Invece di una dedica

di Antonio Debenedetti

Ho raccontato in Giacomino, usando gli incauti inchiostri dell’affetto, quel che mia madre Renata raccontava della nostra casa, della nostra famiglia facendone, a dispetto di molte e gravi difficoltà, un ‘mondo in un mondo’ poetico come erano poetici i capricci di Umberto Saba (l’amico più amico di mio padre) o le generose sconsideratezze tolstoiane di nostra nonna Valentina.

Mi sono chiesto spesse che cosa spingesse mia madre a fare delle nostre giornate nella casa di via Sant’Anselmo un romanzo alla russa. La risposta credo di averla trovata adesso che lei non c’è più. Comportandosi come ho appena detto ‘la gentilissima Renata’ si scusava a suo modo, cioè con un’eleganza che non doveva sembrare elegante, di aver dato a mia sorella Elisa e a me un’esistenza che guerre, persecuzioni, pericoli di ogni genere mettevano continuamente in dubbio.

Il mio peccato è stato dunque grande e innocente. Ho voluto infatti unire la voce della mamma alla mia, facendo quel che forse nemmeno a Edipo sarebbe riuscito. Ne sono nate pagine sentimentalmente intrepide e (credo) in qualche momento intollerabili proprio per la loro bambinesca irragionevolezza.

Se Renata è l’ispiratrice di questo libro, l’autore sono io e mie le responsabilità degli eventuali errori.

Giacomino, al suo apparire otto anni fa, ha suscitato affetto ma anche rabbia. Il rimprovero? Aver peccato di irriverenza. Non aver capito mio padre e non averlo capito come chi non volendomi bene avrebbe voluto che lo capissi facendo torto alla mia verità di figlio. Avrei infatti avuto l’ardire, sorvolando sul suo infaticabile lavoro, di dipingere Giacomo Debenedetti, ‘il primo critico letterario italiano’ (Contini), come un potenziale rabbino vestito delle abitudini di un dandy. Lo ammetto. Non sono stato obiettivo. Può darsi che abbia in parte fatto di mio padre il modello realizzato di quello che io (non lui) avrei voluto essere. Che male c’è? Credo inoltre di aver recuperato e portato a conoscenza dei lettori molti episodi, legati alla vita quotidiana e alle amicizie di Debenedetti, che solo un familiare poteva conoscere. (Rimando, per l’ampia documentazione, allo studio di Paola Frandini Il teatro della memoria, Manni editore).

Una domanda, a questo punto. Non sarebbe stata presunzione inaccettabile da parte mia cercar di capire Giacomino come era davvero e non come trasalimenti, rivolte, tenerezze e nostalgie venivano riproponendolo alla mia memoria di figlio? Da trentacinque lavoro, insieme con molti amici più bravi e più attrezzati di me, perché si riconosca a pieno l’importanza di Debenedetti nel Novecento italiano. A volte sento però il bisogno di ribellarmi proprio all’intelligenza e bravura di Giacomino, ritrovando così il padre che la letteratura e il consenso postumo hanno finito col togliermi. E’ così difficile da capire? Sono un figlio, ho scritto da figlio e non da quel professore universitario che non sono e non ho mai tentato di essere.

Tutto questo sentivo di dover precisare ripubblicando questo libro privato, certo non immune da almeno una imperdonabile omissione: manca infatti il ricordo di Sergio Solmi, che di mio padre fu amico importante, stimato e fedelissimo. Ma Solmi stava a Milano e noi a Roma. Questa trascurabile distanza si è rivelata tuttavia incolmabile agli occhi di quel bambino che è, che rimane il vero autore di Giacomino.