occasione alla parte di compagna di viaggio e di vacanze di un giovane elegante e intellettuale. Ma Riviera, amici ben presto volge verso altre soluzioni letterarie: non soltanto per l’impegno del narratore nell’indagare su se stesso, spiegandosi, rivelandosi, definendo il proprio carattere e le proprie idee, illuminando le pieghe della propria anima, quanto perché, come già nella passeggiata nel parco del Valentino, ma ora in modo autonomo rispetto ai modelli, Debenedetti inserisce nel narrare il commento, l’osservazione critica, la fine ed elegante variazione su musica (nell’occasione della citazione del Parsifal fatta da Irma), pittura (le Langhe che evocano paesaggi leonardeschi), letteratura: gli Argonauti di Apollonio Rodio (che è citazione particolarmente raffinata e preziosa, da acuto ed eccezionale cultore della poesia), Ludovici, Grande, il “triestino Bobi”, soprattutto, infine, Montale, di cui Debenedetti cita e analizza alcuni versi “liguri” degli Ossi di seppia, proprio su tale esercizio critico e, al tempo stesso, descrittivo chiudendo il racconto, con un estremo gioco ironico di allusione letteraria non priva di un riferimento antifrastico all’ulissismo dannunziano: « Dimenticavo quasi di scendere a Noli: anzi, al mio “riposato angolo di una delle Cicladi” », dove la familiare Riviera ligure viene a porsi come la meta dell’avventura, quella degli Argonauti e di ogni altro ulissìde, per un estremo ertimento della parola, che già, prima, aveva imitato in falsetto preziosità dannunziane e gozzaniane al tempo stesso ( « Così beata, immillando a fior dell’onde il suo splendore, la luce degli arcipelaghi dové secondare, nei meriggi più sereni, il viaggio della nave Argo verso la Colchide » (10) )

Ecco: il narrare di Debenedetti si volge verso il saggio, anche come meditazione sull’incontro fra lettore e testo, letteratura e vita, fino a toccare, appunto, i confini del discorso saggistico che non sia soltanto analisi del testo, ma anche ritratto di un’educazione intellettuale come esemplare perché capace di riaffabulare Omero e i poeti alessandrini di viaggi e imprese di mare e di conquiste non per l’avventura dell’ulissismo, ma per quella della reinvenzione letteraria, che è in grado di trasfigurare Noli in un angolo delle Cicladi e il viaggio in treno fra Torino e il paese della Riviera in una sorta di navigazione eroica (nella quale, naturalmente, il protagonista non può che essere solo, tanto è vero che abbandona Irma alla stazione di Savona, rimandandola a casa sua per quella vacanza di Natale alla quale aveva rinunciato per accompagnare il giovane in Riviera). Ma c’è di più: il racconto inizia con un primo capitolo che riproduce una parte del romanzo Vita di Stefano Strozzi, poeta, che il protagonista dichiara di interrompere proprio per partire per la Riviera: storia che ripete lo stile e i modi di Amedeo, con l’aria di voler dare al personaggio e alle vicende che lo riguardano un respiro maggiore, una distensione più agiata, un ritmo meno contratto e monocorde. È una sorta di gioco letterario anche questo: un’autocitazione che è anche il rinvio del lettore al di là del libro attuale, verso il libro futuro, canonicamente definito come “romanzo”, cioè situato nel genere di più sicura accettazione e di più probabile diffusione.
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La narrativa di Debenedetti svaria, così, dalla perfezione del ritratto d’animo di Amedeo e di Suor Virginia alla cronaca di Cinema Liberty fino al gioco letterario e un poco in falsetto di Riviera, amici. Devo dire che, a malgrado della commozione della materia e dell’indubbia forza dello stile, 16 ottobre 1943 è opera, per la maggior parte, di minore originalità, anche in rapporto con altri testi dedicati alle persecuzioni razziali (e penso soprattutto a Primo Levi); e Otto ebrei è, sì, l’opera di un moralista acuto e lucidissimo, ma patisce forse di una certa contrazione e rapidità, dopo la splendida occasione di meditazione e di giudizio offerta dal funzionario della questura di Roma che depenna dalla lista di coloro che dovranno essere fucilati alle Fosse Ardeatine otto ebrei e, dopo la liberazione, se ne fa un merito. Sì, Otto ebrei apre il discorso sui “sommersi” e sui “salvati”, che sarà, poi, di Primo Levi: non si salva chi salva otto ebrei mentre tutti gli altri, indicati nell’elenco, secondo il numero fissato per la rappresaglia dei tedeschi, andranno a morire, soprattutto se tale salvezza per gli ebrei viene a essere il frutto di un calcolo per farsi meriti con i nuovi padroni, quando i tedeschi se ne saranno andati. Ma Debenedetti sembra resistere, per un’esitazione interna, di genere letterario, al pieno dispiegamento del narrare e dell’analisi etica: e allora anche Otto ebrei finisce a contrarsi troppo e a lasciare spazio a voci dal di fuori del libro, come se il narratore Debenedetti a un certo punto rinunciasse a parlare come tale, e si chiamasse fuori, lasciando la parola ad altri (nell’occasione, la Lettera a Hitler di Louis Golding). È il segno, molto probabilmente, della rinuncia di Debenedetti a parlare direttamente, non attraverso i libri altrui, del Tommaseo e del Pascoli e del Verga e dell’Alfieri e di tanti altri ancora.


NOTE

1. G. Debenedetti, Amedeo e altri racconti, Torino, Edizioni del “Baretti”, 1926; ora a c. di E. Ghidetti, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 12.
2. Ibid., p. 15.
3. Ibid., p. 33.
4. Ibid., p. 35.
5. Ibid.
6. Ibid., p. 54.
7. Ibid., p. 64.
8. Ibid., pp. 64-65.
9. Ibid., p. 65.
10. Ibid., p. 72.